Sentenza n. 62 del 1992

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SENTENZA N. 62

ANNO 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Dott. Aldo CORASANITI, Presidente

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 122 del codice di procedura civile e degli artt. 22 e 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) promosso con ordinanza emessa il 30 novembre 1990 dal Pretore di Trieste nel procedimento civile vertente tra Pahor Samo ed il Sindaco di Trieste ed altro, iscritta al n. 443 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.27/1a Serie Speciale dell'anno 1991.

Visti gli atti di costituzione di Pahor Samo, nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 3 dicembre 1991 il Giudice relatore Antonio Baldassarre;

uditi l'avvocato Bogdan Berdon per Pahor Samo e l'Avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.- Un cittadino italiano di lingua slovena, Samo Pahor, ha proposto opposizione nei confronti di un'ordinanza-ingiunzione di pagamento, emessa dal Prefetto di Trieste per un'infrazione stradale di divieto di sosta, presentando un ricorso ai sensi degli artt. 22 e 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), ma redigendolo in lingua slovena. Nel ricorso l'opponente lamentava, fra l'altro, che il verbale di accertamento dell'infrazione gli era stato recapitato in lingua italiana, in contrasto, a suo dire, con i trattati internazionali vigenti in materia e, in particolare, con quello di Osimo. Il Pretore di Trieste, riservata ogni decisione in ordine all'ammissibilità del ricorso, ha disposto la traduzione di quest'ultimo in lingua italiana e, dopo che la parte opponente, inizialmente comparsa di persona, ha ulteriormente contestato l'uso esclusivo della lingua italiana nelle fasi processuali successive, ha sollevato questione di legittimità costituzionale - in riferimento agli artt. 3 e 6 della Costituzione e all'art. 3 dello Statuto speciale per il Friuli-Venezia Giulia - avverso gli artt. 22 e 23 della ricordata legge n.689 del 1981, nonchè avverso l'art. 122 c.p.c., "nella parte in cui non prevedono la facoltà, per i soggetti appartenenti a una minoranza linguistica riconosciuta, di usare la propria lingua negli atti processuali civili e ricevere da controparte la traduzione nella propria lingua degli atti processuali di questa".

Il giudice a quo premette, in punto di rilevanza, che egli dovrebbe dichiarare irricevibile il ricorso introduttivo, redatto in lingua slovena, dal momento che l'art. 122 c.p.c., la cui applicazione si estende al processo a quo, prescrive per i procedimenti civili l'uso della lingua italiana (primo comma) e impone la nomina di un interprete soltanto se deve esser sentita una persona che non conosce la lingua italiana (secondo comma). Ma, poichè il giudice a quo dubita della costituzionalità di tali norme e poichè l'eventuale pronuncia di accoglimento di questa Corte farebbe superare l'ostacolo dell'obbligo di rivolgersi all'autorità giudiziaria soltanto nella lingua italiana, il Pretore di Trieste osserva che solo sollevando la questione di costituzionalità potrebbe affrontare il merito della causa sottopostagli.

In ordine alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo rileva, innanzitutto, che la sentenza n. 28 del 1982 di questa Corte, dopo aver ricordato che in Italia non è mai stata data esecuzione al Memorandum di Londra del 1954 (il quale conferiva agli sloveni estese facoltà di uso della lingua madre nei loro rapporti con le autorità amministrative e con quelle giudiziarie), ha affermato che quella slovena è una "minoranza riconosciuta", la quale, tuttavia, non può giovarsi dell'uso della propria lingua nel processo, sia perchè fra le misure di attuazione del Memorandum di Londra mantenute ferme dal Trattato di Osimo (reso esecutivo con la legge 14 marzo 1977, n. 73) non v'è alcuna norma abrogatrice o derogatrice dell'art. 122 c.p.c., sia perchè dall'art. 6 della Costituzione e dall'art.3 dello Statuto per il Friuli-Venezia Giulia deriva una tutela il cui oggetto diretto è la cultura della minoranza slovena, non il diritto alla difesa del singolo appartenente a quella minoranza. Ma, continua il giudice a quo, la stessa sentenza n. 28 del 1982, che è una pronunzia interpretativa di rigetto, afferma che c'è una "tutela minima" che consente "già ora" agli appartenenti alla minoranza slovena di usare la lingua materna anche con le locali autorità giurisdizionali e di ricevere risposte da tali autorità nella stess lingua. Non di meno questa "tutela minima", conclude il giudice a quo, è rimasta lettera morta, oltrechè per il legislatore, anche per i giudici e gli amministratori, sicchè si renderebbe necessario passare da una sentenza interpretativa di rigetto a una di accoglimento onde far adattare la realtà giuridica ai dettami costituzionali.

