Sentenza n. 248 del 1974
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SENTENZA N. 248

ANNO 1974

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Giuseppe VERZÌ

Avv. Giovanni Battista BENEDETTI

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE   

Prof. Paolo ROSSI     

Avv. Leonetto AMADEI

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 246 e 247 del codice di procedura civile, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 1S maggio 1972 dal tribunale di Bari nel procedimento civile vertente tra Pavone Vito, Vescovo Pia, Pascazio Francesco, Poliseno Pietro ed altri, iscritta al n. 286 del registro ordinanze 1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 247 del 20 settembre 1972;

2) ordinanza emessa il 2 ottobre 1972 dal pretore di Martina Franca nel procedimento civile vertente tra Semeraro Giuseppe e Chimenti Gaetano ed altro, iscritta al n. 381 del registro ordinanze 1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21 del 24 gennaio 1973;

3) ordinanza emessa il 20 giugno 1973 dal pretore di Martina Franca nel procedimento civile vertente tra Casavola Antonia e Delfini Giuseppina, iscritta al n. 283 del registro ordinanze 1973 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 223 del 29 agosto 1973;

4) ordinanza emessa l'11 ottobre 1973 dal pretore di Portoferraio nel procedimento civile vertente tra Ciacci Ulisse e Capuano Franco ed altro, iscritta al n. 33 del registro ordinanze 1974 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 69 del 13 marzo 1974.

Visto l'atto di costituzione di Pascazio Francesco e Poliseno Pietro;

udito nell'udienza pubblica del 26 giugno 1974 il Giudice relatore Giulio Gionfrida;

udito l'avv. Giuseppe Luisi, per Pascazio e Poliseno.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso di un giudizio civile vertente tra Vito Pavone, Pia Vescovo ed altri, il tribunale di Bari - rilevato che la teste Maria Mangarelli, di cui era stata richiesta l'escussione in quanto "presente ai fatti", risultava essere moglie di una delle parti, onde era incapace a deporre ai sensi dell'art. 247 c.p.c. - con ordinanza 15 maggio 1972, ritenutane previamente la rilevanza in causa e la non manifesta infondatezza, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 247 citato, secondo cui, appunto, "non possono deporre il coniuge ancorché separato, i parenti ed affini in linea retta e coloro che sono legati ad una delle parti da vincoli di affiliazione, salvo che la causa verta su questioni di stato, di separazione personale o relative a rapporti di famiglia".

Ha indicato a parametri gli artt. 24 e 3 della Costituzione e ne ha motivato la prospettata violazione:

a) quanto all'art. 24, in base alla considerazione che "essendo la testimonianza un mezzo di prova e la prova essendo il mezzo concreto per dimostrare in giudizio la fondatezza della pretesa, il divieto di sentire come testimoni determinate persone limita di fatto la possibilità di far valere il proprio diritto";

b) quanto all'art. 3, sul rilievo della discriminazione che, in duplice direzione, si realizza da una parte "tra il giudizio civile, nel quale solo opera il divieto dell'art. 247 c.p.c., ed il giudizio penale nel quale pure é ordinariamente innestato il processo civile avente ad oggetto il risarcimento del danno"; e, d'altra parte, tra i cittadini: dei quali alcuni, per un generico sospetto di parzialità, vengono privati dell'esercizio del "diritto pubblico di collaborare con l'amministrazione della giustizia" per il tramite dell'istituto, appunto, della testimonianza.

2. - Analoga questione di legittimità dell'art. 247 c.p.c. - in riferimento, però, al solo art. 3 della Costituzione (e sotto il profilo unicamente della discriminazione tra giudizio civile e penale) - ha sollevato, con ordinanze 2 ottobre 1972 e 20 giugno 1973, il pretore di Martina Franca, in due giudizi civili vertenti, rispettivamente, tra Giuseppe Semeraro e Gaetano Chimenti e tra Antonia Casavola e Giuseppina Delfini.

3. - Infine, in un giudizio civile tra Ulisse Ciacci e Franco Capuano, il pretore di Portoferraio, con ordinanza 11 ottobre 1973, ha sollevato dubbio di legittimità, per contrasto con gli artt. 24 e 3 della Costituzione, oltre che della norma dell'art. 247 innanzi citata, anche di quella del precedente art. 246 c.p.c., secondo cui "non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio".

Anche tale ultima sancita incapacità a testimoniare sarebbe, infatti, secondo il giudice a quo "basata su una presunzione di parzialità che non appare giustificata", in quanto, tra l'altro:

a) non trova applicazione nel processo penale dove possono essere ammessi a deporre, oltre la stessa parte civile, quanti avrebbero potuto costituirsi in giudizio per far valere una pretesa risarcitoria o potrebbero esercitare tale facoltà in un successivo giudizio;

h) prescinde dall'accertamento di un effettivo interesse a rendere una falsa testimonianza in rapporto alla pretesa che potrebbe eventualmente essere fatta valere in giudizio dal teste.

