Sentenza n. 198 del 1994

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SENTENZA N. 198

ANNO 1994

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Presidente:

prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici:

prof. Gabriele PESCATORE

avv. Ugo SPAGNOLI

prof. Antonio BALDASSARRE

prof. Vincenzo CAIANIELLO

avv. Mauro FERRI

prof. Luigi MENGONI

prof. Enzo CHELI

dott. Renato GRANATA

prof. Giuliano VASSALLI

prof. Francesco GUIZZI

prof. Cesare MIRABELLI

avv. Massimo VARI

dott. Cesare RUPERTO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 238, primo comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 14 maggio 1993 dal Tribunale di Pistoia nel procedimento penale a carico di Milanini Valentino, iscritta al n. 410 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell'anno 1993;

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nella camera di consiglio del 12 gennaio 1994 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

Ritenuto in fatto

1. - Nel corso del dibattimento penale a carico di Milanini Valentino, imputato del reato di cui all'art. 479 c.p., il Pubblico ministero richiedeva, ai sensi dell'art. 238, primo comma, del codice di procedura penale, introdotto dall'art. 3, primo comma, del decreto-legge 8 giugno 1992, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, con modificazioni, l'acquisizione della perizia espletata nelle forme dell'incidente probatorio in altro procedimento a carico di altre persone, indagate "per reati diversi da quello per cui ora si procede".

Il difensore dell'imputato si opponeva alla richiesta in quanto la prova si era formata senza la sua partecipazione, con conseguente inutilizzabilità della perizia ai sensi dell'art. 403 del codice di procedura penale.

Il giudice a quo premette che il precetto di cui viene richiesta l'applicazione da parte del Pubblico ministero rappresenta una vera e propria deroga al principio stabilito dall'art. 403 del codice di procedura penale. In favore di una simile interpretazione sarebbero invocabili una serie di univoci rilievi. Anzi tutto, non si comprenderebbe la diversa disciplina rispetto alle prove assunte in dibattimento ovvero nel giudizio civile (entrambe assoggettate, invece, al medesimo regime, ai sensi del primo e del secondo comma dell'art. 238); inoltre, dovendosi "utilizzare prove formate in una situazione generalmente analoga a quella regolata dall'art. 403", l'assenza di un esplicito richiamo a tale disposizione indicherebbe chiaramente che il legislatore del 1992 ha voluto escluderne l'applicabilità; ancora, perché la finalità perseguita dalla modifica normativa sarebbe, appunto, nel senso di non disperdere gli elementi di prova, di realizzare l'economia dei giudizi e "di evitare la naturale diminuzione dell'efficacia rappresentativa delle prove orali che consegue di solito alla loro ripetizione in vari processi": un principio la cui operatività resta, peraltro, limitata dalla possibilità di rinnovare l'assunzione delle sole "prove dichiarative" quando ciò risulti necessario e che si giustifica proprio a tutela delle parti che non siano state in grado di partecipare al processo nel quale la prova è stata assunta. Senza contare che la tesi sostenuta dalla difesa ridurrebbe drasticamente l'ambito di operatività dell'art. 238 del codice di procedura penale, dato che solo in ipotesi marginali si potrà avere identità di parti nei due processi e, quindi, applicazione anche dell'art. 403 dello stesso codice.

Tutto ciò premesso, il giudice a quo ha, con ordinanza del 14 maggio 1993, sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 238, primo comma, del codice di procedura penale, "nella parte in cui consente l'acquisizione agli atti del processo della perizia assunta in altro procedimento nelle forme dell'incidente probatorio, anche nei confronti delle parti i cui difensori non abbiano partecipato alla sua assunzione".

In relazione alla dedotta violazione del diritto di difesa, rileva il rimettente che, se è vero che tale diritto "non va esteso fino a garantire, sempre e comunque, il contraddittorio nella formazione della prova", è anche vero che, alla stregua della giurisprudenza costituzionale pronunciatasi relativamente a precetti dell'abrogato codice di rito, può porsi rimedio all'inosservanzadel contraddittorio soltanto attraverso "la ripetibilità dell'atto", mentre per la perizia non è "previsto il diritto alla rinnovazione". Oltre tutto, si tratta di un "mezzo di prova particolarmente articolato e complesso" riguardo al quale il contributo della difesa, anche mediante la nomina di consulenti tecnici, può risultare di particolare importanza, purché venga assicurata la sua partecipazione "nella fase del conferimento dell'incarico ed in quella delle operazioni peritali, e non solo successivamente con l'eventuale esame del perito e degli eventuali consulenti tecnici". Né un simile dubbio potrebbe essere superato facendo appello al potere del giudice di procedere di ufficio alla rinnovazione dell'atto, venendo in considerazione il diritto alla prova, qui da ritenere compresso oltre il limite consentito dall'art. 24 della Costituzione.