Il Pretore di Trieste ritiene che le norme impugnate violino anche l'art. 3 della Costituzione. A suo avviso, infatti, l'adozione del nuovo art. 109 c.p.p., che permette al cittadino appartenente a una minoranza linguistica di esprimersi nella propria lingua nel processo penale, crea una disparità rispetto all'impugnato art. 122 c.p.c., che quella possibilità non prevede per il processo civile, sicchè si produrrebbe un'irragionevole rottura del parallelismo che la dottrina individua tra i due processi e si conferirebbe una tutela diseguale allo sviluppo della persona umana nei due tipi di giudizio. Tutto ciò, conclude il giudice a quo, vale in modo particolare per i giudizi nascenti dall'opposizione alle ordinanze-ingiunzioni amministrative, nel cui procedimento, pur disciplinato da alcune norme del codice di procedura civile (fra le quali, sicuramente, l'art. 122), il cittadino può stare in giudizio di persona (art. 23, quarto comma, della legge n. 689 del 1981), come avviene nel processo penale.

2.- É intervenuta nel processo di costituzionalità la parte privata ricorrente nel giudizio a quo, svolgendo per lo più argomentazioni adesive rispetto all'ordinanza di rimessione e sottolineando l'ulteriore incongruenza per la quale il cittadino italiano appartenente alla minoranza linguistica slovena può usare la propria madrelingua nell'esercizio dell'azione civile nel processo penale. Su tali basi, la parte privata chiede che la questione sia accolta.

3.- Si è costituito in giudizio anche il Presidente del Consiglio dei ministri per chiedere che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, non fondata.

Secondo l'Avvocatura dello Stato, l'ordinanza di rimessione non motiva adeguatamente su alcuni punti decisivi ai fini della rilevanza della questione. Innanzitutto, essa non precisa se il ricorrente del giudizio a quo fosse cittadino italianoalla data del 10 giugno 1940 (come esige l'art.3 del Trattato di Osimo) e se, quando e perchè abbia acquistato la cittadinanza italiana e sia, quindi, classificabile come "cittadino appartenente a una minoranza linguistica riconosciuta" (cosa probabile, peraltro, essendo stato lo stesso Pahor parte nel processo penale in relazione al quale è stata resa la sentenza n. 28 del 1982 di questa Corte). La stessa ordinanza, poi, non motiva anche sul punto se le norme in favore delle minoranze possano operare anche per gli immigrati che acquistano la cittadinanza italiana, oltrechè per coloro da tempo insediati nel territorio nazionale.

In secondo luogo, un ulteriore profilo di inammissibilità, legato alla non necessaria influenza del giudizio di costituzionalità rispetto al processo a quo, è ravvisato dall'Avvocatura dello Stato nel fatto che, mentre nel ricorso per opposizione alla ordinanza-ingiunzione prefettizia si lamentava l'illegittimità della predetta ordinanza soltanto perchè redatta "esclusivamente in lingua italiana" senza "traduzione in lingua slovena", nel corso della successiva udienza del 25 ottobre 1989 lo stesso opponente ha dichiarato di "aver ricevuto in lingua slovena l'ordinanza- ingiunzione ma non anche la contestazione dell'illecito", ammettendo così la non sussistenza in fatto dell'asserito vizio e, conseguentemente, la mancanza della materia del contendere di fronte al giudice a quo.

É perciò che, probabilmente, il Pretore di Trieste non ha esteso la questione di costituzionalità all'uso della lingua slovena nei rapporti con la pubblica amministrazione, ma l'ha limitata all'uso della stessa lingua nel rivolgersi all'autorità giudiziaria (e, quindi, in relazione al solo atto introduttivo della controversia civile).

Un terzo motivo di inammissibilità è poi individuato dall'Avvocatura dello Stato nel fatto che il giudice a quo sarebbe stato vittima di una aberratio ictus, nel senso che avrebbe identificato come suscettibili di manipolazione additiva disposizioni, come quelle contenute negli artt. 22 e 23 della legge n. 689 del 1981, le quali non concernono affatto la lingua dei processi, neppure per quella parte (art. 23, quarto comma) che permette al ricorrente e al resistente di stare in giudizio personalmente.

