Sentenza n. 64 del 1970

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SENTENZA N. 64

 

ANNO 1970

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

composta dai signori Giudici:

 

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

 

Prof. Michele FRAGALI

 

Prof. Costantino MORTATI

 

Prof. Giuseppe CHIARELLI

 

Dott. Giuseppe VERZÌ

 

Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI

 

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO

 

Dott. Luigi OGGIONI

 

Dott. Angelo DE MARCO

 

Avv. Ercole ROCCHETTI

 

Prof. Enzo CAPALOZZA

 

Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI

 

Prof. Vezio CRISAFULLI

 

Dott. Nicola REALE

 

Prof. Paolo ROSSI

 

ha pronunciato la seguente

 

 

 

SENTENZA

 

 

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 253, 272, 277, secondo comma, e 375, secondo comma, del codice di procedura penale e dell'art. 25 della legge 22 ottobre 1954, n. 1041 (disciplina della produzione, del commercio e dell'impiego degli stupefacenti), promossi con le seguenti ordinanze:

 

1)ordinanza emessa il 31 maggio 1968 dal tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Garombo Giovanni ed altri, iscritta al n. 198 del registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 248 del 28 settembre 1968;

 

2)ordinanza emessa il 7 febbraio 1969 dal giudice istruttore del tribunale di Ascoli Piceno nel procedimento penale a carico di Giorgi Alighiero, iscritta al n. 120 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 105 del 23 aprile 1969;

 

3)ordinanza emessa il 12 dicembre 1968 dal tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di Romiti Furio ed altri, iscritta al n. 157 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 145 dell'11 giugno 1969.

 

Visti gli atti di costituzione di Garombo Giovanni e Romiti Furio e d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

 

udito nell'udienza pubblica del 26 novembre 1969 il Giudice relatore Enzo Capalozza;

 

uditi gli avvocati Vittorio Chiusano e Giovanni Conso, per il Garombo, gli avvocati Vincenzo Summa e Luciano Ventura, per il Romiti, e il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

 

 

Ritenuto in fatto

 

 

 

1. - Nel corso di un procedimento penale iniziato presso il tribunale di Torino a carico di Giovanni Garombo, imputato, con altri, di bancarotta fraudolenta, veniva eseguito, il 10 ottobre 1964, l'ordine di cattura emesso dal pubblico ministero contro il predetto imputato, che era, poi, scarcerato dal giudice istruttore, per decorrenza dei termini della custodia preventiva.

 

Con sentenza di rinvio a giudizio del 6 ottobre 1967, veniva nuovamente ordinata la cattura del Garombo, il quale si presentava in istato di carcerazione al dibattimento. Il suo difensore eccepiva l'illegittimità costituzionale dell'art. 375' secondo comma, prima parte, del codice di procedura penale - in applicazione del quale era stata disposta la seconda cattura - per contrasto con l'art. 13 della Costituzione.

 

Nell'accogliere l'istanza, il tribunale, con ordinanza del 31 maggio 1968, estendeva il dubbio di legittimità costituzionale all’ inciso "qualora non sia stata depositata in cancelleria la sentenza di rinvio a giudizio", con cui il primo comma dell'art. 272 dello stesso codice limita l'operatività dei termini massimi della custodia preventiva alla sola fase istruttoria, ravvisandosi la premessa logica e giuridica dell'altra, denunziata dalla difesa.

 

Sulla non manifesta infondatezza della questione, il tribunale osserva che la distinzione della carcerazione preventiva in due fasi - istruttoria, limitata nel tempo, e post-istruttoria, a tempo indeterminato - sarebbe in contrasto sia con le restanti disposizioni del sistema vigente, nel quale la custodia preventiva é intesa come carcerazione sofferta prima della sentenza irrevocabile, sia con il precetto contenuto nell'art. 13, ultimo comma, che richiede una disciplina unitaria.

 

Dalle norme denunziate deriverebbe, poi, il protrarsi a tempo indeterminato della carcerazione preventiva per l'imputato di un delitto per cui sia obbligatorio il mandato di cattura.

 

Né potrebbe, infine, sostenersi, per il tribunale, che il citato art. 13 richieda, per la sua applicazione, l'emanazione di precise disposizioni, in attesa delle quali sarebbero da osservare quelle vigenti; e ciò in quanto di lacuna legislativa potrebbe parlarsi solo quando nel sistema manchi del tutto una previsione e non quando vi sia già, come nella specie, sia pure con operatività circoscritta.

