Sentenza n.241 del 1992

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SENTENZA N. 241

ANNO 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-      Dott. Aldo CORASANITI, Presidente

-      Prof. Giuseppe BORZELLINO

-      Dott. Francesco GRECO

-      Prof. Gabriele PESCATORE

-      Avv. Ugo SPAGNOLI

-      Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

-      Prof. Antonio BALDASSARRE

-      Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-      Avv. Mauro FERRI

-      Prof. Luigi MENGONI

-      Prof. Enzo CHELI

-      Dott. Renato GRANATA

-      Prof. Giuliano VASSALLI

-      Prof. Francesco GUIZZI

-      Prof. Cesare MIRABELLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 519, secondo comma, del codice di procedura penale, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 23 maggio 1991 dal Pretore di Potenza nel procedimento penale a carico di Verrastro Leonardo, iscritta al n.576 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell'anno 1991;

2) ordinanza emessa il 1 luglio 1991 dal Tribunale di Lecce nel procedimento penale a carico di Del Coco Antonio ed altri, iscritta al n.666 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell'anno 1991.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 4 marzo 1992 il Giudice relatore Ugo Spagnoli.

Ritenuto in fatto

1.- Nel corso di un processo per il delitto di incendio colposo di un fabbricato, addebitato per deficienze di costruzione e di misure preventive, il pubblico ministero contestava, ai sensi dell'art.516 cod.proc. pen., un ulteriore profilo di colpa, consistente nella tardività della richiesta di intervento dei Vigili del Fuoco. In relazione a tale nuova contestazione, il pubblico ministero e l'imputato chiedevano l'ammissione di nuove prove, depositando le relative liste testimoniali ai sensi dell'art. 468 cod. proc. pen.

Il Tribunale di Lecce, rilevato che l'art. 519, secondo comma, cod. proc. pen., per l'ipotesi (tra l'altro) di nuove contestazioni prevede, oltre al termine a difesa, che "in ogni caso l'imputato può chiedere l'ammissione di nuove prove a norma dell'art. 507", e ritenendo che - in base al tenore di tale disposizione - il pubblico ministero (e la persona offesa, anche se costituita parte civile) non possano chiedere nuove prove, e che anche per l'imputato esse possono essere ammesse solo se ciò "risulta assolutamente necessario" (art. 507), ha sollevato d'ufficio, con ordinanza del 1 luglio 1991 (r.o. n. 666/91), una questione di legittimità costituzionale del suddetto art. 519, secondo comma - in quanto ostativo, nei detti termini, all'accoglimento della richiesta - assumendone il contrasto con gli artt.3, 24, 76 e 97 Cost..

Ad avviso del giudice a quo, la giustificazione della norma impugnata data nella Relazione al codice, secondo la quale l'espresso richiamo all'art.507 sarebbe sostanzialmente superfluo, dato che il diritto di chiedere prove in base a tale disposizione può sempre esercitarsi fino all'inizio della discussione finale, è frutto di inadeguata comprensione dei meccanismi di articolazione del diritto alla prova risultanti dal testo del codice. Dagli artt. 468 e 493 si ricava, infatti, un principio - connesso a quello di concentrazione - di preclusione nella deduzione dei mezzi di prova. Di questo, l'art. 507 è un indispensabile correttivo, limitato, però - secondo l'interpretazione giurisprudenziale - ai soli casi in cui le tesi dell'accusa o della difesa siano supportate da alcuni elementi probatori, e tuttavia risulti un'incompletezza rimediabile nell'istruzione della causa.

L'art. 507, quindi, presuppone un'insufficiente attività probatoria delle parti e riguarda mezzi di prova dai quali queste sono sostanzialmente decadute.

Nei casi, invece, in cui l'esigenza di nuove prove emerge solo all'esito delle prove della controparte, ovvero da nuove circostanze emerse dall'espletamento dei mezzi di prova originari (ad es., dalla contraddittorietà delle dichiarazioni rese da due testimoni), subordinare le nuove prove (nell'esempio, il confronto tra i due testi), al requisito dell'assoluta necessità ex art. 507 condurrebbe a risultati irrazionali.

