Sentenza n. 155 del 1969
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SENTENZA N. 155

ANNO 1969

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERA

Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 5 della legge 18 marzo 1968, n. 238, e degli artt. 20, 21 e 23 del D.P.R. 27 aprile 1968, n. 488, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanze emesse il 2 agosto 1968 dal pretore di Venezia nei procedimenti civili vertenti rispettivamente tra Fornezza Giuseppe e la Procuratoria di San Marco di Venezia e tra Vitturi Bruno e il Banco San Marco di Venezia, iscritte ai nn. 203 e 204 del Registro ordinanze 1968 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 261 del 12 ottobre 1968;

2) ordinanza emessa il 13 luglio 1968 dal pretore di Firenze nei procedimenti civili riuniti vertenti tra Casini Giorgio ed altri e la società per azioni Officine Galileo di Firenze, iscritta al n. 206 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 261 del 12 ottobre 1968;

3) ordinanza emessa il 28 agosto 1968 dal pretore di Cagliari nel procedimento civile vertente tra Urru Luigi e la ditta Supertravet, iscritta al n. 226 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 275 del 26 ottobre 1968;

4) ordinanza emessa il 25 novembre 1968 dal pretore di Firenze nei procedimento civile vertente tra Alderighi Fosco e la società Manetti e Roberts' iscritta al n. 263 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25 del 29 gennaio 1969;

5) ordinanza emessa il 9 novembre 1968 dal pretore di Roma nel procedimento civile vertente tra Chiantoni Renato, la società Stanley Kramer Productions e l'E.N.P.A.L.S., iscritta al n. 47 del Registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 78 del 26 marzo 1969;

6) ordinanze emesse il 15 marzo 1969 dal pretore di Riva del Garda e il 18 marzo 1969 dal tribunale di Reggio Emilia nei procedimenti civili vertenti rispettivamente tra Leonardi Ernesto e la ditta Fornaci Carloni e tra Iarabitza Guido Angelo e l'Istituto nazionale della previdenza sociale, iscritte ai nn. 172 e 189 del Registro ordinanze 1969 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 145 dell'11 giugno 1969;

7) ordinanza emessa il 10 marzo 1969 dal pretore di Roma nel procedimento civile vertente tra Pettiti Carlo e l'Automobile Club di Roma, iscritta al n. 192 del Registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 152 del 18 giugno 1969.

Visti gli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e di costituzione dell'Istituto nazionale della previdenza sociale e di Fomezza Giuseppe, Vitturi Bruno, Casini Giorgio ed altri, Urru Luigi, Alderighi Fosco, Chiantoni Renato e Iarabitza Guido Angelo;

udito nell'udienza pubblica del 15 ottobre 1969 il Giudice relatore Giuseppe Verni;

uditi gli avvocati Giovanni Dalla Santa, Benedetto Bussi, Camillo Andreoni, Leopoldo Piccardi, Paolo Barile e Franco Agostini, per le parti private, l'avv. Giorgio Cannella, per l'I.N.P.S., e il sostituto avvocato generale dello Stato Michele Savarese, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

In esecuzione della delega conferita al Governo dall'art. 5 della legge 18 marzo 1968, n. 238, ed avente per oggetto la emanazione di norme intese a stabilire che, con decorrenza dal 1 maggio 1968, le pensioni di vecchiaia, di anzianità e di invalidità, non sono cumulabili, totalmente o parzialmente, a seconda dei casi, con la retribuzione, eccezion fatta per i lavoratori addetti a lavori agricoli subordinati, il D.P.R. 27 aprile 1968, n. 488, sancisce, all'art. 20, tale divieto di cumulo e prescrive, all'art. 21, che il datore di lavoro ha l'obbligo di detrarre dalla retribuzione, al netto delle integrazioni per carichi di famiglia, una somma pari all'importo della pensione o della quota di essa non dovuta a sensi dell'art. 20, e di versarla all'Istituto nazionale della previdenza sociale.