 

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 248 del 28 settembre 1968.

 

Nel giudizio innanzi a questa Corte si é costituito il Garombo con deduzioni depositate il 2 luglio 1968, nelle quali, richiamate le argomentazioni sviluppate nel giudizio a quo, si fa riserva di ulteriori deduzioni.

 

Il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, é intervenuto con atto depositato il 26 luglio 1968, nel quale si chiede che la questione sia dichiarata non fondata.

 

Deduce l'Avvocatura che la prefissione dei termini massimi della carcerazione che precede la sentenza irrevocabile, é affidata dall'art. 13, ultimo comma, della Costituzione al legislatore ordinario, e, per la fase istruttoria, é ora regolata dall'art. 272, nel testo modificato dalla legge novellistica 18 giugno 1955, n. 517.

 

Il precetto costituzionale sarebbe da ritenersi osservato anche nella fase successiva, in cui l'avvenuta scarcerazione per decorrenza dei termini non pregiudicherebbe il potere di disposizione personale dell'imputato, di cui all'art. 375 del codice di procedura penale; e la durata massima della carcerazione preventiva sarebbe determinata dal secondo comma dell'articolo 275 dello stesso codice, con riguardo alla pena successivamente inflitta nella sentenza di condanna di primo grado.

 

Infatti, secondo l'Avvocatura, se residua, alla data di questa sentenza, una pena da scontare, la carcerazione preventiva proseguirebbe fino al limite della condanna subita, mentre se nulla residua o l'imputato abbia già scontato una carcerazione di durata maggiore, la norma sarebbe da interpretare nel senso che la carcerazione preventiva avrebbe termine con l'emanazione della sentenza di primo grado.

 

Deduce, inoltre, l'Avvocatura che, tenuto conto delle garanzie predisposte dalle norme regolamentari per l'esecuzione del codice di procedura penale, circa la formazione dei ruoli dei dibattimenti e la precedenza spettante ai procedimenti contro detenuti, non sarebbe a parlarsi di violazione del precetto costituzionale, nel caso di eventuale procrastinazione della carcerazione preventiva, causata dal ritardo nella fissazione del dibattimento e nell'emanazione della sentenza di primo grado.

 

Con memoria depositata il 13 novembre 1969, la difesa del Garombo osserva che il precetto contenuto nell'ultimo comma dell'art. 13 della Costituzione, sia per la sua ampia dizione, sia per la sua inserzione nella parte dedicata ai diritti ed ai doveri dei cittadini, non potrebbe assumere un significato diverso a seconda della fase del procedimento, e dovrebbe ritenersi esteso all'intiero suo iter; richiama i criteri seguiti da questa Corte con sentenza n. 108 del 1962, sul sindacato delle riserve di legge, anche se non rinforzate, ed esclude che, in tema di custodia preventiva, possa pervenirsi ad altra conclusione sulla base della successiva sentenza n. 26 del 1964, la quale non avrebbe minimamente intaccato il principio della necessaria determinatezza di tale custodia.

 

Nel contrastare le argomentazioni svolte nell'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri, le interpreta nel senso che l'Avvocatura generale dello Stato non avrebbe ritenuto di far propria la tesi, recentemente seguita dalla Cassazione (sentenza 24 maggio 1968), sulla discrezionalità del legislatore di limitare, in caso di riserva di legge non rinforzata, la durata massima della custodia preventiva alla sola fase istruttoria.

 

Per la fase successiva, contesta che una determinazione della durata massima possa dedursi dalla norma contenuta nel secondo comma dell'art. 275 del codice di procedura penale. Tale disposizione risponderebbe ad una esigenza di equità, ma non offrirebbe alcun elemento favorevole alla tesi dell'Avvocatura, la quale non avrebbe tenuto presente l'alternativa di una sentenza assolutoria. Non potrebbe, poi, profilarsi, in caso di condanna, una determinazione ob relationem, né in base al primo comma del citato art. 275 - in quanto l'oggetto della relatio sarebbe dato da valutazioni largamente discrezionali sul quantum della pena da infliggere in concreto -, né in base all'art. 20, secondo comma, delle disposizioni regolamentari per l'esecuzione del codice di procedura penale, dato il carattere palesemente ordinatorio di questa norma e la mancanza di precisi termini da essa fissati.

