Sentenza n 239 del 1984

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 239

ANNO 1984

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Prof. Antonino DE STEFANO,Presidente

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv Albero MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Dott. Arnaldo MACCARONE

Prof. Antonio LAPERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI,Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, 4, 5, 15, lett. c, 24, 25, 26, 27, 28, 29 e 30 del r.d. 30 ottobre 1930, n. 1731 (Norme sulle Comunità israelitiche e sulla Unione delle Comunità medesime), promosso con ordinanza emessa il 16 maggio 1979 dal pretore di Roma sul ricorso di Nahum Meir contro la Comunità israelitica di Roma, iscritta al n. 775 del registro ordinanze 1979 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8 dell'anno 1980; visti gli atti di costituzione della Comunità israelitica di Roma e di Nahum Meir nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 24 gennaio 1984 il Giudice relatore Antonino De Stefano;

uditi gli avv.ti Dario di Gravio e Antonio Rombolà per Nahum Meir; Dario Tedeschi e Massimo Severo Giannini per la Comunità israelitica di Roma e l'avvocato dello Stato Carlo Salimei per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. - Con ordinanza emessa il 16 maggio 1979, il pretore di Roma ha sottoposto al giudizio di questa Corte la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 4, 5, 15 lett. c) e da 24 a 30 del r.d. 30 ottobre 1930, n. 1731 (Norme sulle Comunità israelitiche e sulla Unione delle Comunità medesime). Riguardo a tali articoli "singolarmente considerati, nonché in rapporto al sistema normativo da essi derivante" (come si precisa nel dispositivo dell'ordinanza), il giudice a quo ha ritenuto, infatti, non manifestamente infondato il dubbio che essi contrastino con gli artt. 3, 2 e 18, 23, 24 e 102, nonché 53 della Costituzione.

In questi termini la questione é stata dal pretore sollevata nel corso di un procedimento promosso, in base all'art. 700 c.p.c., con ricorso, in data 27 febbraio 1979, del sig. Nahum Meir, a seguito della intimazione di pagamento, rivoltagli dalla Comunità israelitica di Roma, del contributo di lire 150.000, che la Comunità, su un imponibile di lire 3.125.000, aveva posto a suo carico, in quanto appartenente alla stessa, per effetto, appunto, del r.d. n. 1731 del 1930. Nel ricorso si chiedeva al pretore - come vien riferito nell'ordinanza "di sospendere a tutti gli effetti l'appartenenza del ricorrente alla Comunità israelitica di Roma sia sotto il profilo organico che sotto il profilo del rapporto tributario; di inibire alla detta Comunità di indagare sulla posizione contributiva del ricorrente; e infine di emettere ogni provvedimento idoneo a cautelare il ricorrente dal pregiudizio, anche di ordine morale, derivantegli dalla vigente normativa". In subordine, si prospettava il contrasto della disciplina regolatrice delle Comunità israelitiche "con alcune norme della Costituzione, perché soffoca il principio della personalità, perché determina una disparità di trattamento a cagione di appartenenza a razza o a religione, comprime la libertà di associazione in quanto determina automaticamente e senza il concorso della volontà del singolo l'aggregazione alla comunità, altera i principi della capacità contributiva".

Costituitasi in giudizio, la Comunità israelitica di Roma eccepiva, in linea pregiudiziale, la improcedibilità della domanda, in quanto il ricorrente, per evitare la definitività della sua iscrizione nella matricola dei contribuenti, aveva a disposizione il rimedio del ricorso al Consiglio della Comunità, previsto dall'art. 27 del r.d. n. 1731 del 1930; ricorso, del resto, già proposto. Eccepiva, altresì, l'inammissibilità della domanda medesima per un duplice ordine di ragioni. Innanzi tutto perché il menzionato art. 27 subordina il ricorso all'autorità giudiziaria contro l'iscrizione nella matricola dei contribuenti al previo esperimento dei ricorsi in via amministrativa. E poi per la mancanza dei presupposti voluti per l'instaurazione del procedimento speciale previsto dall'art. 700 c.p.c., "sia per essere stata richiesta" - come anche é detto nell'ordinanza - "una sospensione del rapporto tributario e del rapporto associativo con la Comunità senza necessità di abiura, quando invece era prevista la cessazione di tali rapporti con una semplice dichiarazione di dissociazione, e sia perché difettava l'imminenza ed irreparabilità del danno". Circa, poi, le questioni di legittimità costituzionale prospettate dal ricorrente, ne affermava la manifesta infondatezza.

Sciolta la riserva espressa all'udienza di comparizione, il pretore, disattese le eccezioni proposte dalla Comunità, disponeva la trasmissione degli atti a questa Corte.

Nella motivazione dell'ordinanza di rinvio si osserva anzitutto che, essendo evidente che per decidere le sollevate questioni occorre in primo luogo verificare, sul terreno della legittimità costituzionale, se l'appartenenza del cittadino ebreo, di diritto, alla Comunità, violi o meno norme e principi della Costituzione, non può dubitarsi della rilevanza delle questioni stesse. A questo proposito, secondo il pretore, é significativo che nel ricorso si contesti non l'entità del tributo imposto, né la legittimità dell'imposizione in rapporto alle vigenti disposizioni legislative, ma la legittimità del sistema normativo che disciplina le Comunità israelitiche. Né ad escludere la rilevanza gioverebbe rifarsi alla circostanza (dalla resistente Comunità addotta, fra gli altri motivi, a sostegno della eccepita improponibilità ed inammissibilità del ricorso) del mancato esaurimento, al momento della presentazione del ricorso, del procedimento amministrativo (che peraltro sarebbe stato dal ricorrente avviato) previsto dall'art. 27 del r.d. n. 1731. Giacché - come ritenuto da questa Corte nella sentenza n. 185 del 1976 - la questione dell'asserita improponibilità dell'azione giudiziaria per omesso previo esperimento dei rimedi amministrativi, riguardando il giudizio a quo, non é suscettibile di esame nella diversa sede del giudizio di legittimità costituzionale. Per le stesse ragioni, riguardo alla sussistenza, nel caso in questione, della condizione della irreparabilità del danno (richiesta dall'art. 700 c.p.c. perché possa chiedersi il provvedimento di urgenza, ed anche essa ritenuta insussistente dalla Comunità), trattandosi, anche per questo aspetto, del giudizio a quo, non deve - si afferma nell'ordinanza - darsi precedenza al giudizio relativo ad essa. A parte, comunque, la considerazione che nel caso in questione si verte in tema di diritti della personalità costituzionalmente garantiti, la cui tutela, non attuabile mediante riparazioni pecuniarie, s'impone, anche per questo, con carattere di urgenza.

Nel delineare, quindi, riguardo al merito, i termini della disciplina del r.d. n. 1731 del 1930, il pretore premette che l'art. 1 attribuisce alle Comunità israelitiche la qualificazione di "corpi morali" e ne individua le finalità nel "soddisfacimento dei bisogni religiosi degli israeliti secondo la legge e le tradizioni ebraiche", collegando così in un nesso inscindibile l'esistenza della Comunità con l'esercizio del culto ebraico. In correlazione con l'art. 1, il successivo art. 4 stabilisce che "appartengono di diritto alla Comunità tutti gli israeliti che hanno residenza nel territorio di essa", determinando con ciò stesso l'inserimento del cittadino ebreo nella Comunità, per il solo fatto di essere israelita, senza che da parte sua siano necessarie manifestazioni di volontà (non potendosi considerare tali le eventuali dichiarazioni di verità sul proprio status personale, come quella rilasciata dal Meir alla Comunità israelitica di Roma il 23 settembre 1973, dopo che, come risulta dagli atti, dalla Libia, dove già risiedeva, si era, con la sua famiglia, trasferito in Italia). E se é vero che nel successivo art. 5 del decreto é prevista la possibilità, da parte del cittadino ebreo, in quanto tale appartenente alla Comunità, di una dichiarazione di recesso, va anche notato che tale dichiarazione non é rimessa alla mera discrezionalità del dichiarante, essendo consentita soltanto, o in conseguenza del passaggio ad altra religione, ovvero della volontà "di non essere più considerato israelita agli effetti del presente decreto"; dal che deriva che, quanto meno di fatto, il cittadino che tale dichiarazione abbia reso non é più in grado di partecipare ai riti religiosi gestiti dalla Comunità.

