Sentenza n. 262/2000

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SENTENZA N. 262

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Francesco GUIZZI, Presidente

- Cesare  MIRABELLI 

- Massimo VARI 

- Cesare  RUPERTO 

- Riccardo CHIEPPA 

- Gustavo ZAGREBELSKY 

- Valerio ONIDA 

- Carlo  MEZZANOTTE 

- Fernanda CONTRI 

- Guido  NEPPI MODONA 

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI 

- Franco  BILE 

- Giovanni Maria FLICK 

ha pronunciato la seguente  

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis, comma 1, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, in legge 8 agosto 1992, n. 359, promosso con ordinanza emessa il 14 maggio 1998 dalla Corte d'appello di Genova nel procedimento civile vertente tra Ferrari Filippo ed altro ed il Comune di Genova, iscritta al n. 12 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell'anno 1999.

Visti l'atto di costituzione di Ferrari Filippo ed altro, nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 22 febbraio 2000 il Giudice relatore Riccardo Chieppa.

Uditi l'avvocato Franco Vigotti per Ferrari Filippo ed altro e l'avvocato dello Stato Sergio Laporta per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.- Nel corso di un giudizio di opposizione a stima instaurato, con citazione del 6 ottobre 1993 (con richiesta di determinazione dell’indennità in Lire 105.250.021), da proprietari di un terreno, sito nel Comune di Genova Pegli, espropriato in favore del Comune di Genova, la Corte d'appello di Genova ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, 113, primo comma, e 42, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis, comma 1, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359, nella parte in cui non dispone la inapplicabilità della riduzione del 40% dell'indennità di esproprio nel caso in cui, all'esito del giudizio di opposizione alla stima, l'indennità offerta dall'espropriante risulti inferiore a quella che avrebbe dovuto essere offerta alla medesima data, in applicazione dei criteri di determinazione di cui alla prima parte dello stesso primo comma del citato art. 5-bis.

Il giudice rimettente, premesso in fatto che in data 15 luglio 1993 l'espropriante aveva offerto ai proprietari una indennità (Lire 49.415.600), pacificamente riconosciuta dalle parti inferiore alla semisomma del valore venale del bene e del reddito dominicale rivalutato, quale calcolata dal c.t.u. (in Lire 74.946.817), con riferimento alla data del 2 marzo 1986, dallo stesso aggiornata in Lire 68.918.292 al 30 giugno 1994 ed, infine in Lire 70.740.377 alla data dell'esproprio (10 aprile 1996) ed aderendo ai rilievi della parte attrice, ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma anzidetta.

Rileva, il giudice rimettente, la sussistenza di un diritto soggettivo dell'espropriando ad ottenere la cessione volontaria del bene alle condizioni stabilite dalla legge e, cioè, per un importo pari alla media del valore venale del bene e del reddito dominicale (come stabilito, peraltro, dallo stesso art. 5-bis).

Il predetto art. 5-bis del d.l. n. 333 del 1992, nella parte in cui stabilisce, al primo comma, la riduzione del 40% dell'importo dovuto senza considerare l'ipotesi in cui la cessione volontaria non sia stata convenuta per fatto e colpa ascrivibili a soggetti diversi dall'espropriando, si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, 113, primo comma, e 42, terzo comma, della Costituzione, per i seguenti rilievi:

- in quanto tale disposizione sottoporrebbe irragionevolmente alla medesima disciplina, riduttiva di vantaggi economici, sia chi non abbia accettato di stipulare la cessione volontaria pur in presenza di una offerta legittimamente computata, sia chi non sia stato posto in condizione di stipularla per un comportamento illegittimo della controparte (anche se dipendente dalle determinazioni della Commissione provinciale), con conseguente vulnus all'art. 3, primo comma, della Costituzione;

- in quanto la previsione della riduzione del 40% finirebbe per menomare eccessivamente il diritto di difesa, sottoponendo ad ingiustificati rischi chi agisce in giudizio per tutelare il proprio diritto violato alla conclusione di una cessione volontaria alle condizioni di legge.

- in quanto il soggetto espropriato si vedrebbe costretto a rinunziare al giusto indennizzo, con conseguente contrasto con l'art. 42, terzo comma, della Costituzione.

Sottolinea, in particolare, il giudice a quo la rilevanza della questione nella considerazione che l'opponente nel giudizio instaurato intende ottenere la somma che gli sarebbe spettata se il suo diritto alla cessione volontaria alle condizioni di legge fosse stato rispettato.

2.- Nel giudizio innanzi alla Corte si è costituita la parte privata, concludendo per la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma impugnata.

3.- Nel giudizio è, altresì, intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri con il patrocinio dell'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la inammissibilità della questione sollevata al dichiarato fine di una pronunzia additiva, senza che, peraltro, ne ricorrano i presupposti o, comunque, per la infondatezza della stessa.