Infine, un ultimo motivo di inammissibilità addotto dall'Avvocatura dello Stato è costituito dal rilievo che, come si può desumere dalla disciplina vigente nel Trentino-Alto Adige per le minoranze etniche di quella Regione, la garanzia dell'uso nel processo di una lingua diversa da quella ufficiale dello Stato comporta l'adozione di una disciplina normativa complessa e onerosa, con molteplici gradazioni di soluzioni, sicchè mancherebbe il presupposto logico-giuridico per una pronuncia additiva, vale a dire la possibilità di individuare una sola soluzione in grado di assicurare la conformità a Costituzione della disposizione contenente l'omissione di cui si lamenta l'illegittimità.

Sotto il profilo del merito costituzionale, l'Avvocatura dello Stato ritiene, comunque, che la questione sia palesemente infondata per svariate ragioni.

In primo luogo, non sembrerebbero risolutivi i parametri invocati, poichè, anzichè richiamare la X Disposizione transitoria della Costituzione, il giudice a quo fa appello agli artt. 3 e 6 della Costituzione e all'art. 3 dello Statuto per il Friuli-Venezia Giulia. Ma, in contrario si deve osservare che, innanzitutto, il primo di tali articoli non impone un obbligo positivo di creare istituzioni a favore di cittadini di lingua diversa da quella italiana e fa riferimento all'eguaglianza fra cittadini, e non fra processi. Inoltre, l'art. 6 è già stato definito da questa Corte come "norma direttiva ad efficacia differita", richiedente la necessaria interposizione di disposizioni attuative. Infine, l'art.

3 dello Statuto, per la parte che non ripete il principio costituzionale di eguaglianza, impone la salvaguardia delle caratteristiche etniche e culturali, salvaguardia che non si concreta nell'obbligo di porre in essere una complessa disciplina derogatoria all'art. 122 c.p.c..

In secondo luogo, non risolutivo sembra anche il riferimento all'art.109 c.p.p.. Quest'ultimo, infatti, pone una deroga al principio dell'uso della lingua italiana che è circoscritta al caso di un cittadino italiano che deve essere interrogato o esaminato oralmente, al quale viene riconosciuta la facoltà, previa richiesta espressa, di parlare nella madrelingua (e non già di poter scrivere gli atti ufficiali del processonella propria lingua) e di avere tanto il verbale anche nel lingua, quanto la traduzione nella stessa lingua degli atti a lui indirizzati. In breve, l'art. 109 non comporta che la richiesta dell'alloglotto determini la lingua nel processo, sicchè per tale profilo la questione potrebbe esser ritenuta anche inammissibile, oltrechè infondata. Nè va trascurato, continua l'Avvocatura dello Stato, che l'art.109 concerne il processo penale, vale a dire un processo che, a differenza di quello civile, coinvolge problemi di libertà personale, e non già solo interessi patrimoniali. Per di più, aggiunge l'Avvocatura, non si può fare confusione tra gli atti del processo e le dichiarazioni probatorie che si raccolgono nel processo, poichè le seconde, anche se poi vengono raccolte e documentate in atti processuali, non partecipano della natura di questi ultimi e, perciò, possono essere espresse in altre lingue o anche in nessuna lingua, come nel caso del sordomuto.

Da ultimo, l'Avvocatura dello Stato osserva che la clausola contenuta nell'art. 8 del Trattato di Osimo, relativa alla salvezza delle misure interne adottate in applicazione del Memorandum di Londra del 5 ottobre 1954, non rileva riguardo all'uso della lingua slovena negli atti amministrativi e in quelli giurisdizionali, per la semplice ragione che in materia non sussistono "misure interne già adottate".

Considerato in diritto

1.- Nel corso di un giudizio di opposizione a un'ordinanza-ingiunzione prefettizia, instaurato ai sensi degli artt. 22 e 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), il cui ricorso introduttivo è stato redatto in lingua slovena, il Pretore di Trieste, dopo essersi riservata ogni decisione sull'ammissibilità del ricorso stesso e dopo aver fatto tradurre quest'ultimo in lingua italiana, di fronte alle contestazioni della parte opponente, comparsa personalmente in giudizio, riguardo alla prescrizione dell'uso esclusivo della lingua italiana in tutto il processo pendente, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dei predetti artt. 22 e 23, nonchè dell'art.122 c.p.c. (ritenuto applicabile nel processo a quo per il rinvio delle disposizioni regolatrici di quest'ultimo alle norme del codice di procedura civile), "nella parte in cui non prevedono la facoltà, per i soggetti appartenenti a una minoranza linguistica riconosciuta, di usare la propria lingua negli atti processuali civili e ricevere da controparte la traduzione nella propria lingua degli atti processuali di questa".

