Sentenza n. 300/2000

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SENTENZA N. 300

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Francesco GUIZZI 

- Fernando SANTOSUOSSO 

- Massimo VARI 

- Cesare RUPERTO 

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY 

- Valerio ONIDA 

- Carlo  MEZZANOTTE 

- Fernanda CONTRI 

- Guido NEPPI MODONA 

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI 

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis, comma 2 - recte: commi 1 e 2 - del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359, promossi con ordinanze emesse il 26 marzo 1998 ed il 10 febbraio 1999 (n. 2 ordinanze) dalla Corte d'appello di Milano, rispettivamente iscritte al n. 559 del registro ordinanze 1998 ed ai nn. 300 e 304 del registro ordinanze 1999 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell'anno 1998 e n. 22, prima serie speciale, dell'anno 1999.

Visti l'atto di intervento del Comune di Cologno Monzese, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 23 febbraio 2000 il Giudice relatore Riccardo Chieppa.

Ritenuto in fatto

1.- Nel giudizio promosso dalla società "I.S.A. S.r.l." contro la determinazione dell'indennità definitiva di esproprio resa dalla Commissione provinciale, la Corte d'appello di Milano ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis, comma 2 - recte: commi 1 e 2 - del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359, nella parte in cui non subordina l'applicazione dell'abbattimento del 40% dell'indennità di espropriazione nel giudizio di determinazione instaurato dopo l'espropriazione, all'accertamento che l'indennità provvisoria offerta al privato sia conforme ai criteri di legge.

Premette, il giudice a quo, che dalla consulenza tecnica espletata nel giudizio di opposizione alla stima il valore venale, da assumere nel calcolo dell'indennità, è risultato di Lire 60.901 al mq. e, secondo un computo pari alla "semisomma del valore venale e del coacervo decennale dei redditi catastali", si perveniva a complessive Lire 17.330.000 ridotte al netto della diminuzione del 40% a Lire 10.400.000.

Per contro, vi era stata una richiesta giudiziale dell’espropriato di Lire 160.000 al mq. di fronte alla proposta dell'amministrazione (determinata sulla base del valore venale di Lire 45.000 al mq.), di Lire 13.542 al mq., al netto della riduzione del 40%.

Sulla valutazione effettuata dal consulente tecnico di Lire 60.000/mq. hanno concordato le parti, il cui dissenso, tra l’altro, si è concentrato sulla applicabilità o meno della "riduzione" del 40%, prevista dall'art. 5-bis del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, nella legge n. 359 del 1992, alla indennità dovuta, avendo l'espropriato rifiutato in un primo momento la cessione volontaria sulla base di una indennità provvisoria determinata dall'ente in misura palesemente insufficiente, ed essendo, invece, "disponibile alla cessione volontaria del bene per un corrispettivo pari a quello indicato dal consulente tecnico".

Il giudice a quo prospetta una ricostruzione interpretativa secondo cui la tutela giurisdizionale del diritto soggettivo del privato ad un corrispettivo (serio indennizzo), tutelato dall'art. 42, terzo comma, sarebbe garantita qualora, nell'ambito del procedimento di determinazione dell'indennità di espropriazione, la decisione amministrativa della giusta indennità dovuta per legge costituisse un presupposto di legittimità della cessione volontaria e tale base fosse essa stessa presupposto di legittimità dell'abbattimento del 40% dell'indennità in sede di accertamento giurisdizionale. La determinazione giudiziale dell'indennità comporterebbe di conseguenza l'abbattimento del 40% solo sul presupposto di un accertamento dell'indennità dovuta in una misura corrispondente - o inferiore - a quella offerta dall'ente espropriante (e della conseguente infondatezza del rifiuto del privato).

Tuttavia, rileva il giudice rimettente, tale soluzione interpretativa non sembra percorribile alla luce della disciplina dettata dall'art. 5-bis del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, nella legge n. 359 del 1992, laddove esclude la possibilità che in sede giurisdizionale possa essere omesso l'abbattimento del 40%. Non sarebbe, infatti, consentito l'accertamento delle cause del mancato perfezionamento della cessione volontaria nell'ipotesi di disaccordo sull'ammontare dell'indennità dovuta per legge, né sarebbe prevista la possibilità di sanzionare l'eventuale responsabilità dell'amministrazione che, omettendo una proposta rigorosamente conforme ai parametri di legge, ovvero, non accettando una proposta conforme a tali parametri, ma divergente dalla valutazione espressa in sede di determinazione della indennità provvisoria, non abbia consentito al privato di conseguire, con il meccanismo della cessione volontaria, quanto effettivamente dovuto, con l'esclusione dell'abbattimento del 40%. Aggiunge che l'amministrazione, ancorché nell'accertamento dell'indennità provvisoria sia vincolata ai parametri di legge, nel determinarsi alla cessione volontaria opera nella sfera della sua autonomia privata.