Attenendosi a tali norme la società per azioni Officine Galileo, nel corrispondere la retribuzione mensile ai propri dipendenti Casini Giorgio, Cecconi Giuseppe, ed altri, i quali sono beneficiari - a sensi dell'art. 13 della legge 21 luglio 1965, n. 903 - di una pensione di anzianità, detrasse l'importo della pensione stessa, al netto delle maggiorazioni per carichi di famiglia, e lo versò all'Istituto nazionale per la previdenza sociale. Ma, con separati atti di citazione, i suindicati impiegati hanno citato le Officine Galileo davanti al pretore di Firenze ed hanno eccepito l'illegittimità costituzionale degli articoli della legge e del decreto presidenziale sopraindicati in riferimento agli artt. 3, 4, 35, 36 e 38 della Costituzione.

Il pretore, con ordinanza del 13 luglio 1968, ha ritenuto la questione non manifestamente infondata e ha rimesso gli atti a questa Corte. La stessa questione é stata sollevata con ordinanze 25 novembre 1968 del pretore di Firenze; 9 novembre 1968 e 10 marzo 1969 dal pretore di Roma; 2 agosto 1968 del pretore di Venezia; 15 marzo 1969 del pretore di Riva del Garda; 28 agosto 1968 del pretore di Cagliari; e 18 marzo 1969 del tribunale di Reggio Emilia.

Secondo le ordinanze di rimessione le norme impugnate sarebbero in contrasto col principio di uguaglianza sancito dall'art. 3, primo comma, della Costituzione, perché, nell'ambito della stessa categoria di pensionati dell'I.N.P.S., stabiliscono una discriminazione fra pensionati che non lavorano, ai quali viene corrisposta l'intera pensione, e pensionati che continuano a lavorare, ai quali viene operata una detrazione. La circostanza di continuare a lavorare dopo conseguito il diritto alla pensione non sarebbe di per sé sola idonea a giustificare tale discriminazione; la quale si risolverebbe in un trattamento più favorevole per coloro che, non volendo più lavorare, percepiscono l'intera pensione; e la stessa circostanza sarebbe un fatto del tutto estraneo al meccanismo previdenziale, posto che l'incremento del reddito del pensionato che lavora ha la sua causa in un rapporto di lavoro, che nulla ha a che vedere con il diritto alla pensione già maturata. Il trattamento sarebbe ingiustamente differenziato anche rispetto a quei pensionati della stessa previdenza sociale che si dedicano a lavori agricoli alle dipendenze di altri, rispetto ai titolari di pensione a carico di enti pubblici diversi dalla previdenza sociale, e rispetto agli impiegati dello Stato per i quali tutti non sussiste alcun divieto di cumulo fra pensione e retribuzione.

Le norme impugnate violerebbero, altresì, l'art. 36 della Costituzione, in quanto impongono una diminuzione (o addirittura una perdita) della retribuzione per ragioni del tutto estranee alla quantità e qualità del lavoro prestato; ed in quanto quel che il lavoratore ottiene sotto forma di rateo di pensione concreta un pagamento di retribuzione effettuato da persona diversa del datore di lavoro, con vincoli di ordine tecnico, quale il pagamento bimestrale, non consentiti per la retribuzione. Poiché, anche secondo la giurisprudenza di questa Corte, la pensione altro non é che una retribuzione differita, appare illegittima la disciplina in base alla quale il pensionato é privato della pensione già maturata ed acquisita, sol perché continua a lavorare, e cioè perché esercita un diritto ed adempie un dovere, previsti dalla Costituzione.

Per ultimo, sempre secondo le ordinanze di rimessione, imponendo al lavoratore di rinunziare ad una parte della pensione, od anche ponendogli l'alternativa fra il diritto al lavoro ed il diritto ad una parte di pensione, le norme impugnate verrebbero a violare gli artt. 4, 35, primo comma, e 38 della Costituzione, i quali sanciscono il diritto al lavoro, la tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni ed il diritto dei lavoratori a che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di malattia, di invalidità e vecchiaia.