Coerente conseguenza di queste norme fondamentali, nelle quali, e soltanto nelle quali, trovano giustificazione, sono quindi - sottolinea ancora il pretore - le altre specifiche disposizioni, degli artt. 24 e segg. del decreto, concernenti particolarmente i contributi previsti a carico degli appartenenti alle Comunità israelitiche, e il potere di imporli, a queste attribuito.

Ciò premesso, il giudice a quo solleva questione di legittimità costituzionale degl'indicati articoli del r.d. n. 1731 del 1930 in relazione alle seguenti norme della Costituzione.

In contrasto con l'art. 3 Cost. appaiono gli artt. 4, 24 e segg. del r.d. n. 1731 del 1930, in quanto contengono una disciplina che, sia sul terreno dello status personale, sia, e conseguentemente, sul piano della situazione patrimoniale, si fonda esclusivamente sulla razza o fede religiosa del cittadino. Né vale osservare che quest'ultimo, in base all'art. 5, ha facoltà di recesso, tale facoltà potendosi esercitare solo nelle due richiamate ipotesi, ciascuna delle quali comporta sostanzialmente una pubblica professione di fede religiosa.

Inoltre, riguardo a quella "sorta di coattiva partecipazione ad una comunità a carattere associativo" - quale la Comunità israelitica - che gli artt. 4 e 5 e, di riflesso, gli artt. 24 e segg, del decreto, verrebbero in sostanza a stabilire, si pone un problema di compatibilità con gli artt. 2 e 18 Cost., dovendosi intendere il principio della libertà di associazione, garantito dagli articoli stessi, come diritto, oltre che di associarsi, di non associarsi.

Non infondato, secondo l'ordinanza, é, altresì, il dubbio che i poteri, che gli artt. 15, lett. c), e 24 e segg. - nel disciplinare i contributi da imporre agli appartenenti alle Comunità - conferiscono agli organi delle Comunità medesime, quanto all'accertamento del reddito complessivo del contribuente (regolato in modo da risultare del tutto autonomo dagli accertamenti operati dagli organi dell'amministrazione statale) ed alla determinazione dell'aliquota del contributo, violino il principio della riserva di legge in materia tributaria sancito dall'art. 23 della Costituzione. Vero che, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, questo precetto non richiede una specifica previsione normativa per ogni singola determinazione di tributo, essendo sufficiente che la legge contenga adeguati criteri di valutazione. Nel caso in questione, però, a differenza di quanto accade in altre ipotesi (ad es. ordini professionali), in cui l'ente si limita a determinare le modalità di una certa contribuzione, il potere attribuito alla Comunità si caratterizza come un vero potere di imposizione tributaria, che, in base alla Costituzione, non può non essere riservato alle istituzioni statali. Senza dire, poi, che il terzo e il quarto comma dell'art. 24 non sembra contengano sufficienti elementi idonei a delimitare il potere impositivo della Comunità, mentre l'art. 25 lascia la Comunità arbitra di fissare discrezionalmente l'entità del contributo.

Inoltre, per quanto riguarda, in particolare, il sistema di tutela dell'appartenente alla Comunità di fronte all'imposizione del contributo, per cui l'art. 27 prevede, obbligatoriamente, e quale condizione di esperibilità dell'azione giudiziaria ordinaria, ammessa peraltro "nei soli casi di violazione di legge", un apposito procedimento, articolato in due fasi (da svolgersi entro certi termini), una prima amministrativa (ricorso al Consiglio della Comunità) e una seconda giurisdizionale (ricorso ad una commissione di tre arbitri nominati fra i contribuenti), il giudice a quo si domanda se questa normativa, in quanto non consente una piena ed effettiva tutela giurisdizionale, non sia in contrasto con l'art. 24 Cost.. Si domanda, inoltre, se l'art. 27, là dove prevede un arbitrato obbligatorio, non comporti la istituzione di un giudice speciale, con conseguente violazione dell'art. 102 della Costituzione.

Un ulteriore dubbio - di contrasto, cioé delle norme impugnate, nel loro complesso, con l'art. 53 Cost. - viene, infine, prospettato nell'ordinanza di rinvio. Cumulandosi, per effetto di esse, a carico del soggetto, per la qualificazione di israelita, la contribuzione statale con quella della Comunità, egli verrebbe infatti a sopportare, secondo il giudice a quo, un carico tributario eccedente la sua effettiva capacità contributiva. Sotto questo riflesso la violazione dell'art. 53 si porrebbe in diretta correlazione con quella dell'art. 3 della Costituzione.

  1. - Notificata, comunicata e pubblicata l'ordinanza di rinvio, si sono costituite innanzi alla Corte le parti del giudizio a quo: il sig. Meir, con atto depositato il 1 ottobre 1979, e la Comunità israelitica di Roma, con atto depositato il 31 luglio 1979. É intervenuto inoltre nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, a mezzo dell'Avvocatura dello Stato, con atto depositato il 28 gennaio 1980.

La difesa del Meir, nel chiedere che la Corte accolga le eccezioni di illegittimità costituzionale, si é riportata al ricorso e alle memorie presentate nel giudizio a quo, riservandosi di sviluppare, in prosieguo, i motivi delle sue conclusioni.

La difesa della Comunità, a sostegno della richiesta che la questione sollevata sia dichiarata, in via pregiudiziale, inammissibile, in quanto irrilevante nel giudizio a quo, e, in subordine, non fondata, ha svolto, invece, un'ampia argomentazione.

Riguardo alla eccezione di inammissibilità, si sostiene che oggetto della contestazione del ricorrente, nel giudizio a quo, era in effetti l'iscrizione del Meir nella matricola dei contribuenti della Comunità, e che, quindi, non potendosi dubitare della natura di ente pubblico, e non già di associazione privata, della Comunità israelitica, il provvedimento di urgenza richiesto al pretore - come nel giudizio a quo non si era mancato di rilevare - consisteva nella sospensione di un provvedimento amministrativo. Il pretore, perciò, avrebbe dovuto dichiarare senz'altro, in applicazione dell'art. 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, sull'abolizione del contenzioso amministrativo, il difetto di giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria, definendo così il procedimento senza necessità di sollevare questioni di legittimità costituzionale.

Riguardo al merito, la difesa della Comunità rileva che mentre, nel dispositivo dell'ordinanza di rinvio, anche l'art. 1 del r.d. n. 1731 del 1930 viene incluso nell'impugnazione, nella motivazione del provvedimento non si rinviene alcuna specifica indicazione circa la norma, o le norme, della Costituzione, con cui l'articolo stesso sarebbe in conflitto. Per ciò solo - se ne conclude - non sembra che la legittimità costituzionale di questa disposizione possa essere contestata. Sarebbe anche da escludere che l'impugnativa, così proposta, dell'art. 1 del decreto, possa genericamente fondarsi sull'uno o sull'altro degli articoli della Costituzione, richiamati nel dispositivo dell'ordinanza. Né il riconoscimento come corpi morali delle Comunità israelitiche, né l'indicazione dei loro fini (in cui si sostanze il contenuto dell'art. 1) potrebbero porsi a raffronto con essi. Tanto più che lo stesso art. 1 del r.d. n. 1731 del 1930, é pienamente conforme, trovandovi anzi un suo fondamento costituzionale, all'art. 8 della Costituzione, il quale, garantendo alle confessioni religiose il diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, non esclude che esse possano organizzarsi, con il concorso dell'autorità statale, come corpi morali riconosciuti.

