Sentenza n. 249

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SENTENZA N.249

 

ANNO 1997

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott. Renato GRANATA, Presidente

- Prof. Giuliano VASSALLI

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO

- Dott. Riccardo CHIEPPA

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE

- Prof. Guido NEPPI MODONA

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 8, alinea 7, regio decreto 3 marzo 1934, n. 383 (Testo unico della legge comunale e provinciale), promosso con ordinanza emessa il 29 marzo 1996 dal Consiglio di Stato sul ricorso proposto da Bigoni Maria Anna contro la Regione Emilia-Romagna ed altri iscritta al n. 1220 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell'anno 1996.

Visto l'atto di costituzione di Bigoni Maria Anna;

udito nell'udienza pubblica del 3 giugno 1997 il Giudice relatore Fernando Santosuosso;

udito l'avvocato Giorgio Natoli per Bigoni Maria Anna.

Ritenuto in fatto

 

1.-- Nel corso del giudizio sull'appello proposto da Maria Anna Bigoni per l'annullamento della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l'Emilia-Romagna, che aveva respinto la domanda di annullamento del provvedimento del Comitato regionale di controllo sugli atti degli enti locali della stessa Regione, a sua volta recante annullamento della deliberazione della Giunta comunale di Lagosanto di nomina della ricorrente nel posto di bibliotecaria del Comune, il Consiglio di Stato, V sezione, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'articolo 8, alinea 7, del testo unico della legge comunale e provinciale approvato con regio decreto 3 marzo 1934, n. 383, che prevede che non possano essere nominati agli uffici previsti nella stessa legge i condannati per determinati delitti.

Premette il rimettente che la ricorrente era risultata vincitrice del relativo concorso e che il Comune aveva ritenuto di procedere alla nomina, nonostante la stessa avesse riportato due condanne per delitti contro la fede pubblica, ritenendo che l'articolo 8 del regio decreto n. 383 del 1934 fosse stato reso inapplicabile dalla sentenza n. 971 del 1988 di questa Corte, con la quale erano state dichiarate costituzionalmente illegittime le disposizioni di legge che prevedevano la destituzione del pubblico impiegato che avesse riportato determinate condanne. L'atto di nomina fu annullato dall'organo di controllo, sulla base del rilievo che la norma in questione era vigente e non poteva essere disapplicata in forza della dichiarazione di illegittimità costituzionale di altre disposizioni di legge.

La norma in questione é stata abrogata dall'articolo 64 della legge 8 giugno 1990, n. 142, sull'ordinamento delle autonomie locali, ma é applicabile nel caso all'esame del giudice a quo, essendo vigente al momento in cui la Giunta municipale deliberò la nomina.

Il rimettente solleva questione di legittimità costituzionale della norma con riferimento agli articoli 3 e 51 della Costituzione. Essa, vietando "con rigido automatismo e senza possibilità di valutazione discrezionale del caso di specie" l'assunzione di persone condannate per determinati reati, si esporrebbe alle medesime censure di non ragionevolezza che hanno indotto la Corte, con la citata sentenza n. 971 del 1988, a dichiarare l'illegittimità delle disposizioni sulla destituzione automatica dei pubblici dipendenti. Osserva il giudice a quo che il titolo di reato al quale la norma si riferisce può, nei singoli casi, classificare fatti insignificanti dal punto di vista della pericolosità sociale e della capacità a delinquere, del tutto diversi dal tipo di fatti che la coscienza collettiva comunemente vi associa: ciò che ha indotto il legislatore a graduare la pena edittale prevista per questi reati e ad offrire al giudice penale i mezzi per tener conto dei casi di speciale tenuità del fatto. L'automatismo del divieto di assunzione, invece, violerebbe il canone della ragionevolezza, nonchè, per la stessa ragione, l'articolo 51, relativo al diritto dei cittadini di accedere agli uffici pubblici.

2.-- Nel giudizio davanti alla Corte si é costituita la ricorrente del giudizio a quo, per affermare l'illegittimità costituzionale della norma impugnata.

Considerato in diritto

 

1.-- Con l'ordinanza di rimessione, pervenuta a questa Corte il 7 ottobre 1996, il Consiglio di Stato dubita che l'art. 8, primo comma, numero 7, del testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto 3 marzo 1934, n. 383, stabilendo che non possano essere nominati agli uffici previsti nella stessa legge i condannati per determinati delitti, violi:

a) l'art. 3, primo comma, Cost., in quanto, vietando "con rigido automatismo e senza possibilità di valutazione discrezionale del caso di specie" l'assunzione di persone condannate, anche per fatti insignificanti, violerebbe il canone della ragionevolezza;

b) l'art. 51, primo comma, Cost., a motivo dell'automatismo del divieto di assunzione.

