Sentenza n. 30 del 1976
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SENTENZA N. 30

ANNO 1976

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici:

Dott. Luigi OGGIONI, Presidente

Avv. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI

Avv. Leonetto AMADEI

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

Dott. Michele ROSSANO

Prof. Antonino DE STEFANO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 20 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 6 febbraio 1974 dal pretore di Trani nel procedimento civile vertente tra Maralfa Giuseppe e l'Istituto nazionale della previdenza sociale, iscritta al n. 164 del registro ordinanze 1974 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 146 del 5 giugno 1974;

2) ordinanza emessa il 3 aprile 1974 dal pretore di Roma nel procedimento civile vertente tra De Corato Giuseppe e l'Istituto nazionale della previdenza sociale, iscritta al n. 193 del registro ordinanze 1974 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 159 del 19 giugno 1974;

3) ordinanza emessa il 4 marzo 1974 dal giudice del lavoro del tribunale di Bologna nel procedimento civile vertente tra Grenzi Nives e l'Istituto nazionale della previdenza sociale, iscritta al n. 217 del registro ordinanze 1974 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 167 del 26 giugno 1974;

4) ordinanza emessa il 9 aprile 1974 dal giudice del lavoro del tribunale di Cosenza nel procedimento civile vertente tra Gualtieri Raffaele e l'Istituto nazionale della previdenza sociale, iscritta al n. 274 del registro ordinanze 1974 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 231 del 4 settembre 1974.

Visti gli atti di costituzione di De Corato Giuseppe, di Grenzi Nives e dell'INPS;

udito nell'udienza pubblica del 26 novembre 1975 il Giudice relatore Paolo Rossi;

uditi l'avv. Umberto Coronas, per De Corato Giuseppe, l'avv. Giuseppe Fabbrici, per Grenzi Nives, e l'avv. Giovanni Battista Rossi Doria, per l'INPS.

Ritenuto in fatto

1. - Nel corso di un procedimento civile promosso da Maralfa Giuseppe, pensionato dell'INPS che svolge lavoro subordinato retribuito alle dipendenze dello Stato, avverso l'INPS per ottenere il rimborso della ritenuta a suo carico operata in base al parziale divieto di cumulo tra pensione e retribuzione, il pretore di Trani ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale del primo comma dello art. 20 della legge 30 aprile 1969, n. 153, in riferimento al principio costituzionale d'eguaglianza.

Osserva il giudice a quo che il divieto parziale di cumulo tra pensione dell'INPS e altra retribuzione per lavoro subordinato, contrasta con l'art. 3 della Costituzione, atteso che esso non opera nei confronti dei pensionati dello Stato, di quelli di altri enti pubblici, e degli stessi pensionati a carico dei fondi speciali amministrati dall'INPS.

Si é costituito in giudizio l'Istituto nazionale di previdenza sociale, rappresentato e difeso dagli avvocati G. B. Rossi Doria e Giulio Abati, con atto di deduzioni depositato il 24 giugno 1974, chiedendo che venga dichiarata l'infondatezza della questione proposta.

La difesa dell'Istituto osserva che la Corte costituzionale, con sentenza n. 155 del 1969, ha incidentalmente dato atto della ragionevolezza della norma ora impugnata, rilevando che essa "non toglie al pensionato più di quanto gli sarebbe approssimativamente spettato per effetto dei contributi versati". Tale osservazione va considerata nell'ambito delle altre argomentazioni svolte, che hanno posto in luce la legittimità di una riduzione della pensione, senza violazione degli artt. 36 e 38 della Costituzione essendo ridotta l'esigenza previdenziale cui la pensione assolve per colui che continua a lavorare dopo il pensionamento. La Corte inoltre ha riconosciuto la diversa condizione soggettiva ed oggettiva delle varie categorie di pensionati, dando atto che "le discriminazioni lamentate dalle ordinanze sono necessarie per evitare un livellamento generale che sarebbe ingiusto, e sono sorrette da ragionevoli motivi che consentono di far un trattamento differenziato". Il legislatore, pertanto, oltre a stabilire regole adeguatamente diverse nella normativa del 1969, ha successivamente escluso dal divieto di cumulo gli addetti ai servizi domestici in relazione alla loro particolare condizione (artt. 23 quater e quinquies d.l. 30 giugno 1972, n. 267, cvt. in legge 11 agosto 1972, n. 485).

