Sentenza n. 166 del 1996

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SENTENZA N. 166

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 11-quinquies, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito in legge 11 novembre 1983, n. 638, e dell'art. 2033 del codice civile, promossi con ordinanze emesse il 7 aprile 1995 (n. 7 ordinanze) dalla Corte di cassazione, rispettivamente iscritte ai nn. 856, 857, 858, 861, 862, 863 e 864 del registro ordinanze 1995 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visti gli atti di costituzione di Bellodi Letizia, Zambonelli Angiolina, Trezzi Virginio ed altra, Zamuner Mario, Roversi Bruno ed altra, Giramonti Margherita e dell'INPS nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 16 aprile 1996 il Giudice relatore Luigi Mengoni;

uditi gli avvocati Franco Agostini per Zambonelli Angiolina, Trezzi Virginio ed altra, Salvatore Cabibbo per Zamuner Mario, Giovanni Angelozzi per Giramonti Margherita, Carlo De Angelis e Giorgio Starnoni per l'INPS e l'Avvocato dello Stato Giuseppe Stipo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.1. - Nel corso di tre procedimenti nei quali è controverso il diritto dell'INPS di ripetere da titolari di più pensioni somme pagate a titolo di integrazione al minimo della seconda pensione, ma non dovute a ragione del superamento dei limiti di reddito stabiliti dall'art. 6, comma 1, del d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito nella legge 11 novembre 1983, n. 638, la Corte di cassazione, con tre ordinanze del 7 aprile 1995, pervenute alla Corte costituzionale il 21 novembre 1995, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 38, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 11-quinquies, del citato decreto-legge n. 463 del 1983, il quale dispone: "Le gestioni previdenziali possono procedere al recupero sul trattamento di pensione delle somme erogate in eccedenza anche in deroga ai limiti posti dalla normativa vigente".

Il giudice rimettente premette, in linea di fatto, che le tre cause riguardano la prima il periodo 1° maggio 1987-30 giugno 1989, la seconda tutti gli anni successivi al 1983, la terza il periodo 1° gennaio 1988-31 dicembre 1989; in linea di diritto che, secondo la giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza n. 1965 del 1995), in nessuna delle fattispecie sono applicabili né l'art. 80 del r.d. 28 agosto 1924, n. 1422, né - nella prima e nella terza per il tratto del periodo di riferimento successivo al 28 marzo 1988 - l'art. 52 della legge 9 marzo 1989, n. 88, tali discipline essendo derogate, in materia di integrazioni al minimo corrisposte indebitamente, dalla norma speciale dell'art. 6, comma 11-quinquies, del d.l. n. 463 del 1983. Questa norma ammette la ripetibilità indipendentemente da un errore commesso dall'INPS, in considerazione della "fisiologica sfasatura temporale" tra il momento in cui deve avvenire l'erogazione della pensione e il momento in cui può essere accertato il venir meno del requisito reddituale.

Questo essendo il diritto applicabile, la citata disposizione speciale viene impugnata per contrasto: a) con l'art. 3 Cost. per la disparità di trattamento sia rispetto alla disciplina, molto più favorevole ai pensionati, dell'art. 52 della legge n. 88 del 1989 relativo alle pensioni di base dell'assicurazione generale obbligatoria, sia rispetto al trattamento dei pensionati ex dipendenti pubblici previsto dall'art. 206 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, interpretato autenticamente dall'art. 3 della legge 7 agosto 1985, n. 428; b) con l'art. 38, secondo comma, Cost., perché non regola la ripetizione delle prestazioni indebite tenendo conto dei casi di negligenza dell'ente nell'accertamento tempestivo dei presupposti del diritto e stabilendo modalità di recupero tali da garantire la sufficienza delle residue risorse pensionistiche alle esigenze di vita dell'assicurato. All'argomento (tratto dalla sfasatura nel rapporto erogazione dell'integrazione al trattamento minimo - accertamento del reddito), con cui le Sezioni unite giustificano la speciale disciplina impugnata, il giudice a quo obietta che l'ignoranza della sopravvenuta condizione reddituale ostativa dell'erogazione, protratta oltre il momento in cui tale condizione diventa accertabile, si risolve, essa pure, per l'INPS in una falsa rappresentazione della realtà, le cui conseguenze non possono essere poste a carico di diritti costituzionalmente garantiti dall'art. 38 Cost.