Nè sarebbe possibile ritenere che le parti siano tenute a premunirsi indicando preventivamente mezzi di prova per simili eventualità all'atto delle richieste di cui all'art. 493, dato che dalle norme in materia non può desumersi che il principio di preclusione sia stato portato fino all'estremo del c.d. principio di eventualità. Questo è, del resto, estraneo agli altri processi ispirati ai principi di oralità, concentrazione e immediatezza, quali il rito del lavoro ed il nuovo modello generale del processo civile (legge n. 353 del 1990), nei quali, invece, i limiti ai "nova" possono essere superati con "replicatio" e "duplicatio" in caso di impossibilità di precedente deduzione del mezzo di prova (art.420, commi quinto e settimo, cod. proc. civ.): e ciò dovrebbe valere a maggior ragione nel nuovo processo penale, in cui le parti non hanno a priori una piena conoscenza dei fatti di causa.

Secondo il Tribunale rimettente, quindi, il diritto alla prova sulle circostanze e con i mezzi divenuti ammissibili e rilevanti solo nel corso dell'istruzione dovrebbe essere riconosciuto negli ampi limiti di cui all'art. 190 cod. proc. pen. e non in quelli di cui all'art. 507.

Il diniego al pubblico ministero del diritto a nuove prove non potrebbe giustificarsi, d'altra parte, presupponendo che le nuove contestazioni debbano avvenire solo se ci siano elementi già di per sè sufficienti per la condanna; l'art. 516 richiede, invece, che la contestazione avvenga non appena vi sono seri elementi per effettuarla, onde consentire all'imputato di difendersi subito ed evitare che il pubblico ministero possa essere indotto a cercare di estrarre dai mezzi già ammessi le prove per contestazioni future.

Per altro verso, non sono accoglibili, secondo il giudice a quo, interpretazioni della norma impugnata tendenti a mitigarne il rigore, quali quella secondo cui il limite di cui all'art. 507 varrebbe solo se l'imputato non chiede termini a difesa o l'altra secondo cui è assolutamente necessario tutto ciò che all'imputato sarebbe spettato se l'imputazione avesse avuto sin dall'inizio i connotati assunti in seguito.

Alla stregua delle suesposte considerazioni, il Tribunale rimettente prospetta la violazione degli artt. 3 e 24 Cost., in quanto la norma impugnata introduce una deroga irrazionale ed ingiustificata ai principi generali in tema di diritto alla prova, compresso per l'imputato e negato per le altre parti. Sarebbero violate, inoltre, le direttive della legge delega di cui all'art. 2, punti 3 (parità tra accusa e difesa), 69 (diritto alla prova di tutte le parti) e 78 (garanzie di difesa adeguate - ma non meccanismi irrazionali - in caso di nuove contestazioni) e, perciò, l'art.76 Cost.. Dal fatto che al pubblico ministero, tenuto ad indagare, sia inibito di fornire le prove della propria attività scaturirebbe, infine, un difetto di funzionalità dell'amministrazione della giustizia, con lesione dell'art. 97 Cost..

2.- Un'analoga questione di legittimità costituzionale dell'art.519, secondo comma, cod. proc. pen. è stata sollevata dal Pretore di Potenza, con ordinanza del 23 maggio 1991 (r.o. n. 576/91), in sede di decisione sull'ammissibilità di liste testimoniali presentate dall'imputato e dalla parte civile a seguito di una modifica dell'imputazione effettuata dal pubblico ministero, concernente la data di commissione del fatto.

Muovendo dal presupposto che il riferimento all'art. 507 comporta, ai fini dell'ammissione, non solo il requisito più restrittivo dell'assoluta necessità, ma un potere discrezionale del giudice in applicazione di tale regola di giudizio, e che alle parti private diverse dall'imputato - ed in particolare alla parte civile - non è riconosciuto il diritto di richiedere nuove prove a seguito di nuove contestazioni, il giudice a quo impugna la predetta disposizione sia nella parte in cui ammette la richiesta di nuove prove, a seguito di nuove contestazioni, esclusivamente "a norma dell'art.507 cpp", sia, in particolare, nella parte in cui ammette tale richiesta solo per l'imputato e non anche per la parte civile.

Anche secondo l'ordinanza in esame, di fronte a nuove contestazioni il diritto alla prova dovrebbe esplicarsi pienamente alla stregua della regola generale desumibile dagli artt. 190, primo comma e 495, primo comma, cod. proc. pen.: onde la lamentata violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza (art. 3 Cost.), del diritto di difesa (art. 24) e dell'art.76 Cost., in riferimento alle citate direttive di cui ai numeri 3 e 69 dell'art. 2 della legge delega.