Per quanto, poi, riguarda gli altri articoli del r.d. n. 1731 del 1930, che nell'ordinanza di rinvio vengono impugnati con specifici riferimenti a norme della Costituzione, la difesa della Comunità esclude anzitutto che l'art. 4 del decreto, concernente l'appartenenza di diritto degli ebrei alla Comunità, sia in contrasto con il principio di eguaglianza. Tutte le volte in cui la legge disciplina le confessioni e le libertà religiose, essa presuppone - come si riscontra anche negli artt. 7, 8, 19 e 20 della Costituzione - che chiunque sia fedele di una confessione religiosa appartenga di diritto alla stessa. Ora, il fatto che l'appartenenza de iure degli ebrei alle Comunità israelitiche sia esplicitamente prevista da una legge dello Stato, in conformità alle leggi e alle tradizioni ebraiche, in base alle quali é ebreo chi nasce da madre ebrea, non aggiunge né toglie nulla alla capacità giuridica degli ebrei, i quali non sono obbligati ad appartenere a tali enti, ma con la dichiarazione prevista dall'art. 5 dello stesso decreto, se credono, possono uscirne. Ed a questo proposito non é esatto - osserva ancora la difesa della Comunità - che il recesso, previsto da questo articolo, e con il quale l'interessato "dichiara di non voler più essere considerato israelita agli effetti del presente decreto", sia un atto di abiura. A parte che la dottrina prevalente ritiene che così non sia, é chiaro, infatti, che tale dichiarazione importa solo il venir meno dei rapporti tra il singolo e la Comunità agli effetti delle situazioni disciplinate dal decreto, senza per nulla toccare la fede religiosa. Tanto che la dichiarazione di recesso (come é espressamente previsto dall'art. 3, ultimo comma, del regolamento per l'applicazione del r.d. n. 1731 del 1930, approvato con r.d. 19 novembre 1931, n. 1561) può essere sempre successivamente revocata, consentendo così all'ebreo, che per effetto di essa ne sia uscito, di rientrare nella Comunità.

É logico, d'altronde, che chi esca dalla Comunità non possa avvalersi dei suoi servizi; né é in contrasto con l'art. 3 Cost. il fatto che il recedente (come previsto, all'ultimo comma, dallo stesso art. 5 del decreto n. 1731) perda "il diritto a prestazioni di atti rituali ed alla sepoltura nei cimiteri israelitici". É palese, infatti, che ciò non implica alcuna sanzione a carico del recedente, ma solo una garanzia di libertà (conforme agli artt. 8 e 19 Cost.) a favore delle Comunità, le quali non possono essere costrette da alcun potere dello Stato a prestare atti rituali o sepoltura a coloro che se ne siano allontanati. Ancor meno, poi, possono avere rilevanza, sotto il profilo della legittimità costituzionale dell'art. 5, le eventuali conseguenze sociali della scelta compiuta dal singolo (quali il biasimo degli altri ebrei e simili), trattandosi di conseguenze di mero fatto, che non incidono sulle situazioni giuridiche del cittadino. Né si vede quale contrasto con l'art. 3 della Costituzione possa ravvisarsi negli art. 24 e seguenti del decreto, riguardanti i contributi cui sono tenuti gli israeliti appartenenti alle Comunità, essendo normale che una istituzione che svolga la propria attività a favore di un particolare gruppo sociale, sia finanziata da coloro che ne fanno parte.

Secondo la difesa della Comunità, é anche da escludere che gli artt. 4 e 51 e 24 e segg. del r.d. n. 1731 del 1930, violino gli artt. 2 e 18 della Costituzione. La "coattiva partecipazione ad una comunità avente carattere associativo", di cui al riguardo si parla nell'ordinanza di rinvio, non troverebbe infatti riscontro nella realtà. A parte la già rilevata possibilità, per i singoli appartenenti alle Comunità, di recedere liberamente dalle stesse, va infatti notato che le Comunità israelitiche non sono associazioni, cui siano riferibili gli artt. 2 e 18 della Costituzione, ma istituzioni, espressione tradizionale della confessione ebraica in Italia, che non nascono da un contratto tra i fedeli, ma dal modo di essere dell'ebraismo nel nostro Paese. L'art. 4 del decreto del 1930, in definitiva, conformemente ai principi sanciti, per tutti i culti religiosi, dall'art. 8, comma secondo, della Costituzione, non fa che riprodurre una norma statutaria ebraica. Comunque, anche a voler considerare le Comunità israelitiche come mere associazioni, fondate sul contratto fra i soci, va ricordato che, con il Congresso straordinario del 1968, nel quale tutti gli ebrei iscritti ad esse erano rappresentati dai propri delegati, le Comunità, recependo come statuti interni i decreti n. 1731 del 1930 e n. 1561 del 1931, hanno approvato il principio dell'appartenenza di diritto degli ebrei alle Comunità, stabilito dall'art. 4 del decreto n. 1731. É evidente, perciò, che tutti gli ebrei iscritti hanno ratificato la loro iscrizione, e che tutti coloro i quali sono stati iscritti, successivamente, in base a dichiarazione resa alle Comunità, hanno accettato tale norma statutaria. Ed al riguardo va precisato che la dichiarazione resa dal ricorrente alla Comunità romana il 23 settembre 1973 (di cui si fa cenno nell'ordinanza di rinvio) non conteneva una mera enunciazione di verità, ma una vera e propria domanda di iscrizione, in quanto, per prassi costante e per la secolare tolleranza dell'ebraismo italiano, nessun ebreo é stato mai iscritto alla Comunità contro la sua volontà.

Riguardo, poi, alle questioni più specificamente attinenti ai contributi previsti dal r.d. n. 1731 del 1930, la difesa della Comunità nega anzitutto che gli artt. 15, lett. c) e 24 segg. del decreto violino l'art. 23 della Costituzione. Invero, il sistema adottato dalle norme impugnate, in base al quale sono gli stessi fedeli a finanziare la confessione religiosa a cui appartengono, é quello più moderno e preferibile. Non é, infatti, ragionevole pensare che tale finanziamento possa aver luogo esclusivamente in base ad oblazioni volontarie, e che lo Stato non possa riconoscere la potestà tributaria delle confessioni religiose. Nella Repubblica federale tedesca, per esempio, le confessioni tradizionali (Chiesa cattolica e Chiesa evangelica), riconosciute come corporazioni di diritto pubblico, hanno potestà di imposizione tributaria sui fedeli, che in tal modo le finanziano. Peraltro, nel caso in questione la riserva di legge di cui all'art. 23 Cost. non é violata, perché il contributo é fissato da una legge dello Stato, che non manca - come si arguisce dai diversi aspetti della normativa - di dettare i criteri per la determinazione del contributo. E ciò sia riguardo all'accertamento dell'imponibile, sia riguardo alle aliquote, ancorate all'effettiva entità delle spese, necessarie ai fini della Comunità e quindi alle necessità di bilancio. Quanto alla valutazione del reddito, poi, vanno tenuti presenti i limiti posti al potere impositivo delle Comunità, attraverso le detrazioni (per spese di produzione, imposte, tasse, annualità passive) previste dall'art. 39 del regolamento del 1931.