Il principio di eguaglianza risulterebbe compromesso perché la diversità di protezione del diritto di difesa resta commisurato, in materia di indagini collegate, alla scelta - del tutto insindacabile - del Pubblico ministero di procedere o no unitariamente, "con la concreta conseguenza che, nel primo caso, la perizia di cui alla attuale richiesta del P.M. non sarebbe stata utilizzabile nei confronti dell'attuale imputato se anche la sua difesa - con l'eventuale consulente tecnico di parte - non vi avesse partecipato", mentre nel caso opposto resterebbe comunque utilizzabile.

2. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile o, comunque, non fondata.

L'inammissibilità conseguirebbe ad un'errata interpretazione della norma censurata, interpretazione per giunta contraddetta da una consolidata giurisprudenza.

L'infondatezza dal non essere ipotizzabile la violazione di alcun parametro costituzionale: non dell'art. 24, "poiché con la detta disposizione si è inteso garantire il diritto alla difesa tecnica, diritto che appare adeguatamente tutelato nel caso di specie"; non dell'art. 3, "poiché non si vede come, sia pure ipoteticamente, possa essere configurata una disparità di trattamento nelle garanzie difensive quando la diversità di disciplina deriverebbe comunque da fatti imputabili alla stessa parte".

Considerato in diritto

1. - Il Tribunale di Pistoia dubita, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, della legittimità dell'art. 238, primo comma, del codice di procedura penale, nel testo introdotto dall'art. 3, primo comma, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, "nella parte in cui consente l'acquisizione agli atti del processo della perizia assunta in altro procedimento nelle forme dell'incidente probatorio, anche nei confronti delle parti i cui difensori non abbiano partecipato alla sua assunzione".

Di fronte ad una richiesta del Pubblico ministero volta all'acquisizione agli atti del processo della perizia espletata nelle forme dell'incidente probatorio in un diverso procedimento penale nei confronti di altre persone e relativo a reati privi di ogni collegamento con quelli per cui attualmente si procede, acquisizione alla quale si era opposto il difensore dell'imputato deducendo l'inutilizzabilità dell'atto per l'ostacolo derivante dall'art. 403 del codice di procedura penale, il Tribunale, ritenuta l'utilizzabilità della perizia nel processo a quo, ha ravvisato nella disciplina risultante dalla norma denunciata violazione del principio di eguaglianza, sotto il profilo della disparità di trattamento, e del diritto di difesa.

Il rimettente muove dal presupposto che l'intervenuta "novellazione" della norma oggetto di censura comporti una deroga alle disposizioni di garanzia previste in tema di incidente probatorio: sia perché "non si comprenderebbe il motivo della diversa disciplina, sul punto, tra le prove assunte nell'incidente probatorio e quelle assunte nel dibattimento" ovvero nel giudizio civile, relativamente alle quali "quella condizione sul contraddittorio non è prevista"; sia perché la mancanza di un esplicito richiamo all'art. 403 del codice di procedura penale conduce a ritenere la sicura inapplicabilita'di tale disposizione; sia, infine, perché l'utilizzazione della prova assunta con incidente probatorio in deroga alle previsioni di garanzia corrisponde alla finalità perseguita dal legislatore che è quella di non disperdere i mezzi di prova, di realizzare l'economia dei giudizi e "di evitare la naturale diminuzione dell'efficacia rappresentativa delle prove orali che consegue di solito alla loro ripetizione nei vari processi", una finalità che resterebbe drasticamente ridimensionata ove si affermasse la necessaria concomitante applicazione dell'art. 403, riducendosi l'operatività dell'art. 238, primo comma, del codice di procedura penale, ai soli casi di identità di parti nell'uno e nell'altro procedimento.

2. - Proprio con riguardo a tale lettura della norma denunciata, l'Avvocatura Generale dello Stato, nel suo atto di intervento per il Presidente del Consiglio dei ministri, ha preliminarmente espresso le sue riserve, addebitando alla questione proposta di fondarsi su una non corretta interpretazione del "novellato" art. 238 del codice di procedura penale, da intendersi, invece, nel senso che l'utilizzabilità "esterna" dei verbali resterebbe in ogni caso condizionata all'osservanza delle disposizioni di garanzia relativamente alle persone nei confronti delle quali i verbali stessi vengono fatti valere.

L'eccezione, così come proposta, deve essere disattesa.