 

Dall'illegittimità costituzionale dell'art. 272, primo comma, nell'inciso "qualora non sia stata depositata la sentenza di rinvio a giudizio" dovrebbe poi derivare, quella dell'art. 375, secondo comma, la quale, peraltro, sussisterebbe pure per un profilo autonomo, dato che la disposizione consentirebbe di scavalcare la durata massima della custodia preventiva fissata per la fase istruttoria, ponendo in essere un vero e proprio aggiramento del precetto costituzionale persino nei limiti di tale fase.

 

L'intento di una parte della dottrina di evitare un così grave inconveniente con l'escludere la riemissione del mandato di cattura con la sentenza di rinvio a giudizio, si infrange nelle opposte posizioni della giurisprudenza; sicché, non apparendo realistica la prospettiva di uno spontaneo adeguamento della Cassazione ad una sentenza interpretativa di rigetto, la difesa insiste nella declaratoria di illegittimità dell'art. 275, secondo comma, del codice di procedura penale "in quanto consente di disporre la cattura dell'imputato, con sentenza di rinvio a giudizio, quando l'imputato stesso sia precedentemente stato scarcerato per decorrenza del termine massimo di custodia preventiva".

 

2. - Altra questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 375, secondo comma, nonché degli artt. 253 e 277, secondo comma, del codice di procedura penale, é stata sollevata, con riferimento agli artt. 13, 27, secondo comma, e 111 della Costituzione, dal giudice istruttore del tribunale di Ascoli Piceno, con ordinanza del 7 febbraio 1969, emessa nel corso di un procedimento penale per maltrattamenti ed omicidio preterintenzionale, iniziato a carico di Alighiero Giorgi, per la cui cattura si sarebbe dovuto provvedere con sentenza di rinvio a giudizio, dopo che l'imputato, durante l'istruzione era stato posto in libertà provvisoria.

 

Si premette nell'ordinanza che l'attuale situazione giuridica dell'imputato, consente di sollevare la questione di legittimità costituzionale anche degli artt. 253 e 277, secondo comma, su citati sull'obbligatorietà del mandato di cattura e sul divieto di libertà provvisoria durante l'istruzione.

 

La custodia preventiva troverebbe la sua esclusiva giustificazione nella finalità di garantire sia esigenze istruttorie sia la presenza dell'imputato al processo; e la tendenza legislativa, sarebbe orientata verso la riduzione al minimo indispensabile della carcerazione preventiva, e l'attribuzione al giudice della facoltà (anziché dell'obbligo) di ordinare la cattura dell'imputato e di quella di concedere la libertà provvisoria.

 

Le disposizioni denunziate, invece, si porrebbero in contrasto con l'art. 27, secondo comma, della Costituzione: e la loro ratio, intesa ad imprimere un più vigoroso impulso alle indagini per gravi delitti e ad imporre, con la cattura, un provvedimento esemplare e rapido anche per prevenire ulteriori fatti delittuosi da parte dell'imputato, non troverebbe una sufficiente giustificazione, potendo le medesime finalità essere meglio raggiunte affidando la speditezza delle indagini ed il giudizio sull'opportunità della cattura e della libertà provvisoria alla sensibilità del magistrato, anziché al riferimento alla pena in astratto comminata. Aggiunge il giudice istruttore che, qualora, si volesse ritenere razionale e giustificato il contenuto dell'art. 253 del codice di procedura penale, alla stessa conclusione non si potrebbe pervenire per le altre disposizioni denunziate.

 

Viene dedotta, infine, la violazione degli artt. 13 e 111 della Costituzione, in quanto l'obbligatorietà dei provvedimenti restrittivi della libertà personale vanificherebbe la garanzia della motivazione sull'utilità della cattura.

 

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 105 del 23 aprile 1969.

 

Nel giudizio innanzi a questa Corte é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il 2 maggio 1969, nel quale si chiede che la questione sia dichiarata infondata.

 

Osserva l'Avvocatura che l'art. 13 della Costituzione, nel dettare garanzie per le misure cautelari restrittive della libertà personale, si sarebbe limitato ad affidare al legislatore ordinario la determinazione dei limiti massimi della custodia preventiva, senza escludere l'emanazione di una norma che ne preveda l'obbligatorietà e senza operare una scelta tra i vari criteri giustificativi dell'istituto, di volta in volta identificati, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, nelle necessità della difesa sociale per la gravità del reato e per la pericolosità dell'imputato, e nell'esigenza di assicurare la presenza di questo ultimo al processo o di averne la disponibilità come fonte di prova.