In definitiva, secondo la difesa dell'INPS, la denunciata differenza di trattamento tra le varie categorie di pensionati, é giustificata dall'eccezionalità di una ripresa lavorativa per i dipendenti dello Stato, di altri enti o per i minatori e ferrotramvieri (gestioni speciali INPS), a cagione dell'età di collocamento in pensione o della gravosità delle condizioni di lavoro.

2. - Nel corso di un procedimento promosso da Giuseppe De Corato, pensionato dell'INPS, nominato Consigliere della Corte dei conti, avverso l'INPS per ottenere il rimborso della ritenuta giornaliera di lire 17.445, operata ai sensi dell'art. 20 della legge 30 aprile 1969, n. 153, che stabilisce il divieto parziale di cumulo tra pensioni e stipendi, il pretore di Roma ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale della suddetta norma, per contrasto con gli artt. 3 e 36 della Costituzione.

Osserva il giudice a quo che la violazione del principio d'eguaglianza risulterebbe dalla sperequazione tra le diverse categorie di pensionati - alcune soggette alla norma in questione ed altre no - e poi tra i pensionati che svolgono attività di lavoro subordinato e quelli che esplicano attività professionali, commerciali o di lavoro autonomo, in relazione ai quali non opera il denunciato divieto.

Inoltre la norma denunciata contrasterebbe con gli invocati principi costituzionali nella parte in cui fissa in lire 100.000 il limite massimo della pensione cumulabile con la retribuzione, anche nell'ipotesi in cui tale somma sia inferiore alla rendita risultante dai contributi effettivamente versati.

Si é costituito in giudizio l'INPS, rappresentato e difeso dagli avvocati G. B. Rossi Doria e P. Chiabrera, con atto di deduzioni depositato il 9 luglio 1974, chiedendo dichiararsi l'infondatezza delle questioni sollevate.

La difesa dell'Istituto svolge, a favore della legittimità della norma impugnata, le stesse argomentazioni fatte valere nel procedimento introdotto con ordinanza dal pretore di Trani, aggiungendo che il legislatore ha rispettato il principio della proporzionalità tra anzianità assicurativa contributiva e misura del trattamento pensionistico cumulabile.

Si é costituito in giudizio il De Corato, rappresentato e difeso dal prof. avv. Giuseppe Guarino, con atto depositato il 9 luglio 1974, chiedendo una pronuncia di illegittimità della norma denunciata.

Osserva la difesa del De Corato che il sistema vigente, introducendo il divieto parziale di cumulo in danno di soli pensionati che si dedicano ad attività di lavoro subordinato, senza nulla disporre in ordine a quegli altri pensionati che svolgono attività professionali, commerciali, o godono di altri redditi, contrasterebbe con il principio di eguaglianza e con il sistema delle norme costituzionali di tutela del lavoro.

La norma impugnata, nella parte in cui fissa in lire 100.000 mensili il limite della cumulabilità della pensione con la retribuzione, contrasterebbe inoltre con gli stessi principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 155 del 1969. In tale decisione é stato infatti precisato che "il legislatore non può - senza violare quel principio di proporzionalità che sorregge il sistema pensionistico - non tener conto delle contribuzioni dei prestatori d'opera". Ora la presunzione di ragionevolezza nella fissazione generale del suddetto importo si manifesterebbe errata quando l'ammontare dei contributi versati dia luogo ad una rendita superiore a detto limite, costituendo un intangibile salario differito per effetto di una sorta di risparmio forzoso.

3. - Nel corso di un procedimento promosso da Grenzi Nives contro l'INPS, il giudice del lavoro del tribunale di Bologna ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 20 della legge 30 aprile 1969, n. 153, per contrasto con gli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione.

Osserva il giudice a quo che la norma impugnata viola il principio di eguaglianza per la disparità di trattamento posta in essere tra le varie categorie di pensionati, mentre conservando almeno in parte, il divieto di cumulo, contrasterebbe con gli artt. 36 e 38 della Costituzione.