Da quanto sopra, il giudice rimettente fa derivare la violazione dell'art. 3 della Costituzione per violazione del principio di uguaglianza, atteso che il trattamento riservato agli espropriandi varia in ragione di comportamenti insindacabili della pubblica amministrazione. Né residuerebbe "alcuno spazio per un accertamento giudiziale delle responsabilità (vale a dire, del fatto che l'accordo sia mancato per le richieste eccessive del privato o per l'offerta insufficiente della pubblica amministrazione)".

La norma denunciata comporterebbe, inoltre, violazione dell'art. 97 della Costituzione per violazione del principio di imparzialità, in ragione della diversa disponibilità, di fatto consentita alla pubblica amministrazione, a negoziare la cessione volontaria, e del principio di legalità dell'azione amministrativa, in quanto il riferimento ai parametri di legge nella determinazione dell'indennità provvisoria non condizionerebbe il potere espropriativo della pubblica amministrazione, ancorché sanzionabile nella sede della giurisdizione amministrativa e non garantirebbe, pertanto, una tutela adeguata in ordine alla cessione volontaria per un prezzo corrispondente a quello stabilito dalla legge.

La norma impugnata si porrebbe, infine, in contrasto con il principio della tutela giurisdizionale dei diritti, sancito dall'art. 24 della Costituzione, giacché l'accertamento del diritto leso darebbe luogo ad una determinazione punitiva per la parte che intende farlo valere, vanificando di fatto il suo buon diritto ancorché riconosciuto fondato.

2.- Nel giudizio innanzi alla Corte si è costituito il Comune di Cologno Monzese, il quale, pur non essendo parte in causa nel giudizio principale, giustifica il proprio intervento con il fatto che lo stesso è convenuto in altro giudizio, avente ad oggetto la medesima questione.

Il Comune anzidetto ha concluso per l’infondatezza della questione sollevata.

3.- Nel corso di due giudizi, proposti contro il Comune di Malgrate e la Comunità montana del Lario orientale rispettivamente dalla Società Immobiliare Malgrate e da Consonni Luigia, la stessa Corte d'appello di Milano sollevava, con due distinte ordinanze in data 10 febbraio 1999 (r.o. nn. 300 e 304 del 1999), analoghe questioni di legittimità costituzionale. In entrambi i giudizi, i proprietari espropriandi avevano fin dall’inizio dichiarato la disponibilità a convenire la cessione volontaria dell’immobile ad un prezzo commisurato (non all’indennità provvisoria comunicata dal Comune) bensì all’importo che sarebbe stato definitivamente determinato dalla competente commissione provinciale. Il giudice a quo ha introdotto il riferimento ad ulteriori parametri costituzionali, sulla base di argomentazioni non dissimili da quelle già riferite.

In particolare, secondo la Corte d'appello di Milano, la norma esaminata violerebbe anche l'art. 113 della Costituzione, poiché la proposizione dell'azione giudiziaria vanificherebbe comunque il diritto dell'espropriato in seguito ad una scelta lasciata al mero arbitrio dell'amministrazione; nonché l'art. 42 della Costituzione, in quanto il diritto di proprietà verrebbe privato delle garanzie di legge, riconosciute anche nell'ambito della procedura espropriativa, atteso che l'amministrazione sarebbe del tutto libera di fare un'offerta di indennizzo manifestamente insufficiente, prima di procedere all'emissione del decreto di esproprio e, una volta emesso il provvedimento ablativo, di conseguire lo stesso risultato ove convenuta in giudizio.

4.- In tutti i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, con il patrocinio dell'Avvocatura generale dello Stato, la quale prospetta un profilo di inammissibilità per irrilevanza, atteso che la questione verrebbe riferita al comma 2 dell'art. 5-bis anzidetto. Più correttamente, precisa l'Avvocatura, la questione dovrebbe ritenersi proposta nei confronti del "primo comma, secondo periodo" della norma in questione, anche in coerenza con l'iter argomentativo svolto nelle ordinanze di remissione.