Per quanto, poi, attiene, in particolare, ai rimedi previsti dall'art. 27 del decreto a tutela del contribuente (ricorso al Consiglio della Comunità e quindi alla Commissione arbitrale, e successiva azione giudiziaria per violazione di legge), la difesa della Comunità nega il prospettato contrasto di questa disposizione con gli artt. 24 e 102 della Costituzione. L'autorità giudiziaria, se adita dal contribuente, può e deve valutare, infatti, se tutte le norme specifiche del decreto sulla determinazione dell'aliquota e dell'imponibile siano state rispettate, e non si può dire, quindi, che, nella sostanza, venga ad esserle precluso qualsiasi sindacato nel merito. Neppure é, esatto, poi, che l'art. 27 del decreto, prevedendo il ricorso alla commissione arbitrale violi l'art. 102 della Costituzione. Questa norma, infatti, vieta che lo Stato, nel proprio ordinamento, istituisca "giudici straordinari o giudici speciali", ma non esclude che possa attribuire alle pronunce dei giudici di altri ordinamenti effetti nel diritto statuale. Con l'art. 27 dell'impugnato decreto, in realtà, non si é fatto che riconoscere, nel limitato settore dei contributi, quanto é sempre avvenuto nei rapporti tra le Comunità israelitiche e i loro appartenenti, le cui controversie non vengono portate alla cognizione dell'autorità giudiziaria ordinaria, ma sono risolte, in sede interna, confessionale e riservata, da arbitri nominati dalle parti.

Riguardo, infine, al contrasto con l'art. 53 Cost., la difesa della Comunità obietta che la capacità contributiva degli ebrei non é alterata per il fatto che essi sono tenuti a versare alle Comunità i contributi in questione, essendo del tutto ragionevole che il cittadino, oltre a pagare le imposte dovute allo Stato, finanzi con i propri contributi le organizzazioni particolari di cui faccia parte. Tanto più, poi, quando da queste - come nel caso - possa recedere, sottraendosi alla contribuzione, senza perciò subire alcuna conseguenza sfavorevole nel diritto dello Stato. Né va taciuto che l'art. 6 delle regole statutarie (obbligatorie nell'ambito delle Comunità, e in forza dell'art. 8, secondo comma, Cost. efficaci anche nel diritto statuale), approvate nel su citato Congresso del 1968, proprio all'art. 53 della Costituzione fa richiamo nello stabilire che le Giunte delle Comunità, nella determinazione delle aliquote dei contributi in questione (in applicazione degli artt. 24 e 25 del r.d. n. 1731 del 1930), devono attenersi al criterio di progressività.

Dal canto suo, nell'atto d'intervento, l'Avvocatura dello Stato chiede che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o quanto meno infondate, facendo proprie le argomentazioni svolte dalla difesa della Comunità. In aggiunta a tali argomentazioni, tuttavia, nell'escludere che le impugnate disposizioni del r.d. n. 1731 del 1930 violino l'art. 53 Cost., la difesa del Presidente del Consiglio contesta che, riguardo ad esse, possa porsi il problema di disparità di trattamento, sotto il profilo del carico fiscale, prospettato nell'ordinanza di rinvio. E ciò in base alla considerazione che il sindacato di legittimità costituzionale, sulla entità comparativa dell'imposizione in rapporto alla capacità contributiva, dovrebbe esercitarsi con riferimento ad un determinato tributo, e non con riguardo a tributi diversi e comunque eterogenei, come nel caso in questione, che concerne una prestazione speciale, dovuta da persone, che rivestono una determinata qualità, ad enti di carattere religioso, che istituiscono tale contributo in relazione all'espletamento di determinati servizi.

  1. - Fissata, per la discussione della causa, l'udienza del 24 gennaio 1984, sia il Meir che la Comunità israelitica hanno presentato memorie.

La difesa del Meir premette che il r.d. n. 1731 fu emanato in base alla delega legislativa, di cui all'art. 14 della legge 24 giugno 1929, n. 1159, con la quale si conferì al Governo la facoltà di procedere alla revisione della preesistente disciplina dei culti acattolici, e che la normativa con il decreto stesso introdotta fu ispirata, essenzialmente, all'intento di riconoscere, per i culti acattolici dotati di maggior capacità di pressione politica (quello ebraico e quello valdese), posizioni di privilegio analoghe in definitiva a quelle che, con il Concordato appena concluso, erano state riconosciute alla Chiesa cattolica. Passando, poi, a trattare delle questioni relative ai contributi previsti nelle norme impugnate a carico degli appartenenti alle Comunità israelitiche, sottolinea che, in virtù di espresse disposizioni sia della legge del 1930 (artt. 18 e 29) che del regolamento del 1931 (artt. 51 e 78), le delibere degli organi delle Comunità circa i contributi in questione, acquistano efficacia esecutoria nei confronti del soggetto che ne é colpito, attraverso atti della pubblica autorità statale (Ministro dell'interno, prefetto); e che la riscossione dei contributi affidata all'esattore delle imposte dirette, ha luogo "con le forme e i privilegi stabiliti per la riscossione delle tasse comunali". Ciò conferma che, nella specie, ci si trova di fronte ad una vera imposizione tributaria, diretta e personale, inesistente per la generalità dei cittadini, connessa automaticamente ed esclusivamente all'appartenenza alla religione ebraica, e perciò lesiva del principio, proclamato dall'art. 3 della Costituzione, secondo cui tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge senza distinzione di razza o di religione. I contributi colpiscono, infatti, per la sua "appartenenza di diritto alla Comunità", sancita dall'art. 4 del r.d. n. 1731, chiunque, ebreo di nascita, o che comunque (con la circoncisione se maschio o il bagno rituale se femmina) abbia abbracciato la religione giudaica, risieda nel suo territorio. L'unico strumento previsto (art. 5) per sottrarsi a tale posizione di appartenenza, e quindi ai rapporti giuridici connessi, é la dichiarazione di abiura (a cui nessun cittadino può essere costretto), con la perdita di tutti i diritti religiosi.

Anche la violazione dell'art. 53, comma primo, Cost., sarebbe palese, ove si consideri che in base ad esso la imposizione di tributi può essere motivata soltanto dalla necessità - valutata dal legislatore in piena autonomia - di fronteggiare le spese pubbliche, e non per far fronte alle spese di "corpi morali", come le Comunità israelitiche (art. 1 del r.d. n. 1731), "che provvedono al soddisfacimento dei bisogni religiosi degli israeliti".

Del pari evidenti sarebbero le violazioni degli artt. 2 e 18, nonché 23, 24 e 102 Cost.. Tuttavia, oltre a quelle sottoposte alla Corte costituzionale con l'ordinanza di rinvio, secondo la difesa del Meir altre questioni, già da essa sollevate innanzi al pretore, sulla legittimità costituzionale dell'intera normativa del decreto del 1930, in riferimento, oltre che agli artt. 2 e 3, agli artt. 1, 7, 8, 19 e 20 Cost., ma dal pretore - nonostante la stretta connessione di esse, e particolarmente di alcune, con quelle da lui sollevate - non ritenute meritevoli di esame, dovrebbero essere considerate in questa sede.

Invero - si osserva nella memoria - mentre l'art. 1 Cost. stabilisce che la sovranità appartiene al popolo, con il decreto impugnato la sovranità viene invece delegata ad un ordinamento intermedio che, pur legittimo nell'idea della pluralità degli ordinamenti giuridici, può togliere e toglie alcune attribuzioni (rituali, religiose, sepoltura, ecc.) che né altri ordinamenti intermedi né l'ordinamento statale possono assicurare, sia pure per concorso e in via alternativa o sostitutiva.