1.2. - Nei giudizi davanti alla Corte costituzionale si sono costituite le parti private, aderendo alle argomentazioni del giudice rimettente e concludendo per la dichiarazione di illegittimità della norma denunciata.

Da una delle difese si osserva, inoltre, che l'applicabilità nella specie di tale norma - che il giudice a quo desume dalla citata sentenza delle Sezioni unite - contrasterebbe con la statuizione delle sentenze nn. 1315 e 1966 del 1995, secondo cui, per individuare quale delle norme di sanatoria, succedutesi nel tempo, debba trovare applicazione, si deve avere riguardo al momento del pagamento indebito, sicché nella specie sarebbe applicabile, quanto meno dopo il 28 marzo 1989, la disciplina successiva alla norma impugnata.

In relazione ai principî di eguaglianza e di razionalità si insiste sull'incoerenza della mancanza nell'art. 6, comma 11-quinquies, di limiti e condizioni alla ripetibilità rispetto all'impostazione dell'art. 52 della legge n. 88 del 1989.

1.3. - Si è pure costituito l'INPS chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

Ad avviso dell'Istituto, non esiste nell'ordinamento previdenziale un principio di irripetibilità delle prestazioni indebite percepite in buona fede dall'assicurato, contrapposto al principio dell'art. 2033 cod.civ. Esistono, invece, discipline differenziate a seconda delle diversità delle fattispecie, discrezionalmente valutate dal legislatore sia nel senso di non ammettere la rettificabilità degli errori di un certo tipo del solvens, sia nel senso di ammetterla per ogni tipo di errore, ma escludendo la ripetibilità nel concorso di certe condizioni ex parte accipientis, sia infine nel senso di ammettere la ripetibilità senza limiti e condizioni.

Di quest'ultima specie è la norma speciale impugnata. La censura di violazione del principio dell'art. 3 Cost., desunta dal confronto con la norma dell'art. 52 della legge n. 88 del 1989, anzitutto conferisce a questa legge efficacia retroattiva di cui non è provvista, dato che per intero o per la maggior parte le prestazioni indebite della cui ripetibilità si controverte sono state eseguite anteriormente al 28 marzo 1989; in secondo luogo, e comunque, è inammissibile perché l'art. 52 si riferisce alle prestazioni pensionistiche di base o principali, dalle quali sono ben distinte, le integrazioni al trattamento minimo. Queste non sono aggiuntive di quella, ma sono componenti autonome del trattamento previdenziale complessivo, essendo prive di base assicurativa, cioè non avendo a fonte alcuna contribuzione.

Quanto alla censura riferita all'art. 38 Cost., l'INPS obietta che da esso non si può ricavare un principio costituzionale di irripetibilità di somme corrisposte indebitamente nell'ambito pensionistico.

1.4. - Nel giudizio promosso dall'ordinanza iscritta in R.O. n. 858/1995 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.

Ad avviso dell'interveniente il richiamo dell'art. 38 Cost. non è motivato e comunque non è pertinente perché "l'assicurazione dei mezzi di sussistenza non si attua attraverso l'indebita percezione di un trattamento pensionistico non dovuto".

Quanto alla pretesa violazione dell'art. 3 Cost. si obietta che le discipline con cui quella in esame è confrontata riguardano situazioni giuridiche diverse e quindi insuscettibili di essere assunte come tertia comparationis.