L'inammissibilità è, tuttavia, prospettata dalla difesa erariale anche sulla base di un’ulteriore argomentazione. Secondo l'autorità interveniente, in primo luogo, l'unico elemento di calcolo che può condurre a contrasti tra le parti è rappresentato dal valore venale dell'immobile, suscettibile di diverso apprezzamento soggettivo ed irriducibile - come tale - a predeterminati criteri legali; in secondo luogo, la determinazione provvisoria dell'indennità di esproprio non è riferibile, nel sistema delle leggi n. 865 del 1971 e n. 359 del 1992, all'espropriante bensì ad un terzo (con conseguente impossibilità di imputare a quello le conseguenze, in termini di mancata conclusione del trasferimento consensuale, di un’incongrua, per difetto, valutazione del bene); in terzo luogo, la pronunzia "additiva", cui tende l'ordinanza di remissione, non sarebbe di quelle a "contenuto necessitato", attesa l’inevitabile elasticità del primo addendo della semisomma, con la conseguenza che il parametro di giudizio della congruità dell'offerta indennitaria potrebbe essere situato, con uguale ragionevolezza, entro una gamma di soluzioni possibili, riservate alla discrezionalità del legislatore.

Nel merito, l'Avvocatura ha concluso per la infondatezza delle questioni sollevate.

Considerato in diritto

1.- Le questioni di legittimità costituzionale, sottoposte in via incidentale all'esame della Corte, riguardano l'art. 5-bis, comma 2 - recte: commi 1 e 2 - del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359, nella parte in cui non subordina l'applicazione dell'abbattimento del 40% dell'indennità di espropriazione, nel giudizio di determinazione instaurato dopo l'espropriazione, all'accertamento che l'indennità provvisoria offerta al privato sia conforme ai criteri di legge.

Viene denunciato il contrasto con l'art. 3 della Costituzione, per violazione del principio di uguaglianza, in quanto il cittadino subirebbe un trattamento diverso sulla base di comportamenti insindacabili della pubblica amministrazione; con l'art. 97 della Costituzione, per compromissione dei principi di imparzialità, in ragione della diversa disponibilità, di fatto consentita alla p.a., di negoziare la cessione volontaria; di legalità dell'azione amministrativa, in quanto il riferimento ai parametri di legge nella determinazione dell'indennità provvisoria non condizionerebbe il potere espropriativo della p.a., e non garantirebbe, pertanto, una tutela adeguata in ordine alla cessione volontaria per un prezzo corrispondente a quello stabilito dalla legge; con gli artt. 24 e 113 della Costituzione, in quanto la riduzione del 40% menomerebbe eccessivamente il diritto di difesa, sottoponendo ad ingiustificati rischi chi agisce in giudizio per tutelare un proprio diritto; con l'art. 42 della Costituzione, in quanto il diritto di proprietà verrebbe privato di quelle garanzie di legge ad esso riconosciute anche nell'ambito della procedura espropriativa.

2.- I giudizi, aventi per oggetto la stessa norma, possono essere riuniti, stante la evidente connessione oggettiva ed attesa la parziale identità delle questioni proposte, di modo che possono essere decisi con unica sentenza.

3.- L’intervento del Comune di Cologno Monzese deve essere dichiarato inammissibile, in quanto il Comune anzidetto non è stato parte in causa nel giudizio a quo, in cui è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale con l’ordinanza del 26 marzo 1998 della Corte d'appello di Milano, a nulla rilevando che era parte in un diverso giudizio in cui è dibattuta analoga questione, tuttavia non rimessa all’esame della Corte.

4.- E’ pregiudiziale l’esame della eccezione di inammissibilità sollevata dalla Avvocatura generale dello Stato.

L’eccezione non può essere accolta. Innanzitutto non può configurarsi una irrilevanza della questione proposta, secondo quanto risulta dal dispositivo delle ordinanze, relativamente al secondo comma dell’art. 5-bis. Infatti, dall'iter argomentativo svolto nelle ordinanze di rimessione, si desume che la censura è rivolta contro il sistema dell’abbattimento del 40% e delle relative esclusioni, sotto il profilo che doveva essere espressamente prevista la non applicazione, anche nella ipotesi di indennità provvisoria offerta al soggetto espropriando in misura inferiore a quella determinata secondo i criteri di legge. Secondo l’ordinanza si dovrebbe pervenire ad un medesimo trattamento di esclusione, parificando, quanto agli effetti, la cessione volontaria ed il legittimo rifiuto da parte del proprietario di indennità provvisoria inferiore, anche perché vi sarebbe stata fin dall’origine della procedura una dichiarata disponibilità alla cessione volontaria sulla base di un valore (diverso da quello commisurato all’indennità provvisoria) che sarebbe stato determinato dalla Commissione provinciale.