A sua volta, l'art. 7 Cost., con lo statuire che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, considera la Chiesa un contraente esterno, laddove, nel decreto in questione, le Comunità israelitiche traggono la loro esistenza non dallo Stato italiano come contraente esterno, ma dallo Stato italiano come contenente, e ricavano soltanto alcuni poteri derivati di egemonia su alcuni cittadini. Al tempo stesso, l'aggregazione automatica di questi, in forza della contestata legge, in quanto si presume professino la stessa fede religiosa, é in palese contrasto con il principio dell'art. 19 Cost., secondo il quale tutti hanno diritto di professare la propria fede religiosa, in forma associata, oltre che individuale, ma liberamente. Inoltre il principio, proclamato dall'art. 20 Cost., per cui "il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d'una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative", va inteso anche nel senso che la tutela, che esso prevede, é accordata all'associazione, all'insieme dei credenti considerati "uno per tutti e tutti per uno", e non - come nel caso - all'istituzione (corpo morale) che, per sua definizione, é un soggetto diverso ed autonomo rispetto ai singoli aderenti.

Secondo la difesa del Meir, anche gli artt. 76 e 113 della Costituzione dovrebbero ritenersi violati: il primo, perché in effetti viene rimesso agli organi dell'apparato religioso ebraico, ai vari livelli, di sancire le norme di carattere legislativo per la determinazione dei criteri da seguire nella imposizione dei contributi; il secondo, in quanto, contro le decisioni degli organi delle Comunità, a cui i contribuenti possono far ricorso, l'azione giudiziaria é ammessa nei soli casi di violazione di legge. Ma la questione di fondo, nella problematica giuridica delle Comunità israelitiche, secondo la difesa del Meir, sta nella violazione - che inficia alle radici tutta la legge del 1930 - dell'art. 8 della Costituzione. É la stessa esistenza di un ordinamento giuridico particolare sancito con legge dello Stato per gli appartenenti ad un determinato culto religioso, indipendentemente dagli aspetti particolari che il conflitto con le singole norme della Costituzione può assumere, ad essere contrario alla Costituzione. "Tutte le confessioni religiose" - é sancito infatti nell'art. 8 Cost. - "sono egualmente libere davanti alla legge". E "le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano". Secondo tale norma, perciò, una competenza dello Stato italiano di inserirsi nella regolamentazione degli statuti organizzativi delle confessioni religiose acattoliche non é prevista né consentita. In netto contrasto con tali principi l'ebraismo, per effetto del decreto del 1930, é invece l'unica religione, il cui statuto risulta interamente regolato da una legge dello Stato.

Il fatto che il giudice a quo non abbia motivato i dubbi di costituzionalità da lui espressi anche sul contrasto della normativa impugnata con l'art. 8 Cost., non significa che la materia sia sottratta all'esame della Corte costituzionale. Tutte le norme scrutinate nell'ordinanza di rimessione, infatti, presuppongono la violazione dell'art. 8 Cost., giacché appartengono a un corpo di leggi che, non derivando da autoregolamentazione - come vuole l'art. 8 Cost. - ma essendo regolamentato d'imperio - come l'art. 8 Cost., esclude - deve, nella sua interezza, ritenersi estraneo e contrario alla Costituzione.

Del resto, che si tratti di norme da ritenersi da tempo "superate", sarebbe confermato anche dai dibattiti svoltisi nello stesso Congresso straordinario delle Comunità israelitiche italiane tenutosi a Roma il 29 aprile 1968, da successive deliberazioni (del 1978) e da altre "decisioni separate" (fra cui quella del 22 maggio 1979 della Comunità israelitica di Livorno). Dai riferimenti pubblicati in proposito si desume, infatti, che soltanto la rigorosa opposizione della Comunità di Roma alle prospettate innovazioni ha consentito il persistere della denunciata illegittimità costituzionale. Eliminata la quale, anche il problema della contribuzione da parte degli appartenenti alle Comunità israelitiche potrebbe essere agevolmente risolto sul piano della normativa interna all'associazione, e quindi su base privatistica.

  1. - Per la dichiarazione di inammissibilità, in via principale, o, in subordine, di infondatezza, delle sollevate questioni, insiste invece, nella sua memoria, la difesa della Comunità israelitica.

Innanzi tutto vien ribadita la tesi, già esposta nell'atto di costituzione in giudizio, della irrilevanza delle questioni stesse per il pregiudiziale, e nel procedimento a quo decisivo, difetto di giurisdizione dell'adita autorità giudiziaria ordinaria. Passando all'esame del merito, vengono ricordati, nelle loro principali caratteristiche, i diversi ordinamenti delle Comunità israelitiche dell'Italia pre e postunitaria, e le diverse leggi succedutesi in materia nei vari Stati della penisola prima, e nel Regno d'Italia poi. Si sottolinea come, già nel secolo scorso, le Comunità, mentre in alcune regioni erano organizzate come associazioni volontarie, in gran parte del territorio nazionale erano ritenute corporazioni necessarie, fornite di potere di imposizione sui propri aderenti. Dati questi precedenti, la legislazione del 1930 costituì un notevole sforzo per nazionalizzare il sistema dei rapporti delle Comunità, fra di loro, con gli appartenenti, e con lo Stato. Ciò premesso, la difesa della Comunità ritiene opportuno porsi pregiudizialmente il problema - pur non avendo il pretore sollevato alcuna questione in tal senso - di un possibile contrasto della legge del 1930, nel suo complesso, in quanto contiene lo statuto civile della confessione ebraica, con l'art. 8, secondo comma, della Costituzione, che la formulazione delle norme statutarie rimette invece all'autonomia delle stesse confessioni religiose. In proposito osserva che sarebbe sicuramente in errore chi pensasse che un tale contrasto sussista. L'art. 8, secondo comma, Cost., contiene, infatti, una norma sulle fonti, che ha privato il legislatore statale a partire dal 1 gennaio 1948 (entrata in vigore della Costituzione) della competenza a deliberare unilateralmente gli statuti delle confessioni religiose. Ma detta norma non infirma la validità delle leggi entrate in vigore in precedenza, e fra queste del r.d. n. 1731 del 1930. Assorbente, al riguardo, é, peraltro, la considerazione che tale legge, già "accettata" nel Congresso delle Comunità israelitiche italiane del 1956, é stata recepita dalle Comunità nel Congresso del 1968 (anche se con qualche modifica, che nella presente controversia tuttavia non rileva) come statuto interno.

Riguardo poi alle questioni sollevate con l'ordinanza di rinvio, nella memoria della Comunità si ribadisce anzitutto che l'"appartenenza di diritto alla Comunità" degli ebrei residenti nell'ambito territoriale proprio dell'ente, sancita dall'art. 4 del r.d. n. 1731 del 1930, non é in contrasto con il principio, stabilito dall'art. 3 Cost., della eguaglianza dei cittadini senza distinzione di religione, razza, ecc.. Gli ebrei, infatti, con l'appartenere di diritto alle Comunità in quanto nati da donna ebrea, non soffrono una discriminazione nei confronti degli altri cittadini appartenenti ad altre confessioni religiose. Il riconoscimento civile di tale norma confessionale, effettuato esplicitamente dalla legge, avrebbe luogo anche se la norma statuale non esistesse, in forza delle disposizioni interne che disciplinano la confessione israelitica e che avrebbero effetto civile tutte le volte in cui si trattasse di stabilire, nell'ordinamento statuale, l'appartenenza confessionale di una persona.