Si é costituita in giudizio l'avv. Grenzi Nives, rappresentata e difesa dall'avv. Franco Mariani, con atto di deduzioni depositato il 15 luglio 1974, chiedendo dichiararsi l'illegittimità della norma denunciata.

La difesa della parte privata, premesse alcune indicazioni sull'evoluzione legislativa del cumulo tra pensione e stipendio, osserva che la disposizione impugnata contrasta con i principi costituzionali perché il divieto di cumulo é illegittimo in sé e per sé, e non per la misura in cui opera. Ciò risulterebbe dalla disparità di trattamento tra le varie categorie di pensionati, dal fatto che il divieto colpisce solo i pensionati che prestino attività lavorativa subordinata, e dal rilievo che il legislatore del 1969 mantenne, sia pure in parte, il divieto di cumulo per mere considerazioni finanziarie, ignorando che la pensione di vecchiaia, raggiunto il limite di età, costituisce un diritto soggettivo perfetto.

4. - Nel corso di un procedimento promosso da Gualtieri Raffaele, pensionato e dipendente dell'INPS, avverso lo stesso INPS, il giudice del lavoro presso il tribunale di Cosenza ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 20 della legge 30 aprile 1969, n. 153, nella parte in cui dispone che non sono cumulabili con la retribuzione, nella misura del 50 per cento del loro importo, le quote eccedenti il trattamento minimo delle pensioni di vecchiaia, per violazione degli artt. 3, 4, 35, 36 e 38 della Costituzione.

Osserva il giudice a quo che la norma impugnata creerebbe un trattamento differenziato tra varie categorie di pensionati, porrebbe un'alternativa tra diritto al lavoro e diritto alla pensione già maturato ed acquisito, diminuendo anche la retribuzione per ragioni del tutto estranee alla quantità e qualità del lavoro prestato. Il divieto di cumulo inoltre, anche se parziale, impedirebbe al pensionato di godere di quella parte del trattamento pensionistico che é diretto frutto di contributi versati da lui o dal suo datore di lavoro, e che costituirebbe, in definitiva, una retribuzione differita; contrasterebbe anche con il riconoscimento del diritto al lavoro e la tutela di esso in tutte le sue forme (artt. 4 e 35 Cost.).

Si é costituito in giudizio l'INPS, rappresentato e difeso dagli avvocati G. B. Rossi Doria e P. Chiabrera, con atto depositato il 23 settembre 1974, chiedendo dichiararsi l'infondatezza della questione prospettata.

Osserva la difesa dell'Istituto che poiché le prestazioni previdenziali sono concesse per sopperire a particolari stati di bisogno, la retribuzione conseguita in costanza di lavoro viene a limitare l'esigenza previdenziale consentendo una riduzione del trattamento pensionistico o una particolare disciplina differenziata in relazione a situazioni degne di speciale considerazione (sentenze della Corte n. 105 del 1963 e n. 155 del 1969). La tutela apprestata dall'art. 38 della Costituzione non potrebbe essere invocata nel caso di specie, trattandosi di un impiegato che ha diritto a rimanere in servizio effettivo fino al compimento del 65 anno di età, per conseguire il massimo della pensione, anche se già é titolare di una pensione di vecchiaia in base alla legislazione vigente.

Né si avrebbe la denunciata violazione degli artt. 4 e 35 della Costituzione, atteso che la stessa Corte costituzionale, nella citata sentenza del 1969, ha escluso che possa "costituire ostacolo effettivo all'attività (di lavoro) la circostanza che il pensionato non possa godere per intero di due diversi trattamenti, quello di lavoro e quello pensionistico".

Infine il sistema impugnato avrebbe rispettato quel criterio di proporzionalità tra la contribuzione e la misura del trattamento pensionistico, la cui inosservanza avrebbe determinato l'illegittimità della norma impugnata.

In una successiva memoria la difesa di Nives Grenzi ha illustrato ulteriormente la propria tesi, richiamandosi anche a precedenti decisioni di questa Corte (sentenze nn. 65 e 112 del 1963, 34 del 1960).

Alla pubblica udienza le parti hanno insistito nelle rispettive conclusioni.

Considerato in diritto

1. - Attesa l'identità di talune questioni prospettate e l'analogia di altre, i relativi giudizi possono essere riuniti e definiti con unica sentenza.