Le ordinanze sono state regolarmente notificate, comunicate e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

Nel giudizio innanzi questa Corte si sono costituiti l'istituto nazionale per la previdenza sociale, ed i signori Fornezza Giuseppe, Vitturi Bruno, Urru Luigi, Iarabitza Guido Angelo, Giorgio Casini, Renato Melani, Raffaello Montanarini, Giuseppe Cecconi, Fosco Alderighi, Renato Chiantoni. É intervenuto anche il Presidente del Consiglio dei Ministri rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato.

La difesa dell'I.N.P.S. osserva che il principio di uguaglianza non é violato dalle norme impugnate, dal momento che sussistono motivi attendibili per distinguere situazioni che, pur partendo da uguali presupposti, vengono poi ad assumere note distintive per particolari atteggiamenti soggettivi ed oggettivi. Il pensionato che lavora si distingue da quello che non esercita attività lavorativa, per la oggettiva diversità di settori economico sociali e di lavoro, che sono stati presi in considerazione dal legislatore. L'art. 4 della Costituzione, poi, consacra il principio di libertà della attività lavorativa, ma questa libertà trova contemperamenti al contatto di sfere concorrenti che siano ugualmente meritevoli di protezione costituzionale. Ed anche il principio della tutela del diritto al lavoro é soggetto a limiti imposti dal perseguimento di fini sociali, che il legislatore può, di volta in volta, valutare e considerare preminenti sugli interessi individuali.

Osserva, poi, che l'art. 35 della Costituzione ha soltanto una funzione introduttiva alle successive disposizioni del titolo terzo, e non vuole determinare i modi e le forme della tutela del lavoro, ma solo enunciare il criterio ispiratore comune alle disposizioni successive. E, per quanto riguarda l'art. 36, la detrazione dalla retribuzione della quota di pensione non dovuta é un mezzo di recupero della pensione e non una sostanziale riduzione della retribuzione.

Anche l'Avvocatura generale dello Stato ritiene infondata la questione proposta, ed osserva - fra l'altro - che la legge n. 238 del 1968 ed il D.P.R. n. 488 del 1968 hanno migliorato il sistema pensionistico, aumentando le pensioni di un importo medio del 10 per cento ed assicurando una elevata pensione di vecchiaia. Per il finanziamento delle notevoli nuove spese, si é fatto ricorso anche alle possibili economie realizzabili all'interno del sistema, e cioè alla abolizione della pensione di anzianità ed al divieto di cumulo fra trattamento di attività lavorativa e trattamento di quiescenza. Le norme impugnate, quindi, si sono rese necessarie per l'osservanza del disposto dell'art. 81 della Costituzione.

Sono state presentate memorie dall'Avvocatura generale dello Stato, dall'Istituto nazionale della previdenza sociale, e dai difensori di Guido Angelo Iarabitza, e di Fomezza Giuseppe, Vitturi Bruno, e Urru Luigi.

Poiché nel frattempo é intervenuta la nuova legge 30 aprile 1969, n. 153, la quale ha modificato in senso più favorevole al lavoratore le norme impugnate ed ha disciplinato diversamente il divieto di cumulo delle pensioni con la retribuzione, pur mantenendolo fermo, la difesa dello Iarabitza e l'Avvocato generale dello Stato hanno fatto presente che la questione di legittimita costituzionale sollevata dalle ordinanze in esame non ha perduto di rilevanza, dato che le nuove norme lasciano sotto l'impero della precedente disciplina tutto il periodo 1 maggio 1968-1 maggio 1969.

 

Considerato in diritto

 

1. - Le nove ordinanze di rimessione riguardano la stessa questione di legittimità costituzionale, e pertanto i relativi procedimenti vanno riuniti e definiti con unica sentenza.