2.1. - Nel corso di altri procedimenti in cui è controverso il diritto dell'INPS di ripetere da titolari di più pensioni somme corrisposte a titolo di quote fisse di contingenza, non spettanti ai sensi dell'art. 19 della legge 21 dicembre 1978, n. 843, secondo cui il trattamento aggiuntivo collegato alle variazioni del costo della vita è dovuto una sola volta, la Corte di cassazione, con quattro ordinanze in data 7 aprile 1995, pervenute alla Corte costituzionale il 21 novembre 1995, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 38, secondo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 2033 cod.civ., "in quanto sia ritenuto applicabile anche alla indebita erogazione, ricevuta in buona fede, dei trattamenti pensionistici aggiuntivi previsti dall'art. 19, primo comma, della legge citata".

Premesso che in tutti i casi di specie le prestazioni indebite sono state erogate in epoche in cui era vigente l'art. 80 del r.d. n. 1422 del 1924, il giudice rimettente, conformandosi alla sentenza n. 1315 del 1995 delle Sezioni unite della Corte di cassazione, ritiene inapplicabile il terzo comma di tale articolo, non trattandosi di errore dell'INPS nella determinazione del quantum della prestazione, bensì "di mero ritardo nell'accertamento di successive modificazioni del diritto automaticamente operative nel senso della estinzione del diritto originariamente esistente"; conseguentemente i pagamenti effettuati in violazione dell'art. 19 della legge n. 843 del 1978 secondo tale giurisprudenza "sono ripetibili, anche in mancanza di un formale provvedimento dell'Istituto comunicato all'interessato - in applicazione dell'art. 2033 cod.civ.".

La norma del codice civile viene impugnata con censure analoghe a quelle rivolte all'art. 6, comma 11-quinquies del d.l. n. 463 del 1983, interpretato come disciplina conforme alla regola civilistica: violazione dell'art. 3 Cost. per disparità di trattamento tra pensionati INPS e pensionati ex dipendenti pubblici e tra gli stessi pensionati INPS; violazione dell'art. 38 Cost. per l'incidenza della diminuita tutela della buona fede dell'accipiens, nelle ipotesi di errori commessi dall'ente erogatore, su un trattamento diretto a soddisfare bisogni primari del pensionato e della sua famiglia. Sono i medesimi valori, aggiunge l'ordinanza, fatti salvi dalla sentenza n. 383 del 1990 di questa Corte, interpretativa dell'art. 52 della legge n. 88 del 1989.

2.2. - Nei giudizi davanti alla Corte costituzionale relativi alle ordinanze iscritte in R.O. nn. 861, 862 e 863/1995, si sono costituite le parti private aderendo alle argomentazioni del giudice a quo e concludendo per la dichiarazione di illegittimità in parte qua della norma impugnata.

Nelle memorie di costituzione si lamenta soprattutto l'irrazionalità della previsione di un recupero automatico delle somme indebitamente erogate, senza nessuno dei limiti che specificano l'istituto della ripetizione dell'indebito nel sistema previdenziale.

Si è costituito pure l'INPS chiedendo che la questione sia dichiarata infondata con argomentazioni analoghe a quelle svolte nelle memorie di costituzione nei giudizi relativi alle ordinanze precedenti.

2.3. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata e riservandosi di giustificare tale conclusione con una memoria successiva.

3. - In prossimità dell'udienza di discussione alcune delle parti costituite, l'INPS e l'Avvocatura dello Stato, hanno depositato memorie aggiunte.

La difesa della parte privata nel giudizio promosso dall'ordinanza iscritta in R.O. n. 856/1995 insiste specialmente sulla censura di irrazionalità dell'art. 6, comma 11-quinquies, in quanto "non consente, diversamente dalle altre norme che disciplinano la materia di tenere conto né della buona fede, né di eventuali 'colpe' dell'ente erogatore in caso di prolungamento della contestazione dell'indebito".

Molto ampia è la memoria prodotta dalla difesa nei giudizi relativi alle ordinanze iscritte in R.O. nn. 857 e 863/1995. Essa traccia un quadro completo di tutte le disposizioni rinvenibili nel variegato ordinamento previdenziale in materia di ripetizione delle prestazioni indebite: quadro eccedente la presente materia del contendere, ma delineato allo scopo di dimostrare l'assunto dell'esistenza in questo ordinamento di una direttiva generale, fondata sull'art. 38 Cost., contraria in ogni caso all'applicazione pura e semplice della regola civilistica.