L'interpretazione avanzata dal giudice a quo, nel senso dell'utilizzabilità della prova assunta con incidente probatorio in altro procedimento pur in assenza del difensore dell'imputato appare, infatti, non superabile attraverso il semplice richiamo alle disposizioni di "garanzia" in tema di incidente probatorio. Sulla base di una completa verifica dell'integrale contesto normativo in cui è venuto ad inserirsi l'art. 238 del codice di procedura penale, non potrebbe altrimenti scorgersi, relativamente all'acquisizione in altri processi dei verbali di assunzione anticipata della prova, il significato delle "novellazioni" che, in forza dell'art. 3 del decreto-legge n. 306 del 1992, convertito dalla legge n. 356 del 1992, hanno attinto la norma ora oggetto di censura.

Il raffronto fra la vigente e l'abrogata disciplina sembra confermare che il nuovo testo dell'art. 238 del codice di procedura penale ha effettivamente modificato il tessuto normativo disciplinante il regime di utilizzazione in altri processi dei verbali di prova assunta con incidente probatorio. Il tutto proprio riscontrando le "novellazioni" che hanno coinvolto, non soltanto, la norma oggetto di censura, ma anche le ulteriori disposizioni che in qualche modo a tale norma si collegano.

Relativamente al primo comma dell'art. 238 la novazione riguarda soprattutto la parte che consentiva l'"acquisizione di prove di altro procedimento penale" (si parla ora di "verbali di prova", e la modifica, oltre che dettata da esigenze di ammodernamento formale, è forse anche destinata ad accentuare la valenza della trasposizione del contenuto della prova nella scrittura) "se le parti vi consentono" e si tratta di prove assunte nell'incidente probatorio o nel dibattimento "ovvero di verbali di cui è stata data lettura durante lo stesso". Il terzo comma del medesimo art. 238 (che nel testo precedente rendeva "comunque consentita l'acquisizione della documentazione di atti che non sono ripetibili") risulta, poi, riformulato in modo tale da autorizzare anche l'acquisizione di atti divenuti irripetibili per cause sopravvenute, mentre il suo quarto comma autorizza, "se le parti vi consentono", l'utilizzazione nel dibattimento dei verbali di dichiarazioni; in mancanza del consenso delle parti l'uso dei verbali rimane circoscritto alle contestazioni a norma degli artt. 500 e 503, ferma restando l'acquisizione dei verbali di prove e della documentazione previsti nei primi tre commi dello stesso art. 238. Per le sole dichiarazioni, poi, "resta fermo", alla stregua del quinto comma (del tutto assente prima della "novellazione"), "il diritto delle parti di ottenere a norma dell'art. 190" (e salvo quanto previsto dall'art. 190- bis) "l'esame delle persone le cui dichiarazioni sono state acquisite a norma dei commi 1, 2 e 4 del presente articolo".

3. - Il panorama normativo ora ricordato pare, dunque, enucleare, con riferimento all'utilizzazione di verbali di prove assunte con l'incidente probatorio - più specificamente, con riguardo alla perizia, in ordine alla quale l'ordinanza di rimessione incentra le sue doglianze - un regime derogatorio alle regole stabilite dalla legge quanto alla possibilità di ammettere che la prova acquisita anticipatamente in un processo divenga utilizzabile in un altro processo. Il fatto che il "vecchio" testo dell'art. 238, primo comma, subordinasse l'acquisizione dell'incidente al di fuori del processo nel corso del quale era stato assunto al consenso delle parti si fondava, senza alcun dubbio, su una ratio volta ad estendere alla prova anticipata il regime delle prove assunte in dibattimento, secondo il principio, già affermato da questa Corte (sentenze n. 559 del 1990 e n. 74 del 1991), in base al quale - "addivenendosi con l'incidente probatorio "all'assunzione anticipata di mezzi di prova destinati ad acquisire la forza probatoria propria delle prove espletate in dibattimento" - l'"interpretazione letterale" del disposto del quinto comma dell'art. 401 (ove si prescrive, in via generale, che "le prove sono assunte nelle forme stabilite per il dibattimento") "rende chiaro che le modalità di espletamento" della prova "nell'incidente probatorio sono quelle stesse che valgono per la fase dibattimentale", con estensione del contraddittorio anche al profilo oggettivo di assunzione della prova.

La possibilità di assegnare all'incidente probatorio anche il ruolo di veicolo per la formazione della prova in procedimenti connessi o collegati, purché, ovviamente, venisse, pure qui, assicurato nel suo espletamento un pieno contraddittorio, si coordinava, quindi, al regime di utilizzazione della prova in altri processi, comunque subordinata al consenso delle parti; il tutto coerentemente a quanto disposto in relazione all'acquisizione di prove assunte "nel dibattimento ovvero di verbali di cui è stata data lettura nello stesso".