In particolare, il Pretore di Potenza nega - in riferimento alla parte civile - che rispetto alle nuove contestazioni sia applicabile l'art. 493, terzo comma, del codice, dato che questo fa riferimento ad un'impossibilità di tempestiva deduzione di carattere materiale, tant'è che ne è richiesta la dimostrazione; ma rileva che, anche a ritenere tale norma applicabile, la posizione della parte civile sarebbe comunque deteriore rispetto a quella dell'imputato, sia perchè essa dovrebbe fornire tale dimostrazione, sia perchè l'imputato, dopo la nuova contestazione, può chiedere immediatamente le nuove prove, mentre la parte civile, in forza dell'art.507, dovrebbe attendere l'espletamento di queste e potrebbe vedersi respinte le proprie qualora il quadro probatorio in tal modo acquisito venisse ritenuto esauriente.

3.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, è intervenuto nei predetti giudizi con memorie di tenore identico, riferite entrambe alla fattispecie oggetto della seconda ordinanza.

Posto che in questa la variazione rispetto all'imputazione originaria concerne solo la data del commesso reato, il richiamo all'art. 507 è, secondo l'Avvocatura, pienamente legittimo e sarebbe invece irragionevole il ricorso ad una disciplina lunga e complessa quale quella di cui all'art.493 cod. proc. pen.. Ad avviso dell'interveniente, inoltre, la questione sarebbe frutto di erronea interpretazione, dato che, come si evince dalla Relazione al progetto preliminare del codice (p. 119), il richiamo al solo imputato non comporta un'"esclusiva" di costui nella facoltà di attivare il meccanismo di cui all'art. 507, ma vale solo a chiarire che egli può chiedere nuove prove anche se non si avvalga del termine a difesa, di cui allo stesso art. 519, secondo comma.

Considerato in diritto

1.- I due giudizi investono la medesima disposizione di legge, ed è perciò opportuna la loro riunione.

2.- Il Tribunale di Lecce ed il Pretore di Potenza dubitano, con le ordinanze indicate in epigrafe, della legittimità costituzionale dell'art.519, secondo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui - dopo aver previsto che nell'ipotesi di nuove contestazioni ex art.516 l'imputato ha diritto ad ottenere, se lo chiede, un termine a difesa - stabilisce che "In ogni caso l'imputato può chiedere l'ammissione di nuove prove a norma dell'articolo 507". Secondo i giudici a quibus, tale disposizione comporta un duplice limite alle richieste probatorie relative alle nuove contestazioni, nel senso che esse, da un lato, risultano precluse per il pubblico ministero e per le parti private diverse dall'imputato e, dall'altro, sono limitate, per lo stesso imputato, a quelle "assolutamente necessarie" secondo la discrezionale valutazione del giudice. Sarebbero perciò violati, ad avviso di entrambi i giudici, gli artt. 3, 24 e 76 Cost., dato che in caso di nuove contestazioni il diritto alla prova andrebbe riconosciuto secondo le regole generali di cui agli artt. 190 e 495 cod. proc. pen. e le predette preclusioni e limitazioni sarebbero irragionevoli, contrarie al principio di uguaglianza e tali da produrre una ingiustificata limitazione del diritto di difesa, nonchè lesive dei principi di parità tra accusa e difesa, di diritto alla prova di tutte le parti e di adeguatezza delle garanzie difensive in caso di nuove contestazioni di cui ai nn. 3, 69 e 78 dell'art. 2 della legge delega n. 81 del 1987.

Secondo il Tribunale di Lecce sarebbe violato anche l'art. 97 Cost., perchè l'impedire al pubblico ministero di provare i fatti su cui è tenuto ad indagare si tradurrebbe in difetto di funzionalità dell'amministrazione della giustizia. 3.- Le questioni sono fondate sotto entrambi i profili prospettati.

In un sistema processuale imperniato su un ampio riconoscimento del diritto alla prova e nel quale l'acquisizione del materiale probatorio è rimessa in primo luogo all'iniziativa delle parti (art. 190), è indubbiamente incongruo che la regolamentazione dell'attività probatoria che si rende necessaria in caso di nuove contestazioni sia effettuata mediante il richiamo all'art. 507: ad una norma, cioé, che conferisce al giudice il potere-dovere di integrazione, anche d'ufficio, delle prove per l'ipotesi in cui la carenza o insufficienza, per qualsiasi ragione, dell'iniziativa delle parti impedisca al dibattimento di assolvere la funzione di assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto del processo, onde consentirgli di pervenire ad una giusta decisione.