In sostanza, viene chiaramente investito il sistema del combinato disposto dei commi 1 e 2, di modo che la richiesta di sentenza additiva è agganciabile ad una qualsiasi delle due disposizioni, essendo chiara nelle ordinanze la individuazione della questione, riferita, con evidenza, a tutte e due le norme, con ciò potendosi superare la più limitata indicazione nel dispositivo delle tre ordinanze del giudice a quo.

5.- Le questioni proposte non sono fondate.

Come sottolineato con la recentissima sentenza n. 262 del 2000, rispetto ad analoga questione, l’art. 5-bis - sia pure in via temporanea fino alla emanazione di una (sempre auspicata) organica disciplina per tutte le espropriazioni per opere ed interventi pubblici o di pubblica utilità- detta una disciplina generale per la determinazione della indennità di espropriazione per le aree edificabili, recependo - con una correzione - il sistema (a suo tempo introdotto con la legge sul risanamento della città di Napoli) della media di due valori (o semisomma), desunti uno dal "valore venale" e l’altro dal "reddito" moltiplicato per 10. Il sistema è stato corretto con la eliminazione del criterio del "reddito", previsto prioritariamente dalla legge 15 gennaio 1885, n. 2892 rapportato ai "fitti coacervati dell’ultimo decennio", e con l’utilizzo invece del criterio sussidiario (previsto dalla predetta legge del 1885), agganciato (sempre con il rapporto moltiplicatore di dieci) all’imponibile tributario agli effetti delle imposte sui terreni. Un ulteriore correttivo (di aggiornamento) è stato apportato mediante l’espresso riferimento al reddito domenicale rivalutato di cui agli articoli 24 e seguenti del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, e con l’applicazione di una riduzione del 40% all’importo della media così risultante.

In realtà, l’indennità di esproprio per le aree edificabili è, in via normale, pari al 60% della media (semisomma) dei due valori: valore venale e valore di redditività, pari al decuplo del reddito (coacervo di 10) considerato ai fini tributari (art. 5-bis, comma 1).

I problemi di costituzionalità di tale meccanismo sono stati più volte esaminati dalla giurisprudenza della Corte con riguardo alla legge 15 gennaio 1885, n. 2892 (art. 13, terzo comma) con le sentenze n. 5 del 1960 e n. 216 del 1990. Lo stesso esame è avvenuto con riferimento all’attuale sistema comportante la riduzione del 40%, pervenendosi all’esclusione dei vizi denunciati sotto molteplici profili, relativi agli artt. 3, 24, 42 e 113 della Costituzione (sentenze nn. 283 e 442 del 1993; ordinanza n. 414 del 1993; arg. da sentenze n. 369 del 1996 e n. 148 del 1999).

Tale indirizzo deve essere ulteriormente confermato (vedi anche la recentissima sentenza n. 262 del 2000), non essendo stati dedotti elementi che possano condurre ad una diversa soluzione sotto il profilo della legittimità costituzionale delle norme denunciate.

6.- Anche il nuovo parametro dell’art. 97 della Costituzione, sotto i profili della imparzialità e della legalità, non può portare ad una soluzione di fondatezza in ordine al sollevato dubbio di costituzionalità.

Innanzitutto l'eventuale prospettato comportamento di singole amministrazioni, che, nel corso del procedimento di espropriazione, non si attengano ai parametri di legge nella determinazione della indennità, ed il cattivo uso delle facoltà di gestione amministrativa non possono influire sulla legittimità costituzionale della norma applicata, che riguarda solo il modo del calcolo della indennità e il prezzo della cessione volontaria.

Sul piano specifico del richiamato art. 97 della Costituzione deve essere sottolineato che le norme denunciate non attengono alla creazione od organizzazione dei pubblici uffici, o alla struttura degli apparati ed alla articolazione delle competenze, né a profili organizzativi o di funzionamento o di esercizio di poteri della pubblica amministrazione, neppure come disciplina dei procedimenti amministrativi, né ad obiettivi di trasparenza, pubblicità, partecipazione e tempestività dell’azione amministrativa, che si ricollegano tutti al principio costituzionale di buon andamento dell’amministrazione (sentenze n. 40 del 1998 e n. 262 del 1997).