Secondo il giudice a quo, le norme impugnate violerebbero, innanzitutto, l'art. 6 della Costituzione e l'art. 3 dello Statuto speciale per il Friuli-Venezia Giulia, i quali esigono, rispettivamente, la tutela con apposite norme delle minoranze linguistiche e la parità di diritti e di trattamento fra i cittadini, qualunque sia il gruppo linguistico di appartenenza. Lo stesso giudice ritiene che sia violato anche l'art. 3 della Costituzione, a causa dell'irragionevole disparità che si sarebbe creata tra il processo civile, nel quale ogni cittadino è tenuto a usare soltanto la lingua italiana, e il processo penale, laddove l'art.109 c.p.p. permette al cittadino appartenente a una minoranza linguistica riconosciuta di esprimersi nella lingua materna, di ricevere gli atti processuali tradotti nella stessa lingua e di avere la redazione dei verbali anche nella propria lingua.

L'Avvocatura dello Stato ha sollevato varie eccezioni di inammissibilità, che occorre esaminare preliminarmente.

2.- Non può essere accolta l'eccezione di inammissibilità sollevata sul presupposto che l'ordinanza di rimessione non sia adeguatamente motivata in relazione al possesso, da parte del ricorrente nel giudizio a quo, della cittadinanza italiana.

Per quanto la suddetta ordinanza non contenga alcuna espressa affermazione sul punto, essa suppone chiaramente la sussistenza di quel requisito nella persona del ricorrente nel momento stesso in cui solleva la questione di costituzionalità sull'uso della lingua slovena in relazione a "un appartenente a una minoranza linguistica" riconosciuta. Del resto, che il dubbio sollevato dall'Avvocatura dello Stato sia privo di fondamento ha ulteriore conferma nel fatto, ricordato dalla stessa Avvocatura, che la medesima persona è già stata parte di un processo penale che ha dato luogo a una precedente pronunzia interpretativa di rigetto di questa Corte in merito a questione analoga.

3.- Parimenti da respingere è l'ulteriore eccezione di inammissibilità sollevata dall'Avvocatura dello Stato in relazione al fatto che, essendo stata successivamente tradotta in sloveno l'ordinanza- ingiunzione dalla cui opposizione è sorto il giudizio a quo ed essendo quello della contestazione dell'uso esclusivo della lingua italiana l'unico motivo di ricorso avverso la predetta ordinanza-ingiunzione, il processo a quo dovrebbe considerarsi cessato per il venir meno della materia del contendere.

Ove l'eccezione proposta non sia, in realtà, una prefigurazione della soluzione di merito da dare al giudizio a quo e ove, quindi, sia una vera e propria pregiudiziale d'inammissibilità, diretta a ipotizzare che il processo a quo sia illegittimamente considerato tuttora pendente, occorre ricordare che non rientra tra i poteri di questa Corte quello di sindacare, in sede di ammissibilità, la validità dei presupposti di esistenza del giudizio a quo, a meno che questi non risultino manifestamente e incontrovertibilmente carenti. Poichè nel momento in cui è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale era pendente un giudizio di opposizione a un'ordinanza-ingiunzione e poichè in quel momento non sussisteva alcuna incontrovertibile ragione che potesse indurre a ritenere che il giudizio a quo fosse instaurato in modo manifestamente illegittimo, si deve escludere che ricorrano motivi d'inammissibilità sotto l'accennato profilo.

4.- Così come è formulata dall'Avvocatura dello Stato, va pure respinta l'ulteriore eccezione d'inammissibilità, secondo la quale il giudice a quo avrebbe erroneamente individuato negli artt. 22 e 23 della legge n. 689 del 1981 le disposizioni di legge da sottoporre al giudizio di legittimità costituzionale, considerato che nessuno dei due citati articoli concerne il problema della lingua da usare nel relativo processo.

In realtà, il giudice a quo, dovendo identificare la questione dell'uso della lingua riguardo al particolare processo di cognizione nascente dall'opposizione a un'ordinanza- ingiunzione applicativa di sanzioni amministrative, non aveva altra scelta che impugnare gli articoli di legge disciplinanti quel processo in congiunzione con l'art. 122 c.p.c., relativo all'uso della lingua nel processo civile, cui gli artt. 22 e 23della legge n. 689 del 1981 fanno implicito rinvio in ordine procedimento da essi regolato. É, infatti, dal complesso delle disposizioni impugnate, assunto in combinato disposto,che deriva la prescrizione di usare la lingua italiana nel procedimento speciale costituente il giudizio a quo, sia con riguardo al ricorso (regolato dall'art. 22), sia con riguardo agli atti processuali successivi (regolati dall'art. 23).

5.- Inammissibile per irrilevanza dev'essere, invece, dichiarata l'estensione della questione sollevata al processo civile come tale.