L'INPS ribadisce, in ordine ai primi tre giudizi, l'applicabilità, in alternativa all'art. 6, comma 11-quinquies del d.l. n. 463 del 1983, dell'art. 80 del r.d. n. 1422 del 1924, il quale nella specie porta al medesimo risultato, l'irripetibilità essendo da esso limitata ai casi di errore sul quantum della prestazione, non sull'esistenza del diritto.

In ordine ai giudizi concernenti l'art. 2033 cod.civ. l'Istituto obietta al giudice rimettente di avere trascurato di considerare che in nessuna delle fattispecie vi è stato un pagamento erroneo essendosi, invece, verificata la protrazione di fatto di un pagamento non più dovuto, determinata dal tempo occorso a verificare milioni di posizioni di pensionati alla luce del ius superveniens rappresentato dall'art. 19 della legge 843 del 1978, senza che nei diretti interessati potesse sorgere alcun ragionevole affidamento circa l'effettiva spettanza delle somme corrisposte, dato il sopravvenuto divieto legale di aggiunta dell'indennità di contingenza alla seconda pensione.

Infine l'INPS sostiene che è ragionevole ammettere la ripetizione non solo quando l'interessato non abbia adempiuto o abbia adempiuto tardivamente l'obbligo di dichiarare i propri redditi, ma anche quando li abbia dichiarati, giacché in tal caso è venuto meno il suo diritto a riscuotere e, comunque, la buona fede circa l'effettivo diritto alle somme percepite.

L'Avvocatura dello Stato, dopo avere illustrato le differenze di fattispecie e di ratio legis che escludono la comparabilità della norma impugnata con l'art. 52 della legge n. 88 del 1989, in ordine ai casi citati dal giudice a quo a sostegno della propria tesi, in cui l'indebita erogazione è proseguita per più esercizi pur dopo la comunicazione della dichiarazione dei redditi attestante un reddito eccedente i limiti di legge, osserva che "resta affidata al giudice la valutazione se in tali casi il comportamento dell'ente erogatore configuri un errore, consentendo così l'applicazione dei principî generali in tema di ripetizione dell'indebito, dei quali è espressione il citato art. 52 della legge del 1989, e che non possono essere ritenuti derogati dalla norma speciale in esame", salva la questione se in tali casi la percezione delle somme non dovute possa dirsi avvenuta in buona fede.

Quanto all'impugnativa dell'art. 2033 cod. civ., l'interveniente rileva che questa norma civilistica, sancendo il principio generale della ripetibilità dell'indebito, non è in sé capace di porsi in contrasto con norme costituzionali.

Considerato in diritto

1. - La Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 38, secondo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale:

a) dell'art. 6, comma 11-quinquies, del d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito in legge 11 novembre 1983, n. 638, in quanto - nel caso di doppia integrazione al trattamento minimo corrisposta al titolare di più pensioni, risultante non dovuta sulla seconda pensione per superamento dei limiti di reddito indicati nel comma 1 - consente il recupero delle somme erogate in eccedenza senza limiti e condizioni, "anche in deroga alla normativa vigente" (ordinanze iscritte in R.O. nn. 856, 857, 858/1995);

b) dell'art. 2033 cod.civ., in quanto ritenuto applicabile anche nel caso di cumulo dei trattamenti aggiuntivi collegati alle variazioni del costo della vita, percepito in buona fede da titolari di più pensioni in violazione dell'art. 19 della legge 21 dicembre 1978, n. 843, secondo cui tali trattamenti sono dovuti una sola volta (ordinanze iscritte in R.O. nn. 861, 862, 863, 864/1995).

2. - I giudizi introdotti dalle sette ordinanze, avendo per oggetto questioni identiche o analoghe, possono essere riuniti e decisi con unica sentenza.