 

Nel contestare la pretesa violazione dell'art. 27, secondo comma, della Costituzione, l'Avvocatura osserva che l'imputato non é da considerarsi colpevole per il fatto di essere sottoposto a custodia preventiva, in quanto altrimenti la custodia non troverebbe giustificazione neppure per le ipotesi normative ispirate a motivi strumentali. Pur nel caso in cui la legittimità dell'istituto fosse da limitare a queste ultime ipotesi, sarebbero, poi, da escludere le ulteriori dedotte violazioni, data la valutazione legislativa astratta e globale, delle fattispecie criminose per le quali sarebbe assolutamente da evitare il rischio che la prova sia dispersa o alterata ovvero che l'imputato si sottragga alla presenza nel processo.

 

D'altro canto, nei provvedimenti del giudice, la garanzia della motivazione sarebbe salvaguardata, secondo la stessa giurisprudenza della Cassazione, per la quale il mandato di cattura, sia obbligatorio sia facoltativo, deve contenere l'indicazione della fonte da cui furono attinti gli elementi di colpevolezza a carico dell'imputato; e lo stato di ulteriore carcerazione preventiva deve trovare riscontro in un'indicazione che attesti la permanenza degli elementi indizianti e nella vistosa prospettiva di responsabilità dell'imputato, insita nella stessa sentenza di rinvio a giudizio.

 

3. - Nel corso di un procedimento penale dinanzi al tribunale di Roma a carico di Furio Romiti ed altri quattro imputati, per delitti di cui alla legge 22 ottobre 1954, n. 1041, sulla disciplina della produzione, del commercio e dell'impiego degli stupefacenti, con ordinanza del 12 dicembre 1968, esso tribunale sospendeva di pronunciarsi sulla richiesta di libertà provvisoria, avanzata dal difensore dei prevenuti, e, ad istanza di quest'ultimo, sollevava con ordinanza 12 dicembre 1968 questioni di legittimità costituzionale degli artt. 25 della citata legge n. 1041 del 1954 e 277, secondo comma, del codice di procedura penale, per contrasto con gli artt. 13, primo e secondo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, nonché dell'art. 272 e dello stesso art. 277, secondo comma, del codice di procedura penale per violazione dell'art. 13, ultimo comma, della Costituzione.

 

A sostegno della non manifesta infondatezza, il tribunale, con l'ordinanza sopra indicata, per quanto concerne la prima questione osserva che la carcerazione preventiva sarebbe da considerare inspirata a scopi processuali di carattere istruttorio, e non anche di natura cautelare sostanziale, e postulerebbe una motivazione non solo sui sufficienti indizi di colpevolezza, bensì pure sulle esigenze processuali della cattura. Ciò, fra l'altro, perché ove si volesse avere riguardo a una finalità cautelare sostanziale, collegata alla futura esecuzione della pena, verrebbe meno la distinzione tra imputato e condannato. D'altro canto, il precetto costituzionale dell'art. 27, secondo comma, più che fissare siffatta distinzione formalistica, avrebbe inteso statuire che, in tema di libertà personale, le valutazioni prognostiche circa l'esito del giudizio non dovrebbero prevalere sull'esigenza di evitare le conseguenze lesive di una (indebita) restrizione della libertà personale.

 

Per quanto riguarda il secondo profilo delle questioni, il tribunale, a sostegno dell'illegittimità costituzionale della mancanza di limiti temporali, nel periodo successivo alla istruttoria, della carcerazione preventiva, osserva che quest'ultima, per l'art. 137 del codice penale, comprende il periodo di detenzione subita anche nella fase del giudizio fino alla sentenza irrevocabile; e che, in un sistema che accolla al giudice, anche in detta fase, di indagare su tutti gli elementi necessari alla decisione e di colmare le lacune dell'istruzione, le esigenze dei limiti costituzionalmente imposti alla carcerazione preventiva potrebbero trovare una diversa considerazione, ma non essere ignorate.

 

L'ordinanza, ritualmente notificata e comunicata é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 145 dell'11 giugno 1969.