Come è stato precisato nel punto precedente della motivazione, il giudice a quo ha impugnato il combinato disposto formato dagli artt. 22 e 23 della legge n. 689 del 1981 e dall'art. 122 c.p.c. al fine di prospettare il dubbio di legittimità costituzionale riguardo alla prescrizione dell'uso esclusivo della lingua italiana negli atti processuali riguardanti il giudizio di opposizione regolato dai due articoli citati per primi.

Tuttavia, numerosi passi dell'ordinanza di rimessione e, in modo specifico, quelli relativi al profilo di costituzionalità sollevato in riferimento all'art. 3 della Costituzione, propongono alla Corte un oggetto di giudizio più ampio, esteso al processo civile come tale.

Per quest'ultima parte, che esorbita dall'obbligo di usare la lingua italiana nel particolare processo regolato dai ricordati artt. 22 e 23, la questione è inammissibile, poichè il procedimento da ultimo menzionato, nel quale consiste il giudizio a quo, è un processo speciale di cognizione, nel senso che, pur essendo un giudizio ordinario a cognizione piena ed esauriente, consta di un rito avente ampi tratti di specialità, dovuti alla natura particolare della controversia (opposizione a provvedimenti applicativi di sanzioni amministrative a carattere punitivo). Sicchè, essendo logicamente assurdo ritenere che la species ricomprenda il genus, un vincolo formale riferentesi a un procedimento "speciale", se pure a seguito di un rinvio implicito alla disciplina generale, non può essere esteso in via interpretativa al modello generale costituito dal processo civile come tale, a meno di non eccedere dai limiti della rilevanza posti dal giudizio a quo.

6.- La questione è fondata soltanto in parte.

Questa Corte, nella sentenza n. 28 del 1982, ha affermato che la popolazione slovena residente in parte del territorio della Regione Friuli- Venezia Giulia va qualificata, in base a varie norme vigenti, come "minoranza linguistica riconosciuta" ai sensi dell'art. 6 e della X Disposizione transitoria della Costituzione, nonchè dell'art. 3 dello Statuto speciale per il Friuli- Venezia Giulia (legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1).

Tale qualificazione - un tempo parzialmente legata al Memorandum d'intesa fra i Governi d'Italia, del Regno Unito, degli Stati Uniti e della Jugoslavia, concernente il territorio libero di Trieste (siglato a Londra il 5 ottobre 1954), ormai decaduto e, peraltro, attuato in passato solo in modo parziale e prevalentemente in via amministrativa - deriva, innanzitutto, dal Trattato di Osimo (stipulato fra l'Italia e la Jugoslavia il 10 novembre 1975 e reso esecutivo con legge 14 marzo 1977, n.73), il quale fa esplicito riferimento all'impegno dello Stato italiano di tutelare la "minoranza jugoslava" residente nel proprio territorio parallelamente all'impegno dello Stato jugoslavo verso la minoranza italiana residente nel territorio di quest'ultimo. La stessa qualificazione deriva, inoltre, da vari atti legislativi nazionali e regionali, in qualche modo connessi con gli impegni assunti dallo Stato italiano sul piano internazionale, che hanno riconosciuto alla minoranza slovena insediata in parte del territorio della Regione Friuli-Venezia Giulia appositi "diritti" in relazione a vari ambiti della vita civile, sociale e politica (v., ad esempio, le leggi 14 aprile 1956, n. 308; 19 luglio 1961, n. 1012;22 dicembre 1973, n. 932; 14 gennaio 1975, n. 1; 24 gennaio 1979, n.18; il d.P.R. 31 maggio 1974, n. 416; 9 gennaio 1991, n. 19; nonchè, in ambito regionale, le recenti leggi 24 luglio 1986, n. 30; 1 marzo 1988, n.7; 9 marzo 1988, n. 10; 5 settembre 1991, n. 46).

Sulla base delle norme costituzionali prima ricordate - segnatamente l'art.6 e la X Disposizione transitoria della Costituzione, nonchè l'art.3 dello Statuto speciale per il Friuli- Venezia Giulia - la lingua propria di ciascun gruppo etnico rappresenta un connotato essenziale della nozione costituzionale di minoranza etnica, al punto da indurre il Costituente a definire quest'ultima quale "minoranza linguistica". Come elemento fondamentale di identità culturale e come mezzo primario di trasmissione dei relativi valori e, quindi, di garanzia dell'esistenza e della continuità del patrimonio spirituale proprio di ciascuna minoranza etnica, il diritto all'uso della lingua materna nell'ambito della comunità di appartenenza è un aspetto essenziale della tutela costituzionale delle minoranze etniche, che si collega ai principi supremi della Costituzione (v. sentt. nn. 312 del 1983, 289 del 1987 e 768 del 1988): al principio pluralistico riconosciuto dall'art. 2 ("La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo [...] nelle formazioni sociali"), al principio di eguaglianza di fronte alla legge, garantito dall'art. 3, primo comma ("Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali di fronte alla legge, senza distinzioni [...] di lingua [...]"), e al principio di giustizia sociale e di pieno sviluppo della personalità umana nella vita comunitaria, assicurato dall'art. 3, secondo comma ("É compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della personalità umana [...]").