7.- Infine, non può configurarsi una manifesta irragionevolezza nella scelta discrezionale (tra modalità e strumenti diversi) del legislatore di incentivare la cessione volontaria - rispetto all’ordinario procedimento espropriativo e relativa indennità - anche sotto il profilo della agevolazione sul piano economico (esclusione dell’abbattimento del 40%). Infatti trattasi di tradizionale sistema deflattivo del contenzioso, coerente e congruo rispetto al fine che si vuole conseguire, in relazione alle esigenze generali di speditezza ed efficienza dell’azione amministrativa nella fase di acquisizione delle aree per ragioni di pubblica utilità.

In ordine al concreto esercizio delle facoltà di addivenire alla cessione volontaria non viene escluso o limitato il ricorso ad alcuno dei mezzi di tutela previsti dall’ordinamento e, nello stesso tempo, non vi è un impedimento ad azioni a difesa delle posizioni soggettive lese da discriminazioni o da assenza di imparzialità.

8.- Il comma 2 dell’anzidetto art. 5-bis disciplina - come ha posto in rilievo la citata sentenza n. 262 del 2000 - una ipotesi sostanzialmente diversa - rispetto alla normale procedura espropriativa - diretta a ridurre il contenzioso ed a facilitare una via transattiva di cessione volontaria delle aree edificabili espropriate, consentendosi, "in ogni fase del procedimento espropriativo", la cessione volontaria per un prezzo commisurato alla indennità di esproprio calcolata ai sensi del comma 1, senza tuttavia l’applicazione della riduzione del 40%.

In altri termini il legislatore, nella valutazione che l’indennità di espropriazione così ragguagliata al valore venale ed al calcolo della media aritmetica con un altro addendo, sia pure determinato per relationem, possa essere oggetto di contestazione e di ricorso alla giurisdizione, con possibilità di aumento del contenzioso a seguito di azione giudiziaria dell’espropriando, ha ritenuto di offrire una maggiorazione nel caso si addivenga alla cessione volontaria.

Il legislatore ha voluto garantire - seguendo un indirizzo non nuovo nel sistema delle espropriazioni- un importo per la cessione volontaria (corrispondente a prezzo) maggiore (senza la riduzione del 40%), rispetto alla indennità di espropriazione, così pervenendo al 100% (anziché 60%) della media sopraspecificata (modello legge di risanamento della città di Napoli), con correzione del parametro dei "fitti coacervati" in quello del decuplo del reddito dominicale rivalutato (sentenza n. 262 del 2000).

Il soggetto espropriando ha una scelta tra la via della contestazione giudiziaria dell’indennità (offerta) di espropriazione e quella della cessione volontaria ad un prezzo maggiorato rispetto alla suddetta indennità. Tale scelta, come in ogni accordo con profili transattivi, è effettuata secondo un soggettivo calcolo di convenienza, valutando i rischi (di durata e di esito) di ogni azione giudiziaria, con la conseguenza che l’indennità definitiva sia determinata anche giudizialmente con un risultato finale meno vantaggioso del prezzo ricavabile dalla cessione volontaria ai sensi del comma 2 dell’art. 5-bis.

9.- Se poi sussistano contestazioni sul verificarsi della cessione volontaria e sui limiti temporali della realizzazione e sui relativi presupposti, sono tutte questioni esclusivamente di interpretazione delle anzidette norme nel sistema delle espropriazioni rientranti nelle attribuzioni del giudice istituzionalmente competente.

Anche sotto questo riguardo, non può che ribadirsi che gli eventuali prospettati abusi delle autorità amministrative nella determinazione della indennità di esproprio offerta al soggetto espropriato, ovvero non congrue valutazioni nella determinazione della indennità, non possono influire sulla legittimità costituzionale delle stesse norme, restando questi profili estranei al presente giudizio di costituzionalità.

Allo stesso modo, rilevato che le esigenze di superare alcune anomalie di applicazione delle norme denunciate o di malfunzionamento degli organi amministrativi hanno potuto trovare, in casi più manifesti, diversi rimedi e soluzioni, deve essere confermato che la concreta praticabilità degli strumenti raffigurati dalla prassi e dalla giurisprudenza rientra "nelle scelte di tutela delle parti e nelle esclusive valutazioni interpretative dei giudici chiamati ad applicare le norme relative" (sentenza n. 262 del 2000).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis, commi 1 e 2, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 42, 97 e 113 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Milano con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 luglio 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Riccardo CHIEPPA, Redattore

Depositata in cancelleria il 19 luglio 2000.