4. - La norma denunciata sembrerebbe, dunque, derogare a varie disposizioni relative all'acquisizione delle prove assunte con incidente probatorio. In primo luogo, all'art. 403 che, nel rispetto del principio del contraddittorio, insito nell'osservanza (art. 401, quinto comma) delle norme stabilite per il dibattimento (normale punto di arrivo dell'incidente) prescrive che nel dibattimento le prove assunte con l'incidente probatorio sono utilizzabili soltanto nei confronti degli imputati i cui difensori abbiano partecipato alla loro assunzione: un precetto contrassegnato dalla caratteristica fisionomia della fase ove la prova viene assunta e la cui riferibilità soggettiva può dilatarsi in corrispondenza dei singoli momenti procedimentali che precedono la definitiva presa di contatto del Pubblico ministero con il giudice, fino a coinvolgere persone cui non risulta assegnata una specifica qualità nel procedimento in corso ma che rivestono, o potrebbero rivestire, un ruolo processuale definito in altro procedimento. In secondo luogo, con l'art. 401, sesto comma, che (salvo per i casi di estensione dell'incidente probatorio) fa divieto di ampliare la prova da assumere a fatti riguardanti persone diverse da quelle i cui difensori partecipano all'incidente probatorio e di verbalizzare dichiarazioni riguardanti tali soggetti. Infine, al regime previsto dall'art. 402 che concerne l'estensione dell'incidente probatorio, autorizzata solo dopo aver provveduto alle necessarie notifiche alla persona sottoposta alle indagini, alla persona offesa e ai difensori (art. 398, terzo comma) così da consentire la loro partecipazione all'assunzione della prova.

5. - Non sembra inopportuno rimarcare come il sistema delineato dal "nuovo" art. 238 riveli una peculiare predisposizione a disciplinare l'utilizzazione in altri processi delle prove che consistono in dichiarazioni. Con specifico riferimento, indotto dai limiti del thema decidendum, ai verbali di prova assunta con incidente probatorio, la regolamentazione dettata dalla norma oggetto di censura si coniuga, infatti (se si eccettui il regime delle prove assunte con le modalità previste dall'art. 190-bis), con il principio, pur esso risultante dalla disciplina dettata dal legislatore del 1992, in base al quale le prove che vengano riversate in un altro processo perdono - in un certo senso - la loro valenza originaria, restando "fermo il diritto di ottenere ai sensi dell'art. 190 l'esame delle persone le cui dichiarazioni sono state acquisite a norma dei commi 1 (2 e 4) del presente articolo". Rimane così assicurato il contraddittorio sulla prova, la quale non resta un'entità immota, acquisita come tale nel processo, divenendo, invece, oggetto della dialettica dibattimentale in forza della presenza della difesa tecnica dei nuovi soggetti interessati. Ciò non soltanto per una ragione connaturata alla morfologia della dichiarazione, ma anche (e soprattutto) perché, a norma del combinato disposto degli artt. 511 e 511- bis del codice di procedura penale (quest'ultimo aggiunto dall'art. 8 comma 1- bis della legge n. 356 del 1992), la lettura dei verbali delle dichiarazioni (che costituisce il veicolo attraverso il quale la dichiarazione resa nell'incidente probatorio diviene utilizzabile nell'altro processo) "è disposta solo dopo l'esame della persona che le ha rese" (v. art. 511, secondo comma, appositamente richiamato dall'art. 511- bis).

Dal fatto che venga evocato l'art. 511, secondo comma, emerge, ancora, che il nuovo regime dettato dall'art. 238 si presenta come speciale rispetto a quello riguardante le dichiarazioni acquisite nel processo nel quale la prova viene formata, così, da un lato, da scongiurare un'inerte acquisizione di verbali di atti, e, dall'altro lato, da assicurare l'osservanza pure per tali atti del principio di oralità garantito, appunto, dall'art. 511, secondo comma, del codice di procedura penale.

6. - Poiché le censure del rimettente risultano incentrate sull'utilizzazione della perizia, non pare inopportuno sottolineare - anche se un simile rilievo non immuta di molto i termini della questione - come dal raffronto tra il regime predisposto relativamente alla lettura degli atti in dibattimento e quello concernente le prove assumibili con incidente probatorio pare debba ricavarsi una qualche distinzione tra gli atti che consistono in dichiarazioni e gli atti di natura diversa, tra i quali deve appunto annoverarsi la perizia, soprattutto nei casi - come quello di specie - in cui l'acquisizione anticipata della prova sia legittimata dalle ragioni indicate nell'ultimo comma dell'art. 392 del codice di procedura penale. Il fatto che l'art. 511, terzo comma, stabilisca che la lettura della relazione peritale è disposta solo dopo l'esame del perito non sembra, infatti, implicare alcuna assimilazione tra la perizia e la dichiarazione, essendo la prima un mero parere tecnico che, oltre tutto, nel caso in cui sia stata disposta a norma dell'art. 392, ultimo comma, del codice di procedura penale, resta enucleata nella relazione che, acquisita al fascicolo per il dibattimento a norma dell'art. 431 del codice di procedura penale, rimane, pur nel regime di oralità assicurato, oltre che dalle disposizioni in tema di incidente probatorio, dall'art. 511, terzo comma, il mezzo di prova concretamente riversato nell'istruzione dibattimentale.