La garanzia del diritto all'uso della lingua materna come parte essenziale della tutela delle minoranze etniche è, inoltre, riconosciuta da atti di diritto internazionale. Fra questi particolare rilievo ha l'art.27 del patto internazionale per i diritti civili e politici adottato il 16 dicembre 1966 dall'Assemblea generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (O.N.U.) e ratificato con legge 25 ottobre 1977, n. 881, secondo il quale ogni persona appartenente a una minoranza linguistica non può essere privata del diritto di usare la lingua materna nell'ambito dell'area d'insediamento della propria comunità etnica. Sebbene tale patto non sia ancora ratificato da un numero sufficiente di Stati per renderlo operante come trattato multilaterale, tuttavia, consistendo pur sempre in una deliberazione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, ad esso deve, quantomeno, riconoscersi il valore di criterio d'interpretazione delle norme vigenti nell'ordinamento internazionale e delle norme di diritto interno proprie degli Stati appartenenti all'O.N.U., considera obiettivi ritenuti da questi ultimi Stati meritevoli di essere perseguiti e realizzati.

7.- Sulla base dei principi costituzionali e di diritto internazionale ora descritti, non vi può esser dubbio che la tutela di una minoranza linguistica riconosciuta si realizza pienamente, sotto il profilo dell'uso della lingua materna da parte di ciascun appartenente a tale minoranza, quando si consenta a queste persone, nell'ambito del territorio di insediamento della minoranza cui appartengono, di non essere costrette ad adoperare una lingua diversa da quella materna nei rapporti con le autorità pubbliche.

Questa affermazione assume un valore particolare in riferimento all'uso della lingua materna di fronte all'autorità giudiziaria, poichè in tali rapporti ricorre in ogni caso un'indubbia interferenza di questa tutela con la garanzia costituzionale dei diritti inviolabili della difesa e, più precisamente, con il diritto a un regolare processo (art.24 della Costituzione). Interferenza, occorre sottolineare, e non coincidenza o sovrapposizione con la tutela comportata dal riconoscimento dei diritti della difesa, poichè, mentre quest'ultima è finalizzata, per il profilo ora rilevante, alla adeguata comprensione degli aspetti processuali e suppone che questa possa mancare quando l'interessato non abbia in concreto una perfetta conoscenza della lingua ufficiale del processo (come, ad esempio, nel caso dello straniero), al contrario la garanzia dell'uso della lingua materna a favore dell'appartenente a una minoranza linguistica riconosciuta è, in ogni caso, la conseguenza di una speciale protezione costituzionale accordata al patrimonio culturale di un particolare gruppo etnico e, pertanto, prescinde dalla circostanza concreta che l'appartenente alla minoranza stessa conosca o meno la lingua ufficiale (v. sent. n. 28 del 1982).

É per le ragioni sopra indicate che questa Corte, con la sentenza n.28 del 1982 (i cui principi sono stati ribaditi anche dalla sent. n. 312 del 1983 in relazione alle minoranze riconosciute dal Trentino-Alto Adige), ha direttamente ricondotto all'art. 6 della Costituzione e all'art.3 dello Statuto speciale per il Friuli-Venezia Giulia il "diritto" di ciascun appartenente a una minoranza linguistica riconosciuta all'uso della lingua materna nei rapporti con gli uffici giudiziari situati nei territori dove quella minoranza è insediata. Più in particolare, nella sentenza ora citata questa Corte ha espressamente affermato che dalle norme costituzionali precedentemente ricordate discende un nucleo minimale di tutela per gli appartenenti alla minoranza riconosciuta comprendente il "diritto" di usare la lingua materna nei rapporti con le locali autorità giurisdizionali e di ricevere risposte da quelle autorità nella stessa lingua.