2. - Viene denunziata l'illegittimità dell'art. 5 della legge 18 marzo 1968, n. 238, che conferisce al Governo la delega ad emanare norme intese a stabilire che - con decorrenza dal l maggio 1968 - le pensioni dell'I.N.P.S. di vecchiaia, di anzianità e di invalidità non sono cumulabili, totalmente o parzialmente, con la retribuzione percepita dai pensionati che continuano a lavorare; e vengono denunziati gli artt. 20, 2l e 23 della legge delegata (D.P.R. 27 aprile 1968, n. 488) che, fra l'altro, prescrivono che il datore di lavoro ha l'obbligo di detrarre dalla retribuzione una somma pari all'importo della pensione (o della quota di essa) non dovuta e di versarla all'Istituto nazionale della previdenza sociale. Secondo le ordinanze, il divieto di cumulo della pensione con la retribuzione non soltanto crea un trattamento differenziato rispetto ad altre categorie, ma pone altresì una alternativa fra diritto al lavoro e diritto alla pensione già maturato ed acquisito, mentre la particolare disciplina si traduce in una diminuzione della retribuzione per ragioni del tutto estranee alla quantità e qualità del lavoro prestato. Dal che deriverebbe la violazione degli artt. 3, 4, 35, 36 e 38 della Costituzione.

Le norme impugnate sono state modificate dalla legge 30 aprile 1969, n. 153, in senso più favorevole ai pensionati, ma la questione continua ad avere rilevanza per il periodo 1 maggio 1968-1 maggio 1969, in quanto da quest'ultima data trova applicazione la nuova legge.

3. - Va precisato, preliminarmente, che la retribuzione non subisce di fatto alcuna riduzione per effetto del divieto di cumulo. Se é pur esatto che il datore di lavoro opera una trattenuta sul salario, il relativo importo viene indirettamente restituito al lavoratore giacché la pensione, invece di essere ridotta, é corrisposta per intero. Il legislatore ha fatto ricorso al sistema del pagamento integrale della pensione con rimborso all'I.N.P.S. della quota non dovuta, allo scopo di evitare riliquidazioni e continui conteggi, realizzando in tal modo economia di lavoro, risparmio di tempo ed innegabile vantaggio per il pensionato che, in caso diverso, si vedrebbe sospendere per lungo tempo il pagamento della pensione ad ogni cambiamento della posizione lavorativa. E, se ha fatto obbligo al datore di lavoro (piuttosto che allo stesso pensionato) di effettuare il rimborso all'I.N.P.S., il legislatore si é avvalso dei suoi poteri discrezionali scegliendo il mezzo ritenuto migliore e più sicuro. Non hanno fondamento le critiche mosse a siffatta disciplina: il pensionato otterrebbe per via della pensione quanto gli verrebbe detratto dalla retribuzione; il pagamento effettuato con la pensione si ricollegherebbe a ragioni creditizie che nulla hanno a che vedere col compenso dovuto per la prestazione della attività lavorativa; il pagamento viene effettuato, in parte bimestralmente, da persona diversa dal datore di lavoro, ecc. Esse non tengono conto che, in materia di cumulo, la pensione e la retribuzione hanno zone di interferenza che occorre disciplinare, e non danno il debito peso alle necessità derivanti dalla difficoltà di regolare uniformemente un grande numero di casi di singoli lavoratori con posizioni assicurative svariatissime. Comunque, non si può affermare che detta disciplina sia violatrice dei principi costituzionali invocati.

Le norme impugnate attengono soltanto al trattamento previdenziale; ed é sulla pensione che si opera la riduzione.