2.-- Il giudice a quo motiva in modo plausibile sulla rilevanza della questione osservando che la disposizione impugnata, abrogata dall'art. 64 della legge 8 giugno 1990, n. 142 sull'ordinamento delle autonomie locali, é però applicabile al caso in esame, essendo vigente al momento in cui la Giunta municipale ebbe a deliberare, l'11 maggio 1989, la nomina della vincitrice del concorso al posto di bibliotecaria, con decorrenza dal 1° giugno dello stesso anno. Aggiunge il Consiglio di Stato che la ricorrente ha interesse a sentire annullare l'esito negativo di controllo sulla predetta nomina e che la decisione della Corte costituzionale sulla legittimità della norma impugnata costituisce elemento dirimente della controversia.

3.-- La questione, pur rilevante, é però infondata.

Il Consiglio di Stato ritiene che la norma sia sospetta di incostituzionalità in quanto questo vizio é stato già riconosciuto (sentenze n. 971 del 1988, n. 16 del 1991 e n. 197 del 1993), in relazione alla destituzione che discenda automaticamente da condanne penali, specie considerando il rischio che una condanna per fatti insignificanti porti alla misura sproporzionata del divieto di assunzione nei pubblici uffici.

Va anzitutto osservato che non può essere invocato un parallelismo tra l'ipotesi della assunzione e quella della destituzione, dal momento che quest'ultima presuppone l'esistenza di uno "status" del dipendente pubblico, che può essere rimosso a seguito di un procedimento disciplinare, nel quale si compie la valutazione della gradualità delle sanzioni per fatti addebitati al dipendente stesso.

All'atto della costituzione del rapporto, invece, la pubblica amministrazione deve riscontrare l'esistenza dei requisiti generali e speciali previsti dalla legge, così come stabilito dall'art. 51, primo comma, della Costituzione. D'altra parte, la valutazione della rilevanza delle precedenti condanne non potrebbe essere condotta nello stesso modo, mancando il procedimento disciplinare che limita la discrezionalità della amministrazione.

4.-- Anche la condanna per determinati reati può, quindi, costituire un requisito negativo legalmente previsto quale filtro di ammissione, e come previa garanzia del buon andamento dell'amministrazione e della dignità di quanti sono chiamati a ricoprire uffici pubblici. Ne deriva che l'automatismo del divieto di ammissione derivante da certe condanne, specie quando queste abbiano riguardo alle funzioni che il dipendente é destinato a svolgere, non appare in contrasto, anzi é in armonia con i principi costituzionali. E non va trascurato che la diretta previsione normativa garantisce anche una applicazione con uniformità di criteri. In proposito questa Corte ha già avuto occasione (sent. n. 203 del 1995) di affermare che "mentre i provvedimenti che portano alla destituzione (o alla decadenza ex legge 18 gennaio 1992, n. 16) non possono avere carattere automatico, perchè é necessario ponderare ogni singolo caso, attraverso il procedimento disciplinare secondo il principio affermato, nell'accesso occorre che i requisiti soggettivi siano definiti in termini univoci dal legislatore; e il riconoscimento, in ipotesi, di un'ampia discrezionalità alla pubblica amministrazione, in questo campo, rischierebbe di compromettere i principi di eguaglianza e di buon andamento, pervenendo così ad esiti opposti a quelli perseguiti, in astratto, dall'ordinanza di rimessione".

5.-- Altro problema é quello relativo alla selezione, operata dal legislatore, dei vari reati per i quali questo automatismo sia previsto. Ma tale profilo attiene alla discrezionalità del legislatore, il cui esercizio può essere sindacato solo ove si ravvisi nella scelta una manifesta irragionevolezza; il che peraltro non é stato neppure denunziato nell'ordinanza di rimessione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 8, primo comma, numero 7, del regio decreto 3 marzo 1934, n. 383 (Testo unico della legge comunale e provinciale), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 51 Cost., dal Consiglio di Stato con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 18 luglio 1997.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Fernando SANTOSUOSSO

Depositata in cancelleria il 18 luglio 1997.