Ed è per le stesse ragioni sopra menzionate che la medesima garanzia sull'uso della madrelingua è divenuta oggetto di un impegno di diritto internazionale, assunto dallo Stato italiano nei confronti di quello jugoslavo. Infatti, nel sancire la cessazione di efficacia del Memorandum di Londra del 1954, il cui allegato "statuto speciale" prevedeva, all'art.5, il diritto degli appartenenti alla minoranza slovena di usare la loro lingua nei rapporti con le autorità giudiziarie e di ricevere da queste, direttamente o in traduzione, risposte nella loro stessa lingua, il Trattato di Osimo del 1975, oltre a confermare le misure interne già adottate in attuazione del predetto "statuto", impegna le parti contraenti ad assicurare, nel quadro del loro diritto interno, "la conservazione del livello di protezione a favore dei membri dei gruppi etnici rispettivi (delle minoranze rispettive), previsto dalle norme dello Statuto Speciale decaduto" ("chaque Partie dèclare [...] qùelle assurera dans le cadre de son droit interne le maintien de niveau de protection des membres des groupes ethniques respectifs [des minoritès respectives], prèvu par les normes du Statut Special èchu"). E, poichè tra le misure di protezione garantite rientra anche il ricordato art. 5, il contenuto di quest'ultimo diviene, in conseguenza della disposizione appena citata del Trattato di Osimo, oggetto di uno specifico impegno assunto dallo Stato italiano.

In altri termini, tanto la Costituzione (e lo Statuto speciale per il Friuli-Venezia Giulia) quanto il Trattato di Osimo, nell'ambito dei fini connessi alla tutela "positiva" delle minoranze linguistiche, impongono al legislatore e alle altre autorità della Repubblica l'impegno di perseguire l'obiettivo di assicurare agli appartenenti alla minoranza slovena residente nel Friuli-Venezia Giulia il diritto di usare la propria lingua materna nei rapporti con gli uffici pubblici e, in particolare, nei rapporti con gli uffici giudiziari. Nell'uno e nell'altro caso si tratta, comunque, di "norme direttive ad efficacia differita" - per usare la terminologia ripresa dalla sentenza n. 28 del 1982 con riguardo all'art. 6 della Costituzione -, nel senso che si è di fronte a norme finalistiche o di scopo la cui realizzazione è innanzitutto rimessa al legislatore, il quale, usando della propria discrezionalità, è tenuto a graduare i modi, le forme di tutela e i tempi connessi all'attuazione delle predette finalità in riferimento alle condizioni sociali esistenti e alla disponibilità, da parte dello Stato, delle risorse organizzative e finanziarie necessarie alla relativa implementazione.

8.- Il diritto all'uso della lingua materna da parte degli appartenenti a minoranze linguistiche nei loro rapporti con le (locali) autorità giudiziarie, il quale trova riconoscimento, peraltro, anche in norme costituzionali e legislative vigenti in altri Stati europei e nordamericani dove sussistono etnìe diverse, ha, dunque, una generale copertura costituzionale nell'art. 6 della Costituzione e, per quanto riguarda la minoranza slovena, anche nella X^ Disposizione transitoria della stessa Carta costituzionale e nell'art. 3 dello Statuto speciale per il Friuli-Venezia Giulia. Esso è, in altri termini, un valore che - secondo il paradigma proprio dei diritti condizionati, quanto all'attuazione, dall'interposizione del legislatore ordinario - può fondare, nei singoli cittadini appartenenti a minoranze linguistiche riconosciute, pretese soggettive effettive e azionabili soltanto nella misura in cui siano state adottate adeguate norme di attuazione e siano state predisposte le necessarie strutture organizzative o istituzionali.

Sotto quest'ultimo profilo, tuttavia, non è indispensabile che siano state emanate norme di attuazione specifiche, ma è sufficiente che sussistano istituti o strutture organizzative di generale applicazione che possono essere utilizzati anche al fine di rendere effettivo e concretamente fruibile il diritto garantito in via di principio dalla Costituzione. É proprio sulla base di questi ultimi presupposti che la Corte costituzionale ha potuto affermare nella sentenza n. 28 del 1982 che l'art.6 della Costituzione e l'art. 3 dello Statuto speciale per il Friuli- Venezia Giulia contengono una tutela "minima", la quale "anche nei rapporti con le locali autorità giurisdizionali, consente già ora agli appartenenti alla minoranza slovena di usare la lingua materna e di ricever risposte dalle autorità in tale lingua: nelle comunicazioni verbali, direttamente o per il tramite di un interprete, nella corrispondenza, con il testo italiano accompagnato da traduzione in lingua slovena".