 

Nel giudizio innanzi a questa Corte si é costituita la difesa del Romiti, con atto depositato il 1 luglio 1969, nel quale, chiedendosi che le disposizioni denunziate siano dichiarate illegittime, si sostiene che esse contrasterebbero col sistema, emergente dalla Costituzione, dei rapporti fra il cittadino e lo Stato, e, in particolare, darebbero adito alla possibilità che, prima che l'imputato sia dichiarato colpevole, l'intera pena sia scontata nella misura massima; toglierebbero al giudice la possibilità di valutare compiutamente i presupposti per l'emissione di un provvedimento restrittivo della libertà personale; gli impedirebbero, infine, di revocare quest'ultimo persino nel caso egli siasi convinto dell'iniquità della carcerazione.

 

Il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, é intervenuto in giudizio con atto depositato il 13 febbraio 1969, nel quale chiede che la questione sia dichiarata non fondata, adducendo argomentazioni analoghe a quelle svolte per le questioni sollevate con le ordinanze del tribunale di Torino e del giudice istruttore del tribunale di Ascoli Piceno.

 

 

 

Considerato in diritto

 

 

 

1. - Le tre ordinanze indicate in epigrafe propongono identiche o connesse questioni di legittimità costituzionale e, pertanto, i relativi giudizi, congiuntamente discussi nella pubblica udienza, possono essere riuniti e decisi con unica sentenza.

 

2. - La prima questione da affrontare in ordine logico é quella sollevata dal giudice istruttore del tribunale di Ascoli Piceno sulla legittimità dell'obbligatorietà del mandato di cattura (art. 253 c.p.p.), e qui collegata al capoverso dell'art. 277 (il quale fa divieto di concedere la libertà provvisoria nei casi in cui é obbligatorio il mandato di cattura) ed all'art. 375, primo capoverso (il quale impone al giudice istruttore di emettere il mandato di cattura con la sentenza di rinvio a giudizio, quando si tratti di reato per il quale la cattura sia obbligatoria).

 

Ad avviso del giudice a quo, le norme denunziate contrasterebbero con il principio secondo cui "l'imputato non é considerato colpevole sino alla condanna definitiva" (art. 27 cpv. Cost.) e violerebbe il precetto (art. 13 cpv. e art. 111 Cost.) che ammette la detenzione, nei casi é modi previsti dalla legge, solo "per atto motivato dell'autorità giudiziaria".

 

3. - In linea di principio, si deve riconoscere che la detenzione preventiva - esplicitamente prevista (nei limiti che più innanzi saranno precisati) dalla Costituzione (art. 13, ultimo comma) - va disciplinata in modo da non contrastare con una delle fondamentali garanzie della libertà del cittadino: la presunzione di non colpevolezza dell'imputato. Il rigoroso rispetto di tale garanzia - che vincola, per altro, non il solo legislatore, ma anche le pubbliche autorità (polizia giudiziaria, pubblico ministero e giudice), alle quali sono affidate le attività processuali - necessariamente comporta che la detenzione preventiva in nessun caso possa avere la funzione di anticipare la pena da infliggersi solo dopo l'accertamento della colpevolezza: essa, pertanto, può essere predisposta unicamente in vista della soddisfazione di esigenze di carattere cautelare o strettamente inerenti al processo.

 

Da questa premessa, tuttavia, non consegue che, nell'ambito di una valutazione politica discrezionale, la legge non possa stabilire ipotesi nelle quali, sussistendo sufficienti indizi di colpevolezza, al giudice sia fatto obbligo di emettere il mandato di cattura. Se ed in quanto si tratti di una ragionevole valutazione dell'esistenza di un pericolo derivante dalla libertà di chi sia indiziato di particolari reati, il legislatore ha la facoltà di disporre che, entro predeterminati limiti temporali, egli ne sia privato. Ed infatti - a prescindere dalla preferibilità di un sistema che demandi sempre al giudice il potere di valutare di volta in volta se il lasciare in libertà l'imputato determini un pericolo di entità tale da giustificarne la cattura e la detenzione - non si può escludere che la legge possa (entro i limiti, non insindacabili, di ragionevolezza) presumere che la persona accusata di reato particolarmente grave e colpita da sufficienti indizi di colpevolezza, sia in condizione di porre in pericolo quei beni a tutela dei quali la detenzione preventiva viene predisposta.