3.1. - Sul piano interpretativo il giudice a quo si adegua alla giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenze nn. 1315 e 1965 del 1995), che ha risolto le incertezze applicative in ordine alla nuova disciplina dell'art. 52 della legge 9 marzo 1989, n. 88 (il cui secondo comma è stato modificato dall'art. 13, comma 1, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, con effetto dal 31 dicembre 1991: cfr. Corte cost., sent. n. 39 del 1993). Secondo tale giurisprudenza: 1) l'art. 52 non è norma di sanatoria, cioè non ha efficacia retroattiva e nemmeno è applicabile come ius superveniens ai rapporti di indebito previdenziale ancora pendenti alla data di entrata in vigore della legge n. 88 del 1989: per stabilire quale delle norme succedutesi nel tempo debba trovare applicazione, occorre fare riferimento al momento del pagamento indebito; 2) il caso di pagamenti indebiti a titolo di integrazione al trattamento minimo è regolato esclusivamente dall'art. 6, comma 11-quinquies, del d.l. n. 463 del 1983, il quale, poiché non presuppone un errore del solvens, esclude l'applicabilità di norme generali, anche sopravvenute, che assumano l'errore a loro presupposto: perciò nei casi di specie si deve ritenere assorbita la questione circa l'applicabilità degli artt. 80 del r.d. 28 agosto 1924, n. 1422, 52 della legge n. 88 del 1989, 13 della legge n. 412 del 1991.

Così interpretato in parte qua, il citato art. 6 viene censurato anzitutto perché determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento sia nei rapporti interni tra pensionati dell'INPS, sia nei rapporti esterni dei pensionati INPS con i pensionati ex dipendenti pubblici. Sotto il primo profilo, il tertium comparationis addotto, cioè l'art. 52 della legge n. 88 del 1989, non è proponibile, sia perché i pagamenti indebiti della cui ripetizione si controverte sono avvenuti nella massima parte prima dell'entrata in vigore di questa legge, sia soprattutto per la diversità di fattispecie delle norme messe a confronto. Secondo l'interpretazione accettata dal giudice a quo, l'art. 52 concerne la pensione-base o principale e presuppone un errore dell'ente previdenziale sull'an o sul quantum del relativo diritto; la norma impugnata, invece, concerne l'integrazione al minimo, che non è un semplice aumento della pensione principale, ma è una componente autonoma del trattamento pensionistico complessivo, soggetta a una propria disciplina caratterizzata, per quanto attiene specificamente all'indebito, dall'irrilevanza dell'errore come condizione del diritto di ripetizione. Sotto il secondo profilo, il termine di confronto, cioè l'art. 206 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, sulle pensioni dei dipendenti statali, non è idoneo perché, per costante giurisprudenza di questa Corte, non sono istituibili paragoni tra sistemi previdenziali diversi, tanto più che il sistema pensionistico dei dipendenti pubblici ignora l'istituto dell'integrazione al minimo.

In secondo luogo si pretende violato l'art. 38 Cost. in ragione "dell'incidenza del 'recupero' sulle residue risorse pensionistiche dell'interessato", al quale verrebbero sottratti i mezzi occorrenti per soddisfare i bisogni primari suoi e della sua famiglia. L'argomento scaturisce da una interpretazione eccessivamente lata della disposizione impugnata, tale da coinvolgere nella frase "in deroga ai limiti posti dalla normativa vigente" anche l'art. 69 della legge 30 aprile 1969, n. 153, che per i crediti di restituzione derivanti all'INPS da prestazioni indebite non ammette il pignoramento delle pensioni se non nei limiti di un quinto e, comunque, fatto salvo l'importo corrispondente al trattamento minimo: limiti che, ai sensi dell'art. 1246, n. 3, cod.civ., valgono anche per la compensazione del credito di restituzione mediante ritenute sui ratei della pensione successivamente posti in pagamento. Ma se la ratio dell'art. 6, comma 11-quinquies, è costituita dalla "fisiologica sfasatura temporale" tra il momento in cui la pensione deve essere erogata e il momento in cui il superamento del limite reddituale può essere accertato, di guisa che non è configurabile un errore dell'ente quale presupposto del diritto di ripetizione, questa ratio impone di intendere la "deroga alla normativa vigente" limitatamente alle norme che regolano la fattispecie dell'indebito previdenziale incentrandola sull'errore, mentre rimane ferma la disciplina generale per quanto attiene alle modalità di recupero delle somme pagate in eccedenza. Che la ripetizione delle integrazioni non dovute debba procedere nel rispetto dei limiti indicati dall'art. 69 della legge del 1969 sulle pensioni si evince anche dal precedente comma 11-quater, relativo al caso di dolo causam dans dell'assicurato.