Infatti, prosegue subito dopo la stessa sentenza, l'entrata in vigore della legge 19 luglio 1967, n. 568, contenente norme sul conferimento dell'incarico di traduttore e di interprete presso gli uffici giudiziari situati nei distretti di Corte d'appello dove le esigenze di servizio lo richiedano, rende effettivo e azionabile, per la parte considerata, il diritto all'uso della lingua materna da parte degli appartenenti alla minoranza slovena nei loro rapporti con l'autorità giudiziaria.

Sicchè, in applicazione di tali principi, come non può essere tollerata qualsiasi sanzione che colpisca l'uso in giudizio della lingua materna da parte degli appartenenti alla minoranza slovena, così deve essere ammessa, in conseguenza della legge n. 568 del 1967, la facoltà di questi stessi soggetti, nei giudizi davanti all'autorità giudiziaria avente competenza su un territorio dov'è insediata la minoranza slovena, di usare, a loro richiesta, la lingua materna nei propri atti, usufruendo per questi della traduzione nella lingua ufficiale, oltrechè di ricevere in traduzione nella propria lingua gli atti dell'autorità giudiziaria e le risposte della controparte.

Entro questi limiti la questione di costituzionalità proposta dal Pretore di Trieste sull'uso della lingua slovena nel processo di opposizione alle ordinanze-ingiunzioni applicative di sanzioni amministrative, disciplinato dagli artt. 22 e 23 della legge n. 689 del 1981, deve essere accolta.

9.- La questione sollevata dal Pretore di Trieste, formulata negli ampi termini di permettere ai cittadini appartenenti alla minoranza slovena di usare in tutti gli atti del processo (regolato dagli artt. 22 e 23 della legge n. 689 del 1981) la propria madrelingua, ricomprende ulteriori profili. Complessivamente considerati, questi comportano che sia riconosciuto il principio della parificazione dello sloveno all'italiano come lingua ufficiale del processo di cui trattasi in relazione ai giudizi di competenza degli uffici giudiziari siti nei territori d'insediamento della minoranza slovena. Per questo aspetto, la questione è inammissibile.

La parificazione della lingua slovena a quella italiana come lingua ufficiale del processo di opposizione alle ordinanze-ingiunzioni applicative di sanzioni amministrative comporta, infatti, una pluralità di soluzioni in ordine alle varianti da introdurre nella organizzazione del processo, nei poteri spettanti alle parti e al giudice, oltrechè nei termini entro cui esercitare i suddetti poteri, la quale è tale da precludere la possibilità di qualsiasi legittimo intervento additivo da parte di questa Corte e da esigere il necessario e auspicabile intervento del legislatore, così come è avvenuto, per la minoranza di lingua tedesca residente nel Trentino-Alto Adige, con il d.P.R. 15 luglio 1988, n.574.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale degli artt. 22 e 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), in combinato disposto con l'art. 122 c.p.c., nella parte in cui non consentono ai cittadini italiani appartenenti alla minoranza linguistica slovena nel processodi opposizione ad ordinanze-ingiunzioni applicative di sanzioni amministrative davanti al pretore avente competenza su un territorio dove sia insediata la predetta minoranza, di usare, su loro richiesta, la lingua materna nei propri atti, usufruendo per questi della traduzione nella lingua italiana, nonchè di ricevere tradotti nella propria lingua gli atti dell'autorità giudiziaria e le risposte della controparte;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata, con l'ordinanza indicata in epigrafe, dal Pretore di Trieste, in riferimento agli artt. 6 della Costituzione e 3 dello Statuto speciale per il Friuli-Venezia Giulia (legge costituzionale 31 gennaio 1963, n.1), nei confronti degli artt. 22 e 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689, in combinato disposto con l'art. 122 c.p.c., nella parte in cui non consentono ai cittadini italiani appartenenti alla minoranza linguistica slovena, nel processo di opposizione ad ordinanze- ingiunzioni applicative di sanzioni amministrative davanti al pretore avente competenza su un territorio dove sia insediata la predetta minoranza, di usare la propria madrelingua come lingua parificata a quella ufficiale del suddetto processo;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata, con l'ordinanza indicata in epigrafe, dal Pretore di Trieste, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, nei confronti degli artt. 22 e 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689, in combinato disposto con l'art.122 c.p.c., nella parte in cui prescrivono l'uso della lingua italiana come lingua del processo civile, con esclusione della possibilità di usare la lingua slovena da parte di cittadini italiani appartenenti alla minoranza linguistica slovena quando siano parti di un processo civile instaurato davanti ad autorità giudiziaria avente competenza di primo grado o di appello su un territorio dove sia insediata la predetta minoranza.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 05/02/92.

Aldo CORASANITI, Presidente

Antonio BALDASSARRE, Redattore

Depositata in cancelleria il 24 febbraio del 1992.