4.- Nell'imminenza della data fissata per l'udienza pubblica, la parte privata ha depositato una memoria, con la quale ribadisce le proprie conclusioni in ordine alla illegittimità della norma denunciata: ed in particolare, sottolinea come la nozione di valore venale sia stata al centro della normativa sulla liquidazione della indennità di esproprio sin dalla legge fondamentale del 1865, oltre che di una vasta e puntuale elaborazione giurisprudenziale, che ha consentito di conferire una obiettività assoluta e tutt'altro che soggettiva - come sostenuto dall'Avvocatura generale dello Stato - al concetto di valore venale del bene espropriato.

Precisa, altresì, che il principio generale di autoresponsabilità non può far gravare su un soggetto diverso gli effetti di errori di stima nella valutazione del bene.

Conclude, infine, assumendo che solo un eventuale intervento del legislatore potrebbe introdurre - come prospettato dall'Avvocatura - un "margine di tolleranza" nella valutazione della congruità della indennità offerta.

5.- L’Avvocatura generale dello Stato ha presentato una memoria, con la quale ha ribadito le conclusioni già rassegnate, insistendo, altresì, sull'assoluta parità di posizione delle parti nella cessione volontaria, il cui elemento centrale deve ravvisarsi nel "consenso delle parti sul prezzo", prospettando, altresì, la possibilità per la parte esproprianda di formulare una contro-proposta di cessione per un prezzo ritenuto più congruo.

Sottolinea, infine, che la indicazione dell'indennità provvisoria di esproprio (secondo il sistema scaturito dalla legge n. 865 del 1971) viene effettuata da organo regionale e non dall'ente espropriante.

Considerato in diritto

1.- La questione di legittimità costituzionale, sottoposta in via incidentale all'esame della Corte, riguarda l'art. 5-bis, comma 1, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359, sotto il profilo della violazione dell’art. 3, primo comma, della Costituzione, in quanto sottoporrebbe irragionevolmente alla medesima disciplina sia chi non abbia accettato di stipulare la cessione volontaria, pur in presenza di una offerta legittimamente computata, sia chi non sia stato posto in condizione di stipularla per un comportamento illegittimo della controparte; viene inoltre denunciata la violazione degli artt. 24, primo comma, e 113, primo comma, della Costituzione, in quanto la riduzione del 40% menomerebbe eccessivamente il diritto di difesa, sottoponendo ad ingiustificati rischi chi agisce in giudizio per tutelare un proprio diritto, nonché dell’art. 42, terzo comma, della Costituzione, in quanto il soggetto espropriato sarebbe costretto a rinunziare al giusto indennizzo.

2.- Preliminarmente deve essere esaminata la eccezione di inammissibilità sollevata dalla Avvocatura generale dello Stato sotto il profilo che si tratterebbe di richiesta di pronuncia additiva, della quale non sarebbe agevole individuare i presupposti, poiché la seconda parte del primo comma dell’art. 5-bis dovrebbe essere manipolata con l’introduzione di un margine di tolleranza nella stima o con la specificazione dell’entità degli scostamenti significativi nella stima, operazione rientrante nella discrezionalità del legislatore.

La eccezione non può essere accolta, in quanto il sindacato sulla legittimità costituzionale di una disposizione normativa non può essere escluso per il semplice fatto che una sua eventuale caducazione totale o parziale esiga un ulteriore intervento legislativo. In ogni caso, in materia di indennità di espropriazione - a prescindere dalla considerazione che non si produrrebbe un effetto paralizzante di una funzione essenziale prevista in Costituzione - l’interprete ed il giudice potrebbero sempre avvalersi di una serie di principi per la determinazione del giusto indennizzo, anche in carenza di un intervento legislativo.

3.- La questione di legittimità costituzionale è infondata.

In realtà l’art. 5-bis - sia pure in via temporanea fino alla emanazione di una (sempre auspicata) organica disciplina per tutte le espropriazioni per opere ed interventi pubblici o di pubblica utilità - detta una disciplina generale per la determinazione della indennità di espropriazione per le aree edificabili, recependo - con una correzione - il sistema (a suo tempo introdotto con la legge sul risanamento della città di Napoli) della media di due valori (o semisomma), desunti l'uno dal "valore venale" e l’altro dal "reddito" moltiplicato per dieci. Il sistema è stato corretto con la eliminazione del criterio del "reddito", previsto prioritariamente dalla legge 15 gennaio 1885, n. 2892, rapportato ai "fitti coacervati dell’ultimo decennio", che è stato sostituito con il criterio - contemplato in via sussidiaria dalla predetta legge del 1885 - agganciato (sempre con il rapporto moltiplicato di dieci) all’imponibile tributario agli effetti delle imposte sui terreni, con un ulteriore correttivo (di aggiornamento), apportato mediante l’espresso riferimento al reddito dominicale rivalutato di cui agli articoli 24 e seguenti del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, e con l’applicazione di una riduzione del 40% dell’importo così risultante.