3.2. - Con questa precisazione il precetto dell'art. 38, secondo comma, Cost., non è ancora del tutto soddisfatto. Coordinato col principio di solidarietà ad esso sotteso (cfr. sentenza n. 240 del 1994, punto 6 in diritto), il precetto costituzionale esige un bilanciamento di interessi, tra l'INPS - cioè la generalità dei suoi iscritti, gravati dal pagamento indebito - e il pensionato che l'ha percepito, incidente non solo sulle modalità di recupero delle somme non dovute, ma sullo stesso diritto di ripetizione.

Come osserva il giudice rimettente, la "fisiologica sfasatura temporale nel rapporto erogazione - accertamento del reddito", nella quale le Sezioni unite ripongono la ragione giustificativa della speciale disciplina in esame, si consuma nel momento in cui sopravviene per l'INPS la possibilità di verificare il superamento del limite reddituale nell'anno precedente: da questo momento "la protratta ignoranza delle condizioni di fatto o di diritto ostative alla erogazione si risolve essa pure per l'Ente in una falsa rappresentazione della realtà". Il rilievo non vale certo a cancellare le diversità di fattispecie e di disciplina che impediscono il confronto dell'art. 6, comma 11-quinquies, del d.l. n. 463 del 1983 con l'art. 52 della legge n. 88 del 1989 ai fini dell'art. 3 Cost., ma svela nel primo una lacuna di previsione relativamente a un caso differenziato da una connotazione che lo colloca fuori dalla ratio della norma, e quindi tale che l'applicazione di questa appare incongrua: il caso in cui l'INPS continui a corrispondere l'integrazione della seconda pensione pur trovandosi in grado di accertare il superamento del limite di reddito.

In relazione alla norma analoga dell'art. 10, ultimo comma, del r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636, nel testo modificato dall'art. 8 del d.l. n. 463 del 1983, questo caso, in cui il pagamento indebito è imputabile a un errore dell'INPS o comunque non è addebitabile al percipiente, è già stato individuato da alcune sentenze della Corte di cassazione (nn. 11634 del 1992, 9916 del 1993) come estraneo all'ambito normativo della disposizione citata e assoggettato alla regola dell'art. 52 della legge n. 88 del 1989. Tale soluzione è impedita dalla più recente giurisprudenza delle Sezioni unite, che non solo nega la retroattività dell'art. 52, ma ne esclude in generale l'applicabilità ai casi di indebito previdenziale previsti dal d.l. n. 463 del 1983 o dall'art. 7, comma 1, della legge 29 dicembre 1990, n. 407. Rimane però percorribile un diverso tipo di soluzione ermeneutica fondata sulla lacuna di previsione che emerge nella normativa speciale in esame: la lacuna autorizza l'interprete a operare una riduzione teleologica (cioè funzionale alla ratio legis) della disposizione introducendo una corrispondente eccezione conforme a un principio direttivo del sistema dell'indebito previdenziale ricavabile dalle norme particolari che lo compongono. In termini negativi, e perciò bisognosi di specificazione in rapporto alle varie ipotesi, questo "principio di settore" è stato enucleato dalla sentenza n. 431 del 1993 di questa Corte nel senso che, diversamente "dalla generale regola codicistica di incondizionata ripetibilità dell'indebito, trova applicazione la diversa regola, propria di tale sottosistema, che esclude la ripetizione in presenza di una situazione di fatto... avente come minimo comun denominatore la non addebitabilità al percipiente della erogazione non dovuta".