D'altra parte, a differenza della dichiarazione, la perizia resta designata - soprattutto quando provenga da incidente probatorio - dall'attivazione di un sub-procedimento che, per la necessità di svolgere indagini o acquisizioni di dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche (art. 220, primo comma), postula l'esplicazione massima del contraddittorio e l'esigenza di assicurare, proprio in quella fase, tutte le garanzie connesse all'esercizio della difesa tecnica (si pensi alla possibilità di nomina, ad opera delle parti, di propri consulenti tecnici, al regime della ricusazione, ecc.).

Ed in effetti, che il legislatore del 1992 - certo attento più al regime delle dichiarazioni che non a quello degli altri mezzi di prova relativamente ai quali è ammessa l'acquisizione anticipata - abbia finito per contemplare per l'utilizzazione in altro processo della perizia assunta con incidente probatorio una disciplina in parte peculiare risulta proprio dal disposto del già richiamato art. 511- bis.

Con tale norma si è estesa alle dichiarazioni acquisite ex art. 238 del codice di procedura penale la disciplina delle dichiarazioni acquisite nello stesso procedimento, espressamente evocandosi, attraverso il rinvio all'art. 511, secondo comma, la prescrizione in base alla quale la lettura di verbali di dichiarazioni (quindi, anche di quelle provenienti da un incidente probatorio) è disposta solo dopo l'esame della persona che le ha rese, a meno che l'esame non abbia luogo. Una regola che, invece, risulterebbe del tutto inadeguata in relazione alla perizia derivante da incidente probatorio assunto ex art. 392, ultimo comma. Non a caso, quindi, l'art. 511- bis, nella sua ultima parte, non reca, con riferimento alla perizia, alcun richiamo all'art. 511, terzo comma, in base al quale la lettura della relazione peritale è disposta solo dopo l'esame del perito.

Dunque, la perizia assunta con incidente probatorio penetra in un altro processo con il solo veicolo della lettura a norma della prima parte dell'art. 511- bis. Il che sembra confermare come, con riferimento a tale mezzo di prova, il legislatore non abbia predisposto neppure quelle stesse garanzie di oralità che assistono le dichiarazioni. Tuttavia ad una tale omissione resterebbe possibile - ma solo in parte - porre riparo attraverso l'esercizio, anche officioso (v. art. 224 del codice di procedura penale), del potere del giudice di disporre una nuova perizia, ferma restando l'utilizzazione del precedente mezzo di prova nonostante che al suo espletamento la parte non abbia potuto partecipare.

7. - Così precisati gli elementi di sicura novità che hanno coinvolto, in conseguenza del decreto-legge n. 306 del 1992, convertito dalla legge n. 356 del 1992, non soltanto l'art. 238 del codice di procedura penale, ma il sistema tutto dell'utilizzazione delle prove assunte in altri procedimenti - una precisazione che vale a disattendere, dunque, sotto ogni ulteriore aspetto, l'eccezione dell'Avvocatura Generale dello Stato - resta ora da stabilire se la lettura complessiva della norma denunciata proposta dal giudice a quo sia da ritenere corretta anche alla luce dei presupposti richiesti dalla legge perché la prova assunta attraverso la procedura di cui all'art. 392 e seguenti del codice di procedura penale possa dirsi (prima ancora che utilizzabile) validamente formata nonostante la mancata partecipazione del difensore del soggetto interessato.

Il rimettente, muovendo dal rilievo - nel quale resta enucleato lo stesso giudizio negativo circa la legittimità costituzionale della norma denunciata - che, a séguito della novellazione dell'art. 238 del codice di procedura penale, la prova (nella specie la perizia) assunta con incidente probatorio sia comunque utilizzabile nell'altro processo, "anche nei confronti delle parti i cui difensori non abbiano partecipato alla sua assunzione", incentra la sua verifica interpretativa esclusivamente sulla utilizzazione "esterna" della prova. Ma, così operando, sembra trascurare l'esigenza che una esatta lettura dell'art. 238 "novellato" postula che vengano, prima ancora, individuati i presupposti implicitamente richiesti dalla legge perché l'utilizzazione possa comunque aver luogo. Di talché, così come proposta, la questione appare la risultante di un'interpretazione della norma censurata non attenta ad una condizione indispensabile per procedere alla stessa verifica di costituzionalità: quella, cioè, riguardante il momento in cui sorge il dovere dell'ufficio di avvisare il difensore dell'assunzione dell'incidente probatorio e del corrispondente diritto del difensore stesso di essere avvisato dell'assunzione anticipata della prova. Una condizione che, implicando un indissolubile collegamento (oltre che una, almeno apparente, deroga) con tutte le norme di garanzia predisposte dal legislatore in materia di incidente probatorio, deve essere oggetto di una verifica dimostrativa, non potendo presupporsi come un vero e proprio enunciato dogmatico.