4. - Nel giudizio innanzi a questa Corte si sono soltanto costituiti Francesco Pascazio e Pietro Poliseno, convenuti nel procedimento pendente innanzi al tribunale di Bari, che hanno fatto proprie le motivazioni adottate dall'ordinanza di rinvio, onde hanno concluso nel senso di una declaratoria di incostituzionalità dell'art. 247 del codice di procedura civile.

 

Considerato in diritto

 

1. - La questione di legittimità costituzionale dell'art. 247 del codice di procedura civile, secondo cui non possono deporre il coniuge ancorché separato, i parenti o affini in linea retta e coloro che sono legati a una delle parti da vincoli di  affiliazione, salvo che la causa verta su questioni di stato, di separazione personale, o relative a rapporti di famiglia, appare fondata, in quanto si risolve in una ingiustificata compressione del diritto di azione e di quello di difesa garantiti dall'art. 24 della Costituzione.

Questa Corte ha avuto più volte occasione di affermare che il potere di agire in giudizio per la tutela del proprio diritto, così come il diritto di difesa, deve, al pari di ogni altro diritto garantito dalla Costituzione, essere regolato dalla legge ordinaria in modo da assicurarne la effettività, e che - mentre non contrastano con la predetta norma costituzionale le leggi che, circoscrivendo in modo più o meno ampio la sfera delle situazioni sostanziali, si limitano a determinare l'oggetto della garanzia giurisdizionale (v. sentenze n. 8 e n. 57 del 1962 e n. 138 del 1968), o quelle che comunque incidono sulla disponibilità della situazione sostanziale (sentenza n. 45 del 1963) - la garanzia della tutela giurisdizionale viene compromessa, "se si nega o si limita alla parte il potere processuale di rappresentare al giudice la realtà dei fatti ad essa favorevoli, se le si nega o le si restringe il diritto di esibire i mezzi rappresentativi di quella realtà" (sent. n. 53 del 1966).

É ben vero che l'esclusione o la limitazione della disponibilità di un mezzo probatorio e in particolare del ricorso alla prova per testi sono state dalla Corte ritenute costituzionalmente legittime, se giustificate dalla esigenza di "salva guardia di altri diritti o altri interessi giudicati degni di protezione in base a criteri di reciproco coordinamento" (sent. del 1963 n. 45; del 1966 citata; del 1970 n. 112), ma ciò non può dirsi per il divieto, sancito dalla norma denunciata, di assumere come testi alcuni, più stretti, congiunti delle parti, salvo che nelle cause relative a determinati rapporti ivi indicati.

Il divieto non ha alcun riferimento all'oggetto specifico del giudizio, né alla rilevanza degli interessi in giuoco, ma, pur ammettendo in genere il mezzo della prova per testi, discrimina la capacità, o legittimazione, di questi secondo che siano o non siano in un dato rapporto personale con le parti.

Ricorre qui un giudizio preventivo, da parte del legislatore, di inattendibilità della deposizione testimoniale di chi é legato alla parte da stretto vincolo familiare.

A giustificare siffatto regime di aprioristica valutazione negativa di credibilità non basta addurre criteri di probabilità. Esso - come già rilevato dalla dottrina (e specialmente, fin dal secolo scorso, da quella francese, con riguardo alle limitazioni delle prove testimoniali dettate dagli artt. 268 e 283 del code de procedure civile del 1806) - reca l'impronta di antichi istituti del processo canonico e comune e in particolare del metodo d; valutazione quantitativa dei testi; e non ha valida ragione d'essere nei moderni sistemi, che in conformità dell'evoluzione giuridica universale in tema di prove tendono in misura sempre più larga, pur con alcune limitazioni inerenti alle così dette prove legali, al principio del libero convincimento del giudice. É perciò che la maggior parte delle più moderne legislazioni straniere respingono il criterio di una aprioristica esclusione del valore probatorio della testimonianza di alcuni soggetti fondata soltanto su motivi di sospetto di non sincerità secondo indici di probabilità, affidandone invece la valutazione al prudente apprezzamento del giudice da compiersi a posteriori, caso per caso.

L'art. 247 del nostro codice processuale civile, non solo contrasta con siffatta evoluzione giuridica, ma viola, per quanto sopra si é detto, l'art. 24 della Costituzione, limitando ingiustificatamente il diritto alla prova, che costituisce nucleo essenziale del diritto di azione e di difesa.

La norma va, pertanto, dichiarata illegittima, restando assorbito il profilo concernente il contrasto con l'art. 3 della Costituzione.

2. - Non fondata appare invece la questione di legittimità costituzionale dell'art. 246 c.p.c., sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., dal pretore di Portoferraio.

La norma non vieta l'assunzione come testi di coloro che abbiano un qualsiasi interesse, il quale possa indurre a far sospettare della loro sincerità, ma riguarda soltanto le persone "aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio". Essa ha quindi una portata e una ratio ben diverse da quelle che erano proprie della allegazione a sospetto già prevista dall'art. 237 del codice di procedura civile del 1865 e della ricusabilità dei cosiddetti temoins reprochables elencati nell'art. 283 del codice francese del 1 806 (ora soppresso dalla legge di riforma del 22 dicembre 1958), il quale vi comprendeva, tra gli altri, gli eredi presuntivi delle parti, i loro commensali, i dipendenti e domestici.