2. - La Corte costituzionale deve decidere se l'art. 20 della legge 30 aprile 1969, n. 153 - nella parte in cui vieta il cumulo con la retribuzione da lavoro subordinato delle quote di pensione di vecchiaia eccedenti il trattamento minimo, nella misura del 50 per cento del loro ammontare e con il massimale di lire 100.000 mensili - contrasti o meno con gli artt. 3, 4, 35, 36 e 38 della Costituzione per i dubbi: a) che la retribuzione sia diminuita per ragioni estranee alla quantità e qualità del lavoro prestato (art. 36 Cost.); b) che sia posta un'alternativa tra diritto alla pensione e diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.); c) che si verifichi un'illegittima disparità di trattamento nei confronti dei pensionati esclusi dal divieto di cumulo (già dipendenti dello Stato, di Enti pubblici, ed altri a carico delle gestioni speciali dell'INPS o, comunque, esplicanti attività professionali o commerciali); d) che sia impedito il pieno godimento del diritto alla prestazione di adeguati mezzi di vita in caso di vecchiaia (art. 38 Cost.); e) che sia sacrificato un diritto intangibile del lavoratore, nell'ipotesi in cui l'importo di centomila lire mensili sia inferiore alla rendita risultante dai contributi effettivamente versati (artt. 3 e 36 Cost.).

3. - Le questioni non sono fondate.

Va innanzitutto rilevato che la retribuzione non subisce, in realtà, alcuna riduzione per effetto dell'impugnato parziale divieto di cumulo. Questo colpisce oggettivamente la pensione, determinando una riduzione, anche se il legislatore, a fini di semplificazione contabile, ha creato un meccanismo per effetto del quale la pensione viene corrisposta per intero mentre la retribuzione viene decurtata di una trattenuta corrispondente alla quota di pensione non cumulabile. Il datore di lavoro restituisce all'INPS la trattenuta operata, e l'Istituto viene così compensato di quanto avrebbe diritto a ritenere sulla pensione. Il sistema vigente, adottato allo scopo di evitare riliquidazione delle pensioni e continui conteggi, realizzando economia di lavoro e risparmio di tempo, risponde, sotto il profilo contabile, anche all'interesse del pensionato, che altrimenti dovrebbe sopportare la sospensione della pensione ad ogni cambiamento della posizione assicurativa.

Non sussiste pertanto la denunciata diminuzione della retribuzione per ragioni estranee alla quantità e qualità del lavoro prestato (art. 36 Cost.).

4. - Né risultano violati gli artt. 4 e 35 della Costituzione. Come questa Corte ha già osservato, il riconoscimento del diritto al lavoro e la tutela del lavoro non sono lesi dal divieto di cumulo, non potendo costituire ostacolo effettivo all'attività lavorativa la circostanza che il pensionato di vecchiaia non goda per intero di due diversi trattamenti, quello di lavoro e quello pensionistico (sentenza n. 155 del 1969).

5. - Per quanto attiene alla prospettata violazione del principio d'eguaglianza, va rilevato che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte esso é invocabile soltanto sul presupposto di situazioni tra loro omogenee, che altrimenti la diversità di disciplina non lede l'art. 3 della Costituzione.

In applicazione di tale orientamento, la Corte costituzionale ha già precisato, con la sentenza n. 155 del 1969, in riferimento alle stesse ipotesi oggi nuovamente denunciate, che le differenti condizioni soggettive ed oggettive degli iscritti all'assicurazione generale contro la vecchiaia rispetto a quelle proprie dei pensionati dello Stato, degli altri enti pubblici e degli stessi lavoratori soggetti alle gestioni speciali dell'INPS, escludono la violazione del principio d'eguaglianza. Vengono in rilievo, tra l'altro, il diverso regime di formazione della pensione, la differente età di pensionamento, la possibilità, soltanto per taluni, della riliquidazione della pensione per effetto dell'ulteriore opera prestata. Né é comparabile con le situazioni considerate quella del pensionato che cumula con la pensione altri redditi personali, di varia natura, mancando in radice il termine di raffronto che potrebbe consentirne una valutazione complessiva in relazione all'invocato art. 3 della Costituzione.