Inoltre, l'appartenenza degli ebrei alla Comunità, sancita dall'art. 4 della legge in questione, non é "obbligatoria", perché l'iscritto, a norma del successivo art. 5, può recedere; e non incide, di per sé, su una posizione di carattere religioso, sull'essere, o non, ebreo, bensì sulla possibilità di conseguire i vantaggi che da tale appartenenza derivano: vantaggi di carattere temporale (assistenza, beneficenza, istruzione, ecc.) connessi agli oneri costituiti principalmente dai contributi previsti dalla stessa legge. Recedendo dalla Comunità, l'ebreo perde oneri e vantaggi, ma ciò non esclude che possa essere considerato sempre ebreo. E se é vero, sempre per quanto riguarda il recesso dalla Comunità, che nell'ambito del diritto di libertà religiosa, garantito dall'art. 19 Cost., é protetto anche l'interesse a non essere tenuti a fare alcuna professione di fede, va tenuto presente che la dichiarazione di cui all'art. 5 del decreto, non é una dichiarazione di fede. Né é privo di importanza, comunque, il fatto che tale dichiarazione, come si é osservato in dottrina, non é resa nella sfera propria dell'ordinamento dello Stato, avanti ad una autorità di questo, ma in sede confessionale; sicché, anche quando avesse come contenuto una professione di fede, sia pure in negativo, avrebbe luogo all'interno di un ordinamento diverso da quello statale, e nel quale quindi é ammissibile che gli appartenenti rendano dichiarazioni attinenti alla propria fede religiosa. Mentre va ricordato che anche il nostro ordinamento, se non può pretendere dai singoli dichiarazioni di fede religiosa o simili, può invece prevedere, come prevede, che dichiarazioni riguardanti la propria coscienza religiosa e morale siano rese tutte le volte in cui il dichiarante persegua il fine di essere esonerato dall'adempimento di un dovere, come nei casi delle obiezioni di coscienza al servizio militare e in materia di aborto. Non fondata, perciò, deve ritenersi la tesi che, secondo il nostro ordinamento, sarebbe ammissibile solo un allontanamento tacito dalle Comunità. Senza dire che anche questa materia del recesso, in sede di nuovo statuto o di intesa con lo Stato (come previsto dall'art. 8, secondo e terzo comma, Cost.), potrà essere regolata diversamente.

Nella memoria della Comunità si insiste, inoltre, nell'affermare che l'appartenenza di diritto degli ebrei alla Comunità, sancita dall'art. 4 della legge in questione, non comporta violazione del principio della libertà di associazione proclamato dall'art. 18 Cost.. In proposito sarebbe decisivo il rilievo che le Comunità israelitiche non sono associazioni ma istituzioni, cui si aggiunge quello che la libertà di recesso (dall'art. 5 riconosciuta agli appartenenti alle Comunità), si pone in netta e incompatibile antitesi con l'esistenza di un vincolo di carattere associativo. D'altra parte, il r.d. n. 1731 del 1930 non vieta certo agli ebrei di costituire associazioni confessionali fuori dell'ambito delle Comunità, recedendo o non dalle stesse.

Infine, anche sulle questioni più strettamente attinenti al sistema dei contributi previsto dalle disposizioni impugnate, vengono ulteriormente illustrate, con citazioni della giurisprudenza di questa Corte, le deduzioni già svolte nell'atto di costituzione in giudizio.

  1. - Alla pubblica udienza del 24 gennaio 1984, dopo la relazione del Giudice Antonino De Stefano, l'avv. Dario Di Gravio, per il sig. Meir, ha insistito per la fondatezza, non solo delle questioni sollevate dal giudice a quo, ma, preliminarmente, della questione, dalla stessa difesa riproposta innanzi a questa Corte, della legittimità costituzionale dell'intera normativa dettata dal r.d. n. 1731 del 1930, per contrasto con gli artt. 1, 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione. L'avvocato Massimo Severo Giannini, per la Comunità israelitica di Roma, ha, invece, insistito per la inammissibilità, per difetto di rilevanza, delle sollevate questioni, deducendo che ciò che si chiede all'adito pretore, é oggetto di giudizio di cognizione in tema di status; per cui, anche nella ipotesi che la Corte dichiarasse la illegittimità costituzionale delle denunciate norme, il giudice a quo, in sede di procedimento ex art. 700 c.p.c., non potrebbe soddisfare la richiesta del ricorrente. In subordine, ha chiesto che la Corte dichiari la infondatezza delle questioni sottoposte al suo esame. Infine, l'avvocato dello Stato Carlo Salimei, per il Presidente del Consiglio dei ministri, ha insistito per la inammissibilità, per difetto di rilevanza, o in ogni caso per inadeguata motivazione della stessa, delle sollevate questioni, e in subordine, per la loro infondatezza.

Considerato in diritto

  1. - Il pretore di Roma, con ordinanza emessa il 16 maggio 1979, ha deferito a questa Corte la questione di legittimità costituzionale, nei termini esposti in narrativa, degli artt. 1, 4, 5, 15 lett. c), 24, 25, 26, 27, 28, 29 e 30 del r.d. 30 ottobre 1930, n. 1731, "singolarmente considerati, nonché in rapporto al sistema normativo da essi derivante", per contrasto con gli artt. 3, 2 e 18, 23, 24 e 102, 53 della Costituzione.

Il menzionato decreto detta norme sulle Comunità israelitiche e sulla Unione delle Comunità medesime. L'art. 1 definisce le Comunità israelitiche "corpi morali che provvedono al soddisfacimento dei bisogni religiosi degli israeliti secondo la legge e le tradizioni ebraiche"; in relazione a tale finalità ne specifica, al secondo comma, i compiti. Per l'art. 4 "appartengono di diritto alla Comunità tutti gli israeliti che hanno residenza nel territorio di essa". Il successivo art. 5 dispone che "cessa di far parte della Comunità chi passa ad un'altra religione o dichiara di non voler più essere considerato israelita agli effetti del presente decreto"; colui che cessa di far parte della Comunità perde il diritto di valersi delle istituzioni israelitiche, e in particolare perde il diritto a prestazioni di atti rituali ed alla sepoltura nei cimiteri israelitici. Gli altri articoli denunciati (15, lett. c e da 24 a 30) disciplinano il potere impositivo attribuito alla Comunità, prevedendo la determinazione di un contributo annuo, cui sono tenuti tutti gli appartenenti alla Comunità in ragione del rispettivo reddito complessivo. Il Consiglio della Comunità fissa, anno per anno, l'aliquota del contributo, mentre spettano alla Giunta la valutazione del reddito complessivo di ciascun contribuente, la determinazione del reddito imponibile e del contributo, la formazione della matricola dei contribuenti. Il ruolo dei contribuenti é reso esecutorio dal prefetto; e la riscossione dei contributi fissati nel ruolo ha luogo "con le forme e con i privilegi stabiliti per la riscossione delle tasse comunali". Contro la determinazione dell'imponibile fatta dalla Giunta, il contribuente può presentare ricorso al Consiglio della Comunità, e contro la decisione del Consiglio é ammesso il ricorso ad una commissione arbitrale; avverso la decisione di quest'ultima non é ammesso alcun gravame, salvo il ricorso all'autorità giudiziaria nei soli casi di violazione di legge.

  1. - Tanto la difesa della Comunità israelitica di Roma quanto l'Avvocatura dello Stato hanno eccepito, innanzi a questa Corte, la inammissibilità della sollevata questione, per la sua irrilevanza nel procedimento di provenienza, instaurato con ricorso prodotto ai sensi dell'art. 700 c.p.c.. Si deduce all'uopo che il ricorso verte sulla richiesta di sospensione di un provvedimento (iscrizione del ricorrente nella matricola dei contribuenti della Comunità) di carattere amministrativo, data la riconosciuta natura di enti pubblici delle Comunità israelitiche; poiché tale sospensione non é consentita, per il divieto posto all'autorità giudiziaria ordinaria dall'art. 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, sull'abolizione del contenzioso amministrativo, l'adito pretore avrebbe dovuto senz'altro dichiarare il proprio difetto di giurisdizione, eccepito, del resto, anche nel giudizio a quo dalla resistente Comunità. Si sottolinea, inoltre, che se anche venissero meno, per effetto della pronuncia deferita a questa Corte, le norme di relazione dettate dal r.d. n. 1731 del 1930 per disciplinare il rapporto fra le Comunità e i loro appartenenti, resterebbero pur sempre in vigore le norme di organizzazione, e perciò la qualificazione pubblicistica degli enti suddetti, con il conseguente permanere del difetto di giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria sugli atti da questi compiuti, fra cui, appunto, la formazione del ruolo dei contribuenti.