Il riferimento a un interesse tale da legittimare la partecipazione al giudizio dimostra, come rilevato (sia pure non senza contrasti) in dottrina, che il divieto dell'art. 246 é dettato in funzione del principio, proprio del nostro ordinamento processuale civile, di incompatibilità delle posizioni di teste e di parte nel giudizio.

Questa antitesi non é stata vista dal legislatore soltanto con riguardo a colui che sia già parte formale del giudizio ovvero parte in senso sostanziale, cioè quella in nome della quale o contro la quale viene chiesta l'attuazione della legge, ma anche rispetto al titolare o contitolare della situazione giuridica dedotta in giudizio da altro soggetto, il quale ultimo sia legittimato a farla valere in nome proprio, e rispetto al titolare di una situazione giuridica dipendente, sotto il profilo sostanziale, da quella dedotta in giudizio.

Tali soggetti possono, secondo i casi, spiegare intervento in giudizio, o ai sensi del secondo capoverso dell'art. 111 c.p.c. (il quale, peraltro, non configura un intervento di terzo in senso proprio) o sotto forma di intervento litisconsortile (come nella ipotesi di pluralità di legittimati di cui si trovano esempi nell'art. 117 e nell'art. 2377, capoverso, del codice civile, rispettivamente in tema di annullamento di matrimonio e di impugnazione di deliberazioni assembleari delle società) o adesivo autonomo (come é quello del concreditore solidale), ovvero, infine, sotto forma di intervento adesivo dipendente, di cui al capoverso dell'art. 105 c.p.c. (intervento del subconduttore, del fideiussore, dell'obbligato in via di regresso, ecc.).

Anche se chi versa in una delle predette situazioni sostanziali non intervenga in giudizio, il legislatore lo ha, ai fini della capacità di testimoniare, assimilato alla parte. E ciò non può dirsi irrazionale. Se l'intervento é avvenutò, la incapacità ad essere successivamente escusso come teste discende dalla qualità di parte che assume l' interventore, mentre, nella ipotesi di intervento posteriore alla testimonianza, questa perderebbe il suo valore probatorio, anche se non esistesse la norma dell'art. 246 del codice di procedura civile. Questa appare quindi dettata con riguardo alla prospettiva di chi si mantenga estraneo al giudizio, e ciò nonostante, per la particolare situazione giuridica che a lui fa capo, é in condizione, secondo le regole di diritto sostanziale, di potere poi invocare a proprio favore l'efficacia diretta o riflessa del giudicato, formatosi col contributo della propria testimonianza.

La Corte non intende con ciò far propria l'interpretazione restrittiva dell'art. 246 sostenuta da una parte della dottrina, la quale ne limita l'applicabilità all'intervento adesivo dipendente.

Prendendosi atto dell'orientamento giurisprudenziale, che é nel senso di una larga interpretazione, comprensiva di qualsiasi forma di possibilità di intervento, basta considerare che, rispetto all'ipotesi di chi potrebbe spiegare intervento principale per far valere un diritto nei confronti di tutte le parti, appare pertinente l'osservazione mossa in dottrina che in fatto nessuna delle parti avrà interesse ad addurlo come teste; e, per quanto attiene all'intervento adesivo dipendente, pur discutendosi, in qualche caso, se il giudicato spieghi efficacia nei confronti di chi non é intervenuto, trattasi comunque di casi marginali e trascurabili nella valutazione della legittimità costituzionale della norma denunciata.

Questa, essendo fondata sulla efficacia estensiva del giudicato, quanto meno in utilibus rispetto alle persone che dichiara incapaci di testimoniare, s'inquadra, per una razionale assimilazione di esse alle parti, nello stesso principio vigente nel nostro ordinamento processuale civile che esclude la testimonianza delle parti in causa.

Non sussiste perciò il contrasto con l'art. 24 Cost., così come ad esempio non viola tale disposizione la disciplina per cui uno dei litisconsorti, pur potendosi giovare per la difesa del proprio diritto dell'apporto delle argomentazioni e difese degli altri, non può pretendere di farli escutere come testi, per attribuire alle loro dichiarazioni il valore delle deposizioni testimoniali.

Né la questione può dirsi fondata, in riferimento all'art. 3 Cost., per le differenze prospettate nell'ordinanza rispetto al processo penale, in cui l'offeso dal reato, anche se costituito parte civile, può essere chiamato a deporre come testimone, perché la diversità di trattamento é in funzione della diversa rilevanza degli interessi che sono in giuoco nel processo penale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 247 del codice di procedura civile;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 246 del codice di procedura civile sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal pretore di Portoferraio, con l'ordinanza 11 ottobre 1973.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 luglio 1974.

 

Francesco Paolo BONIFACIO - Giuseppe VERZÌ- Giovanni Battista BENEDETTI - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI - Leonetto AMADEI - Giulio GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI.

Arduino SALUSTRI - Cancelliere

 

Depositata in cancelleria il 23 luglio 1974.