 

Mette conto, del resto, rilevare che la stessa Costituzione prevede esplicitamente l'esistenza di casi nei quali la legge rende obbligatoria l'emissione di mandati o ordini di cattura (art. 68, secondo comma): l'aver stabilito che vi sono ipotesi in cui, per la privazione della libertà personale di un membro del Parlamento, viene meno l'esigenza di una preventiva autorizzazione della Camera alla quale egli appartiene, costituisce argomento decisivo per concludere che il legislatore costituente non ha affatto escluso la compatibilità delle suddette misure detentive obbligatorie con i principi che assistono e garantiscono la libertà di ogni cittadino.

 

Né potrebbe assumersi che le esigenze di prevenzione, in relazione alle quali il legislatore può legittimamente imporre al giudice l'emissione del mandato, sussistano solo nel corso della fase istruttoria del processo: anche qui deve affermarsi che rientra nella discrezionale valutazione della legge fissare la concreta disciplina della carcerazione preventiva, non potendosi escludere che le esigenze cautelari da essa soddisfatte permangano dopo la chiusura dell'istruzione.

 

4. - Quanto fin qui si é detto vale anche a dimostrare che l'obbligatorietà del mandato di cattura non contrasta col principio secondo il quale i provvedimenti restrittivi della libertà personale devono essere adottati "per atto motivato dell'autorità giudiziaria". Richiamandosi ad un principio già affermato nella sentenza n. 68 del 1967, la Corte ritiene che, se in relazione a cene ipotesi tipiche il legislatore può presumere l'esistenza di un pericolo e rendere obbligatorie misure restrittive idonee a farlo venir meno, ciò necessariamente comporta che la motivazione dell'autorità giudiziaria deve cadere solo sull'esistenza dei presupposti ai quali la legge collega l'emissione obbligatoria del provvedimento.

 

A tale proposito va rilevato che, per quanto riguarda il mandato di cattura previsto dall'art. 253 c.p.p., il giudice deve non solo verificare che si tratti di uno dei casi in tale disposizione previsti, ma deve altresì accertare, conformemente al principio enunciato dall'art. 252 per tutte le misure di detenzione preventiva (siano esse obbligatorie o facoltative), l'esistenza in concreto di "sufficienti indizi di colpevolezza". Dall'obbligo della motivazione - imposto in via generale dall'art. 111 e specificamente, per la materia ora in esame, dall'art. 13 capoverso della Costituzione - scaturisce che il mandato di cattura deve essere, su tale punto, adeguatamente motivato.

 

La Corte non dubita che dal sistema vigente, correttamente interpretato, sia da ricavarsi il principio generale in forza del quale tutte le volte in cui la legge affida al giudice il potere di valutare determinate circostanze, al fine della emissione di un provvedimento processuale, tale valutazione debba essere oggetto di motivazione; né la Corte ignora che il secondo comma dell'art. 264 c.p.p. espressamente impone che i mandati di cattura, di arresto o di accompagnamento contengano l'enunciazione, sia pure nei limiti compatibili col segreto istruttorio, dei motivi che ne giustificano l'emissione. Nondimeno, occorre tener conto del fatto che nella prassi e nella giurisprudenza ordinaria tale obbligo viene sostanzialmente eluso e che si é venuta affermando una interpretazione (non conforme ai testi legislativi e, comunque, contrastante con i principi costituzionali) secondo la quale la motivazione sulla sussistenza dei sufficienti indizi di colpevolezza - vale a dire sul presupposto al quale la legge subordina la legittima emissione di un mandato di cattura - dovrebbe obbedire a criteri più o meno rigorosi secondo che si tratti di mandato obbligatorio o facoltativo. Ond'é che, al fine di una effettiva salvaguardia del principio enunciato dall'art. 13, secondo comma, della Costituzione, si impone la necessità di dichiarare la illegittimità dell'art. 253 c.p.p. nella parte in cui esso non fa obbligo al giudice di motivare sulla esistenza di sufficienti indizi di colpevolezza.

 

5. - Alla stregua di ciò che si é detto, deve essere dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal tribunale di Roma a proposito dell'art. 25 della legge 22 ottobre 1954, n. 1041 (concernente la disciplina della produzione, del commercio e dell'impiego degli stupefacenti), che per le ipotesi previste dagli artt. 5, 6 e 18 prescrive come obbligatorio il mandato di cattura.

 

In relazione a questa specifica disposizione valgono, per quanto si riferisce all'asserita violazione dell'art. 27, secondo comma, della Costituzione, le ragioni esposte al n. 3.