Il regime derogatorio finisce, infatti, per coinvolgere non soltanto l'art. 403, direttamente chiamato in causa dal rimettente, ma pure gli artt. 393, primo comma, lettera b) (quale risultante a séguito della sentenza n. 436 del 1990), 398, secondo comma, lettera b), 401, primo e sesto comma, e 402 del codice di procedura penale, disposizioni tutte che disciplinano il contraddittorio nella fase immediatamente successiva alla richiesta di assunzione della prova.

8. - Ogni ulteriore accertamento interpretativo - pur necessario considerato il petitum avuto di mira dal rimettente - deve allora essere preceduto da una diversa operazione ermeneutica avente ad oggetto, prima che i riverberi della prova assunta con incidente probatorio in altri processi, i presupposti dai quali desumere se - nel sistema previsto dall'art. 392 e seguenti del codice di procedura penale - la prova formata anticipatamente possa dirsi validamente assunta e, quindi, legittimamente utilizzabile nello stesso processo nonostante che il difensore della persona interessata non abbia partecipato alla sua formazione; non foss'altro perché condizione implicitamente ricavabile dalla norma oggetto di censura è che la procedura delineata dalle disposizioni ora ricordate sia stata osservata, così da consentire (almeno) una qualche utilizzazione in quel processo dell'incidente espletato.

9. - Questa Corte, chiamata a pronunciarsi sulla conformità agli artt. 3 e 112 della Costituzione dell'art. 403 del codice di procedura penale, sottoposto al vaglio di legittimità nella parte in cui non prevede l'utilizzabilità, nei confronti di imputati i cui difensori non hanno partecipato all'incidente probatorio, della perizia disposta a norma dell'art. 392, primo comma, lettera f), dello stesso codice, ove il giudice per le indagini preliminari abbia denegato, per sopravvenuta modifica dello stato dei luoghi, la richiesta di estensione dell'incidente probatorio a tali soggetti, ha, con la sentenza interpretativa di rigetto n. 181 del 1994, dichiarato non fondata la questione, indicando all'interprete i criteri da adottare ai fini di una corretta applicazione sia dell'art. 403 sia di tutte le altre norme legate alla prima e tra di loro da un rapporto di vicendevole interdipendenza - dettate a garanzia dei soggetti nei confronti dei quali la prova così assunta è utilizzabile.

Nella suddetta sentenza la Corte ha precisato come "la regola dell'inutilizzabilità soggettiva" rappresenti una conseguenza della "violazione del principio del contraddittorio, in funzione del quale, come si esprime la relazione al progetto preliminare (p. 99), l'istituto dell'incidente probatorio è stato costruito". Almeno nell'ambito di uno stesso procedimento, dunque, l'art. 403 del codice di procedura penale in tanto è in grado di impedire l'utilizzazione della prova nei confronti di imputati i cui difensori non abbiano partecipato all'incidente probatorio in quanto il principio del contraddittorio di cui la norma costituisce diretta applicazione venga effettivamente vulnerato. Il che si verifica solo nel caso in cui i soggetti nei confronti dei quali la prova è destinata ad essere utilizzata abbiano già assunto la qualità di indagati e non anche quando l'utilizzazione riguardi soggetti "che solo successivamente all'assunzione della prova" ovvero proprio sulla base di essa "sono stati raggiunti da indizi di colpevolezza, atteso che nei loro confronti nessun contraddittorio poteva essere assicurato". Il tutto seguendo le linee interpretative già tracciate da questa Corte, attenta a rimarcare come "nel processo penale prima che esista una notizia di reato e che essa si soggettivizzi nei confronti di una determinata persona, non può esistere un problema di diritto di difesa", in quanto "all'indagato ancora ignoto non è assicurato alcun tipo di difesa tecnica": un principio di cui la Corte ha fatto reiteratamente applicazione relativamente all'assetto normativo non più vigente, e che "non può che essere ribadito nel nuovo sistema processuale" (così, ancora, la sentenza n. 181 del 1994).

10. - Gli approdi cui è pervenuta la detta decisione aprono prospettive di indubbia valenza interpretativa con riferimento anche alla questione ora sottoposta all'esame della Corte.