6. - Neppure é violato il diritto alla prestazione di adeguati mezzi di vita in caso di vecchiaia per effetto del denunciato divieto di cumulo. É stato osservato da questa Corte, nella citata sentenza del 1969, che la pensione assolve ad una funzione previdenziale, inserendosi nel sistema di sicurezza sociale delineato dall'art. 38 della Costituzione. Essa sopperisce al rischio del lavoratore di perdere o di diminuire il proprio guadagno, mancando dei mezzi di sussistenza, quando, con il venir meno delle forze per vecchiaia, non é più in grado di lavorare.

Se il pensionato, dimostrando di possedere ancora sufficienti energie, continua a lavorare, pone in essere una condotta che, da un lato, può avere rilievo ai fini di una riliqudazione della pensione, dall'altro consente al legislatore di tener conto del conseguente guadagno e della diminuzione del suo stato di bisogno.

Non contrasta quindi con l'art. 38 Cost. la riduzione del trattamento pensionistico a carico di chi, continuando a lavorare, percepisce anche una retribuzione.

7. - Non sussiste infine la violazione degli artt. 3 e 36 della Costituzione, prospettabile nei confronti dei titolari delle pensioni più elevate per il dubbio che l'importo di lire centomila mensili, loro assicurato, sia inferiore alla rendita del capitale accantonato mediante il versamento dei contributi.

Occorre in primo luogo considerare che con la riforma del sistema pensionistico la pensione di vecchiaia ha perso l'originario carattere di prestazione correlata inscindibilmente all'ammontare dei contributi versati; che il diritto a pensione matura, a volte, in relazione a contributi soltanto giuridicamente accreditati e non effettivamente accantonati; che la pensione si inserisce in un sistema di solidarietà sociale, con concorso finanziario dello Stato, nel cui ambito i contributi servono per il conseguimento di finalità che trascendono gli interessi dei singoli. Ciò risulta evidente quando si consideri il sistema di liquidazione delle pensioni retributive, che prescinde dall'ammontare delle contribuzioni accreditate sul conto individuale e consente l'attribuzione di pensioni molto più elevate, ragguagliandole al trattamento economico goduto dal lavoratore nel periodo in cui ha percepito le maggiori retribuzioni.

Gli aspetti pubblicistici della disciplina pensionistica non vengono meno neppure nella determinazione della pensione contributiva, per la presenza di quote fisse aggiuntive e di coefficienti di rivalutazione non rispondenti ai criteri che informano il calcolo delle rendite da assicurazioni private (si raffrontino ad esempio i metodi per la determinazione della pensione nell'assicurazione obbligatoria ed in quella facoltativa, entrambe gestite dall'INPS.

Risulta quindi infondata la premessa, supposta nelle ordinanze di remissione, secondo cui sarebbe concretamente ravvisabile e quantificabile nella pensione di vecchiaia liquidata al singolo pensionato, la parte esattamente corrispondente alla effettiva rendita dei contributi accantonati.

Nella citata sentenza n. 155 del 1969 la Corte costituzionale ha affermato la ragionevolezza della norma oggi impugnata, che tiene conto dei contributi versati, valutando positivamente la reintroduzione di un divieto soltanto parziale di cumulo. In tal modo la Corte ha constatato la proporzionalità e ragionevolezza del sistema pensionistico realizzato dalla legge n. 153 del 1969, senza ancorarne la legittimità al rispetto di rapporti intangibili tra pensione e contribuzione, per ciascuno dei pensionati che ha continuato a lavorare.

Né esplicano particolare rilievo, ai fini in esame, le decisioni di questa Corte citate dalla difesa della Grenzi, perché il riconoscimento della pensione come oggetto di un diritto soggettivo dell'interessato, tratto da una specifica configurazione legislativa, valse solo a dimostrare che le norme delegate non avrebbero potuto estendere il divieto di cumulo ad ipotesi non previste dal legislatore delegato, pena l'illegittimità costituzionale delle stesse per eccesso di delega (sentenze nn. 65 e 112 del 1963, 34 del 1960).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 20 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 4, 35, 36 e 38 della Costituzione, con le ordinanze in epigrafe indicate.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 febbraio 1976.

Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI - Leonetto AMADEI - Giulio GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO.

Arduino SALUSTRI - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 19 febbraio 1976.