Nel contesto della questione che ci occupa tale principio può essere specificato in via intepretativa coordinando l'art. 6, comma 11-quinquies, col precedente comma 4: dal combinato disposto si argomenta, secondo un criterio di logica pratica o di ragionevolezza, che la ripetibilità cessa là dove l'ente previdenziale abbia continuato il pagamento dell'integrazione al minimo pur avendo la disponibilità delle informazioni necessarie per l'accertamento del reddito del pensionato, o in seguito alla tempestiva presentazione della dichiarazione sostitutiva del certificato fiscale, alla quale è tenuto ai sensi dell'art. 6, comma 4, del d.l. n. 463 del 1983, o altrimenti, per esempio attraverso una comunicazione del datore di lavoro alle cui dipendenze il pensionato ha trovato occupazione, oppure perché entrambe le pensioni sono pagate dall'ente stesso, che perciò è in condizione di conoscere da sé se e quando l'importo della prima sia aumentato oltre il limite di reddito ostativo dell'integrazione al minimo della seconda.

Non varrebbe obiettare che in questi casi il percipiente potrebbe tuttavia versare in mala fede. L'irrilevanza dello stato di buona o mala fede si argomenta indirettamente dal principio - ora esplicitato dall'art. 13, comma 1, della legge n. 412 del 1991 - secondo cui nel caso di omessa o incompleta segnalazione da parte del pensionato di fatti incidenti sul diritto o sulla misura della pensione, che non siano già conosciuti dall'ente competente, le somme indebitamente percepite sono ripetibili per questo solo fatto, indipendentemente dalla prova della mala fede dell'interessato (che sarà rilevante, ai sensi dell'art. 2033 cod.civ., solo ai fini del diritto agli interessi dal giorno del pagamento). Simmetricamente, la medesima regola di irrilevanza dell'elemento soggettivo deve valere nell'ipotesi inversa all'effetto della non ripetibilità.

Il limite, così individuato, della ripetibilità sancita dalla disposizione denunziata non può trovare applicazione immediata dal momento in cui si determinano per l'INPS le condizioni di verificabilità del reddito dell'assicurato. Perché i dati disponibili siano effettivamente acquisiti dall'Istituto e immessi nei circuiti delle verifiche contabili sono necessari tempi tecnici, che il giudice valuterà avuto riguardo eventualmente ai termini indicati dall'art. 13, comma 2, della legge n. 412 del 1991, non applicabile ratione temporis nei casi di specie, ma utilizzabile come criterio di orientamento.

4. - La questione sub b) è manifestamente inammissibile per errata individuazione della norma impugnabile.

L'art. 2033 cod.civ. per se stesso non è censurabile in riferimento ad alcun parametro costituzionale, essendo improntato al principio di giustizia che vieta l'arricchimento senza causa a detrimento altrui. Nel diritto previdenziale questo principio è mitigato da disposizioni ispirate a criteri di equità e di solidarietà, sicché l'art. 2033 si riduce alla funzione di norma di chiusura, operante nei soli casi non soggetti a discipline speciali. Nel caso di cui si controverte la norma previdenziale che, escludendolo dal proprio ambito applicativo, lo rimette alla regola civilistica è stata individuata dal giudice a quo - in conformità delle sentenze nn. 903 e 1315 del 1995 delle Sezioni unite della Corte di cassazione - nell'art. 80, terzo comma, del r.d. n. 1422 del 1924: su questa norma, non sull'art. 2033 cod.civ., avrebbe dovuto appuntarsi la questione sollevata dal giudice a quo.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 11-quinquies, del decreto- legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito in legge 11 novembre 1983, n. 638, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 38, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione con le ordinanze in epigrafe, iscritte in R.O. nn. 856, 857, 858/1995;

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 2033 cod.civ., sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 38, secondo comma, della Costituzione, dalla medesima Corte con le ordinanze in epigrafe, iscritte in R.O. nn. 861, 862, 863, 864/1995.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 maggio 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Luigi MENGONI, Redattore

Depositata in cancelleria il 24 maggio 1996.