Alla tematica affrontata dalla sentenza n. 181 del 1994 si sovrappone, peraltro, nella fattispecie ora all'esame, un dato di rilevante significato, costituito dal provenire la prova assunta con incidente probatorio senza la presenza del difensore da un altro processo, relativo ad un diverso reato e a diverse persone (e, per di più, celebratosi davanti ad una diversa autorità giudiziaria).

Il passaggio all'applicazione del decisum proveniente dalla sentenza n. 181 del 1994 non può essere, dunque, così lineare, come pure un'identica ratio decidendi sembrerebbe imporre.

È di ostacolo, infatti, ad un'immediata soluzione nei medesimi termini la circostanza che la questione risulti incentrata sull'art. 238, primo comma, del codice di procedura penale, e solo di riflesso sull'art. 403 dello stesso codice. Viene così in considerazione, oltre che il diverso quesito concernente l'utilizzazione dei "verbali di prova di altri processi", anche la problematica relativa alla parcellizzazione dei procedimenti. Il tutto in un regime nel quale, mentre, per un verso, la connessione (i cui casi sono stati consistentemente ridimensionati rispetto all'abrogato codice di rito, con esclusione, fra l'altro, proprio dell'ipotesi di connessione c.d. probatoria prevista dall'art. 45, numero 4, del codice di procedura penale del 1930) ha assunto il ruolo di criterio autonomo di attribuzione della competenza, per un altro verso, la riunione (fra le cui ipotesi è compresa proprio la situazione corrispondente alla soppressa "connessione probatoria") opera soltanto una volta che sia stata esercitata l'azione penale (articoli 18 del codice di procedura penale e 2 delle norme di attuazione, approvate, con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271).

A tali considerazioni non può, però, farsi a meno di aggiungere che l'incidente probatorio, quale istituto tipico della fase delle indagini preliminari, resta contrassegnato dalla possibilità di utilizzazione congiunta della prova in processi diversi. A circoscrivere i rischi - inevitabilmente derivanti dai limiti imposti per il processo cumulativo - di dispersione delle prove anticipatamente assunte, il legislatore, consapevole che la prova nel corso delle indagini è suscettibile di dilatazioni quanto alla sua dimensione soggettiva, ha appunto previsto la possibilità di estensione dell'incidente, un istituto riferibile anche ad ipotesi in cui la prova debba essere utilizzata non nello stesso ma in altro procedimento.

Tutto ciò, ovviamente - almeno nell'originaria tessitura del codice del 1988 - alla condizione che all'esigenza "di compiuta formazione della prova" facesse da indispensabile contrappunto "la salvaguardia, al tempo stesso, dei diritti delle persone interessate" (v. relazione al progetto preliminare, p. 220). Ove ciò non si fosse verificato, sul piano dei riverberi della prova in altri procedimenti, l'art. 238 del codice di procedura penale, nel testo antecedente alla "novella" del 1992, subordinava l'acquisizione della prova assunta nell'incidente probatorio al consenso delle parti; in tal modo sicuramente comprendendo, non soltanto l'ipotesi in cui i difensori non avessero partecipato all'assunzione dell'incidente probatorio perché non avvertiti dell'atto da compiere, ma pure il caso - oggetto della sentenza n. 181 del 1994 - che non risultasse ancora individuata la persona nei confronti della quale la prova avrebbe potuto o dovuto essere utilizzata: un'evenienza, certo, più frequente quando vengano in considerazione processi caratterizzati anche da diversità di imputati, di reati o di autorità giudiziarie procedenti.

L'art. 238 rappresentava, pertanto, la risultante di una profonda revisione rispetto alla disciplina dell'utilizzazione delle prove acquisite in altri processi delineata dal codice di procedura penale del 1930, introdotta allo scopo di non squilibrare un sistema congegnato in modo da realizzare lo scopo di garantire l'oralità e l'immediatezza del dibattimento e che sarebbe risultato eluso da un'automatica acquisizione di verbali di prove assunte in altri procedimenti.

Il novum derivante dall'art. 3 del decreto-legge n. 306 del 1992, convertito dalla legge n. 356 del 1992 sta, quindi, nell'esigenza di valorizzare la prova scritta, consentendo l'acquisizione di prove assunte in altri procedimenti a prescindere dal consenso delle parti; una innovazione senza dubbio significativa in quanto parzialmente derogatoria proprio di quel principio di oralità (e di conseguente immediatezza) proclamato dall'art. 2, numero 2, della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81.