 

Circa l'obbligo di motivazione imposto dall'art. 13 della Costituzione é da osservare che la dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell'art. 253 c.p.p. é sufficiente ad imporne l'osservanza in tutti i casi nei quali la legge - si tratti del codice processuale o di legge speciale - impone l'emissione del mandato di cattura.

 

6. - In ordine alla questione di legittimità costituzionale dell'art. 375, secondo comma, c.p.p., in relazione all'art. 13 della Costituzione, nell'ipotesi in cui sia stato già consumato, in periodo istruttorio o preistruttorio (art. 271 c.p.p.), il termine massimo della carcerazione preventiva quale é prevista dall'art. 272 c.p.p., la questione é fondata nei termini di cui si dirà.

 

A differenza di altre forme di restrizione della libertà personale, quali le misure di sicurezza detentive, dettate da esigenze diverse da quella tipicamente processuale della custodia preventiva, la Costituzione ha inteso evitare che il sacrificio della libertà che quella comporta sia interamente subordinato alle vicende del procedimento; ed ha, pertanto, voluto che, con la legislazione ordinaria, si determinassero i limiti temporali massimi della carcerazione preventiva, al di là dei quali verrebbe compromesso il bene della libertà personale, che, come questa Corte ha avuto occasione di affermare, costituisce una delle basi della convivenza civile.

 

É proprio per il periodo successivo alla fase istruttoria, rispetto al quale il sistema non prevede limiti certi per la durata della carcerazione preventiva, che il precetto costituzionale risulta violato; invero, non é limite certo quello che l'Avvocatura desume dal disposto dell'art. 275, secondo comma, c.p.p., cioè quello dell'emanazione della sentenza.

 

Non può essere condiviso neppure l'altro assunto dell'Avvocatura, secondo il quale, dopo l'istruzione, la durata della custodia preventiva troverebbe una sua delimitazione temporale nell'art. 20 delle disposizioni regolamentari per la esecuzione del codice di procedura penale, sulla preferenza da dare alle iscrizioni nei ruoli dei procedimenti riguardanti i detenuti o aventi, in genere, carattere di urgenza. Infatti, questa disposizione, ai fini che qui interessano, non offre una garanzia maggiore di quella già contenuta nel testo originario dell'art. 272 c.p.p., che prevedeva un semplice controllo gerarchico e disciplinare sulla durata dell'istruzione, e che é stato ritenuto talmente inadeguato rispetto all'osservanza del disposto costituzionale da essere eliminato con la legge 18 giugno 1955, n. 517, e sostituito con il testo attualmente in vigore.

 

D'altronde, il riferimento alla carcerazione preventiva, contenuto nell'art.. 275, secondo comma, c.p.p. - richiamato dall'Avvocatura - vale ai soli fini della detrazione dalla pena discrezionalmente inflitta nel caso concreto: detrazione che é consentita anche per la custodia preventiva sofferta per un reato diverso o un distinto procedimento (artt. 137 c.p. e 271, ultimo comma, c.p.p.: c.d. principio della fungibilità della detrazione). Né consegue che nessun argomento se ne può trarre circa la determinazione di un limite temporale massimo, e per di più a posteriori. Tutto ciò a prescindere dalla gravità delle ipotesi di custodia preventiva inutilmente sofferta.

 

7. - Per le ragioni esposte nel numero precedente, deve essere dichiarata la parziale illegittimità costituzionale del primo comma dell'art. 272 e del secondo comma dell'art. 375 codice procedura penale.

 

L'art. 272 fissa (variamente determinandola in relazione a diverse ipotesi) la durata massima della detenzione preventiva: la illegittimità costituzionale colpisce gli incisi "quando si procede con istruzione formale" e "non sia stata depositata in cancelleria la sentenza di rinvio a giudizio", i quali, riservando la disciplina alla sola fase istruttoria, consentono che, dopo la chiusura di questa, la durata della detenzione non sia soggetta a limiti predeterminati.

 

L'art. 375, secondo comma, a sua volta, deve essere dichiarato illegittimo nella parte in cui impone o consente che, con la sentenza di rinvio a giudizio, sia emesso mandato di cattura anche nell'ipotesi in cui l'imputato sia stato scarcerato a seguito della decorrenza dei termini massimi fissati nell'art. 272.

 

Ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, deve essere, infine, dichiarata la illegittimità costituzionale:

 

a) dell'art. 272, terzo comma, relativamente alle parole "e non é stato emesso il decreto di citazione a giudizio