In realtà, l’indennità di esproprio per le aree edificabili in via normale è pari al 60% della media (semisomma) dei due valori: valore venale e valore di redditività, pari al decuplo del reddito (coacervo per 10 anni) considerato ai fini tributari (art. 5-bis, comma 1). La illegittimità costituzionale di tale meccanismo è stata ripetutamente esclusa in riferimento agli artt. 3, 42, terzo comma, 47 e 53 della Costituzione, dalla Corte con riguardo alla legge 15 gennaio 1885, n. 2892 (art. 13, terzo comma) con le sentenze n. 5 del 1960 e n. 216 del 1990 (v. anche sentenza n. 15 del 1976). La stessa soluzione è stata data con riferimento all’attuale sistema comportante la riduzione del 40%, pervenendosi all’esclusione dei vizi denunciati sotto i medesimi profili all'odierno esame (sentenze nn. 283 e 442 del 1993; ordinanza n. 414 del 1993; arg. ex sentenze nn. 369 del 1996 e 148 del 1999).

Rispetto a tale indirizzo non sono stati dedotti nuovi elementi che possano condurre a differente soluzione sul piano della legittimità costituzionale.

4.- Il comma 2 dell’anzidetto art. 5-bis disciplina, invece, una ipotesi sostanzialmente diversa, diretta a ridurre il contenzioso e a facilitare una via transattiva di cessione volontaria delle aree edificabili espropriate, consentendosi, "in ogni fase del procedimento espropriativo", la cessione volontaria per un prezzo commisurato alla indennità di esproprio calcolata ai sensi del comma 1, senza tuttavia l’applicazione della riduzione del 40%.

In altri termini il legislatore, nella valutazione che l’indennità di espropriazione così ragguagliata a valore venale e a calcolo di media aritmetica con un altro addendo, sia pure determinato per relationem, possa essere oggetto di contestazione e di ricorso alla giurisdizione, ha ritenuto di offrire una maggiorazione nel caso si addivenga alla cessione volontaria.

Tale cessione assume - quale che sia il carattere, negoziale o meno, sia privatistico o pubblicistico, dello strumento adoperato dal legislatore, funzione transattiva e definitoria di ogni pretesa dell’espropriando, sia rispetto al trasferimento (non più coattivo) del bene, sia rispetto al quantum patrimoniale, trasformato da indennità in prezzo o corrispettivo.

Pertanto il legislatore ha voluto garantire un importo per la cessione volontaria (corrispondente a prezzo) maggiore (senza la riduzione del 40%), rispetto alla indennità di espropriazione, così pervenendo al 100% (anziché 60%) della media sopraspecificata (modello legge di risanamento della città di Napoli, con correzione del solo parametro dei fitti coacervati in quello del decuplo del reddito dominicale rivalutato).

Del resto, tale via è stata più volte utilizzata e collaudata dal legislatore per facilitare, in alternativa al proseguimento della procedura di determinazione dell’indennità, l’accordo tra la parte pubblica e il privato espropriando attraverso la cessione volontaria (con maggiorazione del prezzo fino al 50%: art. 12 della legge 22 ottobre 1971, n. 865; art. 1, terzo comma, della legge 29 luglio 1980, n. 385; art. 7, comma 2, della legge 15 dicembre 1990, n. 396), o a mezzo dell’accettazione della indennità offerta o della sua pattuizione, ad esempio prevedendo pagamenti diretti semplificati e tempestivi (art. 30 della legge 25 giugno 1865, n. 2359).

E’ evidente pertanto che la previsione di scelta tra la procedura di determinazione della indennità di esproprio, accompagnata da un adeguato sistema di tutela giurisdizionale che si estende alla valutazione in concreto dei valori da mediare, e la via sostitutiva della cessione volontaria, con i relativi vantaggi economici, non può comportare alcuna lesione dei principi di eguaglianza e di tutela dei diritti e delle facoltà di agire avanti alle autorità giurisdizionali competenti da parte del soggetto espropriato. D’altro canto, la soluzione adottata dal legislatore non risulta manifestamente irragionevole, tenuto conto della finalità deflattiva del contenzioso propria dell’incentivo.

Deve, di conseguenza, essere esclusa la denunciata violazione degli art. 3, 24, 113 e 42 della Costituzione.

5.- Gli eventuali prospettati abusi delle autorità amministrative nella determinazione della indennità di esproprio offerta al soggetto espropriato, ovvero le non congrue valutazioni nella determinazione della indennità non possono influire sulla legittimità costituzionale delle stesse norme, restando tali profili estranei al presente giudizio di costituzionalità, limitato, peraltro, al comma 1 dell’art. 5-bis.

Del resto, le esigenze di superare alcune anomalie di applicazione della norma denunciata o di malfunzionamento di organi amministrativi nei casi più manifesti hanno trovato, nella prassi e nella giurisprudenza, una pluralità di risposte, la cui concreta praticabilità rientra nelle scelte di tutela delle parti e nelle esclusive valutazioni interpretative dei giudici chiamati ad applicare le norme relative.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis, comma 1, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359, sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, 113, primo comma e 42, terzo comma, della Costituzione, dalla Corte d'appello di Genova con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 luglio 2000.

Francesco GUIZZI, Presidente

Riccardo CHIEPPA, Redattore

Depositata in cancelleria l'11 luglio 2000.