11. - Ricondotte le "novellazioni" che hanno attinto l'art. 238, primo comma, del codice di procedura penale a ricomprendere anche la soppressione del consenso delle parti quale condizione per l'acquisizione della prova assunta con incidente probatorio in altro processo, la norma denunciata deve, allora, attestarsi su di un'interpretazione che - non diversamente da quanto ritenuto dalla più volte ricordata sentenza n. 181 del 1994 - la ancori all'osservanza "della salvaguardia del contraddittorio, espressione del più generale diritto di difesa". Con la conseguenza che l'art. 238, primo comma, in tanto potrà ricevere applicazione, pure di fronte ad una prova assunta con incidente probatorio senza la presenza del difensore, in quanto i soggetti nei confronti dei quali la prova dovrà essere utilizzata non avessero o non potessero ancora assumere la qualità di persone sottoposte alle indagini, per non essere "stati raggiunti da indizi di colpevolezza, atteso che, per definizione, nessun contraddittorio poteva essere nei loro confronti assicurato".

L'ambito di operatività dell'art. 238, primo comma, del codice di procedura penale, nel punto denunciato dal giudice a quo viene così a saldarsi con i limiti (solo apparenti) di applicabilità dell'art. 403 del codice di procedura penale, consentendo, di conseguenza, una lettura della norma denunciata in un'ottica interpretativa coerente alla costante giurisprudenza di questa Corte attenta a rimarcare come "un problema di diritto di difesa" può porsi soltanto in presenza della soggettivizzazione di una notitia criminis nei confronti di una persona già individuata.

Interpretata in questi termini la norma denunciata non lede alcuno dei parametri invocati: non l'art. 3 della Costituzione, non potendo certo affermarsi l'irragionevolezza di una diversità di trattamento fra colui che abbia assunto la qualità di persona sottoposta alle indagini e colui che, invece, non sia stato ancora come tale identificato; non l'art. 24 della Costituzione stessa, potendo il diritto di difesa riferirsi soltanto ad un soggetto nei cui confronti sussistono elementi di colpevolezza e non anche nei confronti di chi non sia stato raggiunto da indizi di responsabilità.

12. - Tutto ciò non può esimere questa Corte dalla necessità di rimarcare come la qualità di persona sottoposta alle indagini non deve discendere dalle valutazioni soggettive dell'organo inquirente, dipendendo essa da dati oggettivi spesso agevolmente riscontrabili sulla base degli atti, a prescindere dalla separazione dei procedimenti: una vicenda che "discende, nella gran parte dei casi, da scelte o valutazioni contingenti di natura strettamente processuale" (v. sentenza n. 254 del 1992), ma la cui appartenenza, di norma, alla fase successiva all'esercizio dell'azione penale, vale a rendere esigui i rischi (ai quali è sempre comunque possibile porre riparo) prospettati dal rimettente. D'altro canto, qualsiasi comportamento omissivo addebitabile al pubblico ministero quanto al momento della individuazione della qualità di indagato potrà dar luogo a conseguenze di ordine processuale, ivi inclusa, appunto, la possibilità di sindacare la concreta utilizzabilità della prova assunta senza la presenza del difensore; il tutto in una linea diretta anche a valorizzare l'interesse dell'imputato a disporre della prova che si riveli per lui favorevole pure se assunta in violazione del combinato disposto degli artt. 238, primo comma, e 403 del codice di procedura penale.

13. - Dalla casualità che deve, di norma, contrassegnare l'impossibilità di partecipazione del difensore all'assunzione della prova per non essere il suo assistito ancora individuato come persona sottoposta alle indagini deriva che le conseguenze che ne discendono non devono esorbitare dall'ambito della utilizzazione della prova stessa in un altro processo. Essa non può, certo, precludere, "in un sistema processuale imperniato su un ampio riconoscimento del diritto alla prova e nel quale l'acquisizione del materiale probatorio è rimessa in primo luogo all'iniziativa delle parti" (art. 190 del codice di procedura penale; sentenza n. 241 del 1992) il diritto della parte di richiedere e di conseguire la rinnovazione della prova, una rinnovazione - diversamente da quanto affermato dal giudice a quo - riferibile, proprio per le considerazioni che hanno condotto a delinearne una qualche divergenza di trattamento rispetto alle dichiarazioni, anche alla perizia. A ciò va aggiunto il potere del giudice di disporre, laddove la prova sia (come nel caso di specie) assumibile d'ufficio, la rinnovazione nel dibattimento, pur in assenza di richiesta di parte, fino a prospettare l'utilizzazione anche a tali scopi, del precetto dell'art. 507 del codice di procedura penale. Senza contare la possibilità di valutare, nell'esercizio del libero convincimento, la valenza di una prova assunta con incidente probatorio anche in funzione della mancata partecipazione del difensore dell'imputato alla sua formazione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

Dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 238, primo comma, del codice di procedura penale, nel testo sostituito dall'art. 3, primo comma, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, questione sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Pistoia con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, 12 maggio 1994.

Il Presidente: CASAVOLA

Il redattore: VASSALLI

Depositata in cancelleria il 26 maggio 1994.