4. - In merito a tale riduzione, va osservato che - quale che sia la natura giuridica della pensione - é certo che essa assolve ad una funzione previdenziale. Il suo scopo é quello di sopperire al rischio del lavoratore di perdere o diminuire il proprio guadagno e di mancare dei mezzi di sussistenza, quando, col venire meno delle forze per invalidità o vecchiaia, non é più in grado di lavorare. Assicurando al lavoratore una entrata periodica atta a fronteggiare i bisogni di vita nel periodo successivo alla cessazione del lavoro, la pensione deve per sua natura collegarsi nel quantum alla particolare situazione personale e familiare degli aventi diritto. Diventa definitiva soltanto dopo la cessazione completa del lavoro, ma, se maturata ed acquisita anteriormente a tale momento, può essere riliquidata ed aumentata per effetto delle ulteriori contribuzioni conseguenti alla successiva opera prestata. Nel tempo stesso, il legislatore tiene conto del guadagno derivante dalla ulteriore attività lavorativa e della variazione in meglio dello stato di bisogno per le esigenze di vita del pensionato, ed opera perciò una riduzione. Per tali motivi non contrasta con l'art. 36 né con l'art. 38 della Costituzione il fatto che il trattamento pensionistico venga ridotto perché con esso concorre il godimento di un trattamento per attività lavorativa, che viene a ridurre l'esigenza previdenziale in funzione della quale fu predisposta la provvidenza pensionistica (v. sentenza di questa Corte n. 105 del 1963).

5. - Affermata tuttavia la legittimità del divieto di cumulo fra pensione e retribuzione, la Corte ritiene che il precetto dell'art. 36, che assicura al lavoratore una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, e quello dell'art. 38 della Costituzione relativo ai mezzi adeguati alle esigenze di vita del pensionato sono violati dalle norme impugnate nella parte in cui esse dispongono che non sono cumulabili totalmente o parzialmente con la retribuzione le pensioni di vecchiaia. La Corte ritiene di potere sindacare il modo di esercizio della discrezionalità legislativa per quel che riguarda la congruità della riduzione della pensione rispetto agli elementi essenziali del rapporto sociale creato dagli artt. 36 e 38 della Costituzione, in quanto il riferimento dell'art. 36 alla proporzione della retribuzione dovuta al prestatore d'opera costituisce, sotto un particolare aspetto, sviluppo del principio generale di uguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione. Orbene, non sembra razionale che al pensionato venga tolta una parte di quello che gli sarebbe spettato in base ai contributi versati, i quali, se accantonati nel corso degli anni, avrebbero raggiunto somme notevoli.

Per quanto, in un sistema mutualistico e di solidarietà sociale quale é quello dell'I.N.P.S., i contributi del lavoratore servano per il conseguimento di finalità che trascendono gli interessi dei singoli ed abbiano carattere generale, pur tuttavia é innegabile che essi danno vita ad un diritto del prestatore d'opera a conseguire le prestazioni previdenziali: il che vuol significare che il legislatore non può - senza violare quel principio di proporzionalità che sorregge il sistema pensionistico - non tener conto delle contribuzioni dei prestatori d'opera. Lo stesso legislatore ha riesaminato questo problema del cumulo per dargli una soluzione più equa, e, con la legge 30 aprile 1969, n. 153, ha disposto che, a decorrere dal 1 maggio 1969, non sono cumulabili, con la retribuzione, nella misura del 50 per cento del loro importo, le quote eccedenti il trattamento minimo delle pensioni di invalidità e vecchiaia. Or, mentre é evidente la ragionevolezza della nuova norma, la quale non toglie al pensionato più di quello che gli sarebbe approssimativamente spettato per effetto dei contributi versati, lo stesso non può dirsi per le norme impugnate, le quali pertanto vanno dichiarate illegittime.

Per quanto riguarda invece le pensioni di invalidità e di anzianità, la questione non é fondata. Poiché secondo la legge del 1968 le pensioni di invalidità sono ridotte di una quota pari ad un terzo del loro ammontare, non si riscontra la lamentata sperequazione rispetto ai contributi versati.

Le particolari caratteristiche, poi, della pensione di anzianità consentono il divieto totale del cumulo con la retribuzione. Tale pensione infatti viene liquidata dopo 35 anni di contribuzione, indipendentemente dal raggiungimento della età pensionabile, dal che deriva una sensibile riduzione dei limiti di età. É pertanto un beneficio concesso al lavoratore, e, come tale, pub essere limitato al solo caso di cessazione effettiva del lavoro.