Tale potere- dovere di integrazione si colloca infatti in una fase in cui è "terminata l'acquisizione delle prove" che siano state svolte ad iniziativa delle parti (artt. 468, 493, 495) o su indicazione del giudice (art. 506); e di conseguenza, esso è connotato da un criterio di "assoluta necessità" delle nuove prove, cioé da una più penetrante e approfondita valutazione della loro pertinenza e rilevanza che è correlativa alla più ampia conoscenza dei fatti di causa che il giudice ha ormai conseguito in tale momento.

In ben diversa fase si colloca l'ammissione dei mezzi di prova conseguente a nuove contestazioni del pubblico ministero, che aprono, nel corso del dibattimento, nuovi momenti di dialettica tra le parti, sotto il profilo probatorio, per effetto della modificazione dell'accusa. Non vi è ragione, in questa fase, di non riconoscere a ciascuna delle parti l'esercizio pieno del diritto alla prova rispetto agli elementi nuovi emersi nel processo, secondo i criteri generali previsti dall'art. 190, alla stregua dei quali il legislatore ha garantito non solo la piena esplicazione del diritto alla controprova sulle circostanze da altri dedotte (artt. 468, quarto comma e 495, secondo comma), ma anche il diritto ad introdurre le prove nuove che non si sia potuto indicare tempestivamente (art. 493, terzo comma), o la cui rilevanza scaturisca da quelle già assunte o acquisite nel dibattimento (art. 506) o dalla insufficienza di queste (artt. 507 e 603).

Ovviamente, i limiti che il giudice concretamente imporrà alla ammissione delle prove, sotto il profilo della rilevanza, discenderanno anche dal maggior livello di conoscenza di dati e di elementi acquisiti nel corso del processo, certamente superiore rispetto a quanto conosciuto nella fase predibattimentale. Ma si tratta pur sempre di modalità concrete di applicazione di generali criteri che debbono presiedere alla assunzione della prova durante il dibattimento ad iniziativa delle parti, che non coincidono con quelli che caratterizzano l'iniziativa del giudice nella fase terminale del processo.

É perciò evidentemente irragionevole, nonchè lesivo del diritto di difesa, che di fronte a nuove contestazioni - rispetto alle quali un onere di preventiva indicazione di prove è da escludere per definizione - il diritto alla prova delle parti possa incontrare limiti diversi e più penetranti di quelli vigenti in via generale per i "nova".

4.- Quanto detto finora vale anche a dimostrare la fondatezza del secondo profilo di incostituzionalità denunciato. La disposizione impugnata, infatti, riferendosi testualmente al solo imputato, sembra implicare che in presenza di nuove contestazioni il diritto alla prova non spetti, neanche nei limiti di cui all'art. 507, alle altre parti private e al pubblico ministero.

Quanto a quest'ultimo, deve condividersi il rilievo del Tribunale di Lecce secondo cui tale esclusione non potrebbe giustificarsi assumendo che le nuove contestazioni vanno effettuate solo se vi sono già elementi sufficienti a dare compiuta dimostrazione delle relative circostanze. La logica del pieno contraddittorio cui è improntata la fase dibattimentale esige, al contrario, che la contestazione avvenga non appena emergano seri elementi per effettuarla: sicchè, se al pubblico ministero - alla stregua della norma impugnata - è inibito di integrarli per pervenire ad una compiuta dimostrazione del proprio assunto, il suo diritto alla prova in condizioni di parità con l'imputato ne risulta compromesso. Ed analoga violazione del principio di parità delle parti, nonchè del diritto di difesa, deve riconoscersi per l'esclusione dal diritto alla prova delle parti private diverse dall'imputato, alle quali pure sono riferite tanto la disposizione generale di cui all'art. 190 che quelle specifiche dianzi richiamate.

L'art. 519, secondo comma, cod. proc. pen. va perciò dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost. (restando con ciò assorbiti gli altri parametri invocati), tanto nella parte in cui, in caso di nuove contestazioni, consente all'imputato di chiedere l'ammissione di nuove prove solo "a norma dell'art. 507", quanto nella parte in cui esclude che nuove prove possano essere in tal caso chieste anche dalle altre parti private e dal pubblico ministero.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la illegittimità costituzionale del secondo comma dell'art. 519 del codice di procedura penale:

a) nella parte in cui, nei casi previsti dall'art. 516 del codice di procedura penale, non consente al pubblico ministero e alle parti private diverse dall'imputato di chiedere l'ammissione di nuove prove;

b) dell'inciso, "a norma dell'art. 507".

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20/05/92.

Aldo CORASANITI, Presidente

Ugo SPAGNOLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 03/06/92.