In proposito, deve considerarsi che il giudice a quo non ha mancato di pronunciarsi sull'eccezione medesima, mossa anche nel procedimento di provenienza, respingendola e affermando la propria giurisdizione. L'ordinanza di rimessione ampiamente motiva sul punto, precisando, nel tracciare l'ambito della controversia, che il ricorrente non contesta la entità del tributo che gli si é imposto di pagare, né la legittimità dell'imposizione, ma deduce la illegittimità del sistema normativo che disciplina le Comunità israelitiche. Sostanzialmente il provvedimento cautelare atipico richiesto é diretto ad escludere l'effetto giuridico dell'automatica appartenenza del cittadino israelita alla Comunità, per cui appare evidente - si afferma - la pregiudizialità e quindi la rilevanza della sollevata questione.

L'eccezione va dunque respinta, non essendo sindacabile, in sede di giudizio incidentale di legittimità costituzionale, la sussistenza dei presupposti attinenti alla giurisdizione del giudice a quo, allorquando su di essi quest'ultimo si sia espressamente pronunciato (cfr. sentenza di questa Corte n. 131 del 1976).

  1. - La difesa del ricorrente Meir ripropone alla Corte la questione di legittimità costituzionale, già inutilmente prospettata al giudice a quo, di tutto il r.d. n. 1731 del 1930, per contrasto con gli artt. 1, 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione. Insiste sopratutto sulla incompatibilità della legge, nella sua globalità, con il comma secondo dell'art. 8 della Costituzione, che riserva all'autonomia delle confessioni religiose diverse dalla cattolica, l'adozione dei propri statuti; lo statuto della confessione ebraica, invece, é interamente dettato dallo Stato con la denunciata legge, ogni norma della quale, perciò, presuppone la violazione dell'invocato parametro costituzionale.

La richiesta della parte non può essere accolta. Secondo quanto affermato da costante giurisprudenza della Corte (da ultimo sentenze n. 122 del 1976 e n. 27 del 1978) il giudizio incidentale di legittimità costituzionale va contenuto nei limiti fissati dall'ordinanza di rimessione, e non può venir esteso ad altre questioni proposte dalle parti.

  1. - La Corte prende quindi in esame la questione di legittimità costituzionale che le é stata deferita dal pretore di Roma, e che si articola in vari profili, come agevolmente si desume dalla motivazione dell'ordinanza di rinvio. Pregiudiziale, peraltro, nell'ordine di trattazione, appare il dubbio che investe il denunciato art. 4 del r.d. n. 1731, a seguito del raffronto che nell'ordinanza viene condotto con gli artt, 2, 3 e 18 della Costituzione. Premesso che la richiesta del ricorrente - come innanzi ricordato - é considerata dal giudice a quo siccome intesa ad ottenere un provvedimento cautelare "diretto ad escludere l'effetto giuridico dell'automatica appartenenza del cittadino israelita alla Comunità", lo stesso giudice rileva che "occorre in primo luogo verificare sul terreno della legittimità costituzionale se l'appartenenza del cittadino ebreo di diritto alla Comunità violi o meno norme e principi della Costituzione"; al qual fine deduce appunto il contrasto del citato art. 4 sia con l'art. 3, che con gli artt. 2 e 18 della Costituzione.
  2. - Nei termini anzidetti la questione é fondata.

Giova ricordare che, anteriormente all'emanazione del r. d. n. 1731 del 1930, la disciplina del culto israelitico in Italia era diversa secondo le diverse regioni, corrispondenti agli ex Stati pre-unitari; e talvolta era diversa anche nell'ambito di una stessa regione. La legge sarda 4 luglio 1857, n. 2325 (c.d. legge Rattazzi), operante in Piemonte ed in Liguria, ed estesa, all'atto della unificazione, all'Emilia ed alle Marche, disciplinava le Università israelitiche come persone giuridiche pubbliche, necessariamente costituite da tutti gl'israeliti domiciliati nella loro circoscrizione, fornite del potere d'imposizione su di essi, e integralmente regolate, nella loro organizzazione e nelle loro funzioni, dal diritto dello Stato, secondo lo schema della legge comunale dell'epoca. Anche in Toscana, nel Veneto, nella provincia di Mantova, nonché nelle province annesse dopo la guerra 1915-18, continuando ad applicarsi ivi le preesistenti disposizioni, le Università israelitiche avevano natura di corporazioni pubbliche necessarie, con il potere d'imporre ai loro membri speciali tributi; ma, a differenza di quelle che formavano oggetto della legge sarda, erano dotate di autonomia organizzativa, in quanto le leggi che le disciplinavano rinviavano ai rispettivi statuti per il regolamento della loro struttura e per l'esercizio delle loro attribuzioni. Infine, in altre località (come, ad esempio, Roma, Napoli e Milano), le organizzazioni israelitiche, operando nell'ambito del diritto comune, erano costituite in associazioni volontarie, dotate o meno di personalità giuridica, che provvedevano alle spese del culto con le volontarie contribuzioni dei loro aderenti. Le varie comunità, obbligatorie e volontarie, tra loro assolutamente autonome e indipendenti, avevano poi dato vita ad un Consorzio volontario, sul piano nazionale, per la difesa e la cura dei comuni interessi.

Con il r.d. n. 1731 del 1930, avente forza di legge in virtù della "facoltà di rivedere le norme legislative esistenti che disciplinano i culti acattolici", conferita al Governo dall'art. 14 della legge 24 giugno 1929, n. 1159, sull'esercizio dei culti ammessi nello Stato, s'intese apprestare un ordinamento uniforme per le Comunità israelitiche di tutta l'Italia, e federarle in una Unione obbligatoria. Nella relazione allo schema del decreto si legge, infatti, che esso "procede alla unificazione della legislazione sulle Università israelitiche, stabilendo per esse un ordinamento ed un sistema uniforme di controllo, ciò che risponde all'indirizzo del moderno diritto pubblico, che vuole sottoposte all'autorità dello Stato, ed opportunamente vigilate, tutte le forme di attività, specie quelle a base collettiva". Si legge, ancora, che "il tipo di ordinamento prescelto si foggia essenzialmente su quello della legge sarda del 1857, che regola le Università israelitiche con criteri di compiutezza, a un dipresso come la legge comunale e provinciale regola i Comuni, non essendosi creduto di adottare il sistema austriaco, vigente nelle nuove province, che, limitandosi alle norme fondamentali, lascia largo campo all'autonomia delle Comunità, cui impone di farsi uno statuto". Si rilevò, allora, in dottrina, che "le Comunità israelitiche non solo appariscono corporazioni di diritto pubblico, in quanto hanno carattere territoriale e sono sottoposte a vigilanza e tutela, ma anche in quanto esercitano poteri d'impero, sono di creazione statale, sono regolate interamente da una legge dello Stato, la quale ha fissato gli scopi, gli organi, la costituzione e l'amministrazione delle Comunità": concretandosi, così, una sorta di "costituzione civile" di una confessione religiosa ad opera del legislatore statale; un "esempio, forse unico nel nostro ordinamento giuridico, di statuto di confessione religiosa formato ed emanato dallo Stato".