6. - A In riferimento al solo art. 3 della Costituzione, la questione non é fondata. Le differenti condizioni soggettive ed oggettive dei soggetti all'assicurazione generale obbligatoria contro la invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, nonché le differenze notevolissime delle posizioni assicurative delle varie categorie non consentono una uniforme disciplina, che non distingua fra situazione e situazione e tratti tutti alla stessa stregua. Le discriminazioni lamentate dalle ordinanze sono necessarie per evitare un livellamento generale che riuscirebbe ingiusto, e sono sorrette da ragionevoli motivi, che consentono di far un trattamento differenziato.

In particolare va osservato che fra il pensionato che lavora avendo ancora forza e capacità sufficienti ed il pensionato che non può più esplicare attività lavorativa sussiste una grande differenza, di indiscutibile rilievo agli effetti della pensione, sotto il riflesso dello stato di bisogno in cui il pensionato che non può lavorare viene a trovarsi. É conforme alle esigenze volute dall'art. 38 il corrispondergli la intera pensione, mentre il divieto di cumulo per il pensionato che gode di un trattamento di lavoro oltre quello pensionistico rispetta un principio di giustizia distributiva.

Il differente trattamento fatto ai lavoratori agricoli per i quali la pensione é cumulabile con la retribuzione, é sorretto da speciali motivi. Le esigenze dell'agricoltura, la progressiva rarefazione nelle campagne delle forze di lavoro attratte da maggiori retribuzioni nella industria, il settore particolarmente depresso caratterizzato da prevalente occasionalità della occupazione, hanno indotto il legislatore a favorire in tutti i modi il lavoro nelle campagne, concedendo anche l'agevolazione del cumulo della pensione con la retribuzione. Si tratta di motivi ragionevoli ed apprezzabili, che giustificano il trattamento particolare.

Ed infine le pensioni spettanti agli impiegati statali, quelle a carico di enti pubblici diversi dalla previdenza sociale, e quelle a carico dei Fondi Speciali dello stesso I.N.P.S. sono soggette a discipline ben distinte da quella della assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti. É sufficiente accennare alla continuità ed alla durata del rapporto di impiego, nonché alla entità dei contributi versati dagli stessi impiegati.

La questione é infondata anche in riferimento agli artt. 4 e 35 della Costituzione. Il riconoscimento del diritto al lavoro e la tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni non sono vulnerati dal divieto di cumulo. Non può infatti costituire ostacolo effettivo alla attività lavorativa la circostanza che il pensionato non possa godere, per intero, di due diversi trattamenti, quello di lavoro e quello pensionistico.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 5 della legge 18 marzo 1968, n. 238, lett. a e b, e dell'art. 20, lett. a e b, del decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1968, n. 488, nella parte in cui dispongono che le pensioni di vecchiaia non sono cumulabili con la retribuzione, nonché l'illegittimità costituzionale degli artt. 21 e 23 dello stesso decreto nelle parti in cui si riferiscono alla pensione di vecchiaia.

Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, lett. b e c, della suindicata legge e dell'art. 20, primo comma, lett. c, e secondo comma, del suindicato decreto del Presidente della Repubblica, sollevata con le ordinanze indicate in epigrafe in riferimento agli artt. 3, 4, 35, 36 e 38 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 dicembre 1969.

Giuseppe BRANCA  -  Michele FRAGALI  -  Costantino MORTATI  -  Giuseppe CHIARELLI  -  Giuseppe VERZÌ  -  Giovanni BATTISTA BENEDETTI  -  Francesco PAOLO BONIFACIO  -  Luigi OGGIONI  -  Angelo DE MARCO  -  Ercole ROCCHETTI  -  Enzo CAPALOZZA  -  Vincenzo MICHELE TRIMARCHI  -  Vezio CRISAFULLI  -  Nicola REALE  -  Paolo ROSSI

 

Depositata in cancelleria il 22 dicembre 1969.