  1. - Fondamentale, nella nuova disciplina, ed in perfetta coerenza con lo spirito che tutta la permea, appare il precetto dell'art. 4, che ben può dirsi costituisca un caposaldo della rigida struttura dettata dal legislatore statale per le Comunità israelitiche. In proposito, la già citata relazione afferma che si é riconosciuto alle singole Comunità "carattere di necessarietà, nel senso che di esse devono far parte tutti gli israeliti del luogo". "Il principio accolto" - viene ancora ribadito - "é che non é possibile pretendere, agli effetti civili, di essere israelita, ma di non voler appartenere alla Comunità, rifiutando così il proprio contributo finanziario all'organo riconosciuto, che rappresenta l'interesse superiore della collettività".

Già autorevole dottrina, subito dopo l'emanazione del decreto, non aveva dubbi nell'affermare che "gli ebrei appartengono obbligatoriamente, col fatto stesso di avere la residenza legale nel territorio di una Comunità israelitica, alla Comunità stessa". Di appartenenza "necessaria", "automatica", che consegue "ipso iure" alla qualità di israelita ed alla sua residenza nel territorio della Comunità, parla la successiva dottrina, con una interpretazione della norma che può dirsi pressoché costante, e che s'identifica con quella accolta dal giudice a quo, il quale denuncia l'art. 4 appunto perché statuisce la "coattiva partecipazione" dell'israelita alla Comunità.

Che poi l'"appartenenza di diritto" valga - secondo rilevato in dottrina - a tutelare il "diritto all'appartenenza", e cioé il diritto, non soggetto a valutazioni discrezionali da parte della Comunità, dell'israelita "a partecipare ad un complesso di beni e di servizi espresso dalla Comunità", non comporta certo che siffatta tutela possa venir realizzata unicamente mediante l'appartenenza "coattiva"; e d'altro canto ovviamente non esclude che "il diritto" medesimo venga incondizionatamente riconosciuto, verificandosene i presupposti, a chi abbia manifestato la volontà di esercitarlo.

Il decreto del 1930 non indica chi debba considerarsi "israelita", e quindi destinatario del precetto dell'art. 4. Anche a questo riguardo si ha una interpretazione largamente prevalente, nel senso che il legislatore rinvii, per tale determinazione, alle norme ed alle tradizioni ebraiche, secondo le quali é ebreo chiunque sia nato da madre ebrea, o sia stato accolto nell'ebraismo con i prescritti atti rituali.

  1. - Alla luce di quanto precede, palese é il contrasto della norma in esame con il fondamentale principio sancito dall'art. 3 della Costituzione, che assevera l'eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, "senza distinzione", fra l'altro, "di razza" e "di religione". Nel denunciato art. 4, invece, assumono essenziale rilievo appunto le caratteristiche religiose ed etniche, che confluiscono nella qualificazione di "israelita"; si concreta così una disparità di trattamento tra i cittadini, che tale qualità, d'ordine etnico-religioso, rivestano, e che, a cagione di essa, sono automaticamente ascritti alla Comunità israelitica, divenendo così obbligatoriamente destinatari degli effetti che da tale appartenenza discendono, anche nell'ordinamento statuale, e tutti gli altri cittadini, cui la norma stessa non si applica.

A sostegno dell'infondatezza della questione la difesa della Comunità e l'Avvocatura dello Stato si richiamano alla possibilità di recesso dalla Comunità, prevista dal successivo art. 5 dello stesso decreto. In altri termini, la necessaria, automatica appartenenza non violerebbe il precetto dell'art. 3 della Costituzione, perché sarebbe consentito, a chi lo volesse, di "uscire" dalla Comunità con il passaggio ad altra religione o con la dissociazione. Ma é agevole replicare, in contrario, che la facoltà del "distacco" appare soltanto come un rimedio ex post ad una situazione che nel suo stesso realizzarsi già si pone in insanabile contrasto con il ricordato fondamentale principio dell'art. 3 della Costituzione.

  1. - Violati dal denunciato art. 4 appaiono anche gli altri parametri costituzionali (artt. 2 e 18), indicati dal giudice a quo.

La Corte ha già affermato (sentenza n. 69 del 1962) che il precetto costituzionale contenuto nell'art. 18 deve essere interpretato nel contesto storico che l'ha visto nascere e che porta a considerare, della proclamata libertà di associazione, non soltanto l'aspetto che é stato definito "positivo", ma anche l'altro "negativo", quello che si risolve nella libertà di non associarsi "che deve apparire al Costituente non meno essenziale dell'altra dopo un periodo nel quale la politica legislativa di un regime totalitario aveva mirato a inquadrare i fenomeni associativi nell'ambito di strutture pubblicistiche e sotto il controllo dello Stato". Periodo a cui appunto risale la normativa adesso sottoposta alla pronuncia della Corte. La stessa sentenza prosegue affermando che "la libertà di non associarsi si deve ritenere violata tutte le volte in cui, costringendo gli appartenenti a un gruppo o a una categoria, ad associarsi tra di loro, si violi un diritto o una libertà o un principio costituzionalmente garantito": quale, appunto, nella fattispecie ora in esame, il principio garantito dall'art. 3 della Costituzione.

Non é qui necessario prendere posizione sulla natura "associativa" o "istituzionale" delle Comunità israelitiche, perché la "libertà di adesione", nei suoi aspetti ("positivo" e "negativo") dianzi indicati, va tutelata, come "diritto inviolabile", nei confronti non solo delle associazioni, ma anche di quelle "formazioni sociali", cui fa riferimento l'art. 2 della Costituzione, e tra le quali si possono ritenere comprese anche le confessioni religiose. Libertà di aderire e di non aderire che, per quanto specificamente concerne l'appartenenza alle strutture di una confessione religiosa, negli aspetti che rilevano nell'ordinamento dello Stato, affonda le sue radici in quella "libertà di coscienza, riferita alla professione sia di fede religiosa sia di opinione in materia religiosa" (sentenza n. 117 del 1979), che é garantita dall'art. 19 della Costituzione, e che va annoverata anch'essa tra i "diritti inviolabili dell'uomo" (sentenza n. 14 del 1973).

L'obbligatoria appartenenza alla Comunità di un soggetto, per il solo fatto di essere "israelita" e di risiedere nel "territorio" di pertinenza della Comunità medesima, senza che l'appartenenza sia accompagnata da alcuna manifestazione di volontà in tal senso, viola appunto quella "libertà di adesione", che é tutelata dagli artt. 2 e 18 della Costituzione.

  1. - Conclusivamente, per le su esposte considerazioni, dichiarata la illegittimità costituzionale dell'art. 4 del r.d n. 1731 del 1930, per violazione degli artt. 2, 3 e 18 della Costituzione.

Per effetto della dichiarata illegittimità costituzionale dell'art. 4, rimane assorbita, in punto di rilevanza, la denuncia degli altri articoli del r.d. n. 1731. Il giudice, infatti, venuta meno la norma che dispone l'automatica appartenenza, potrà pronunciarsi sul richiesto provvedimento cautelare, "diretto ad escludere l'effetto giuridico dell'automatica appartenenza del cittadino israelita alla Comunità", senza dover applicare nel giudizio a quo le altre norme, oggetto anch'esse della sollevata questione di legittimità costituziona

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 4 del r.d. 30 ottobre 1930, n. 1731 (Norme sulle Comunità israelitiche e sulla Unione delle Comunità medesime).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 luglio 1984.

 

Antonino DE STEFANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI – Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo MACCARONE - Antonio LAPERGOLA  - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI - Francesco SAJA  - Giovanni CONSO - Ettore GALLO - Aldo CORASANITI

 

Depositata in cancelleria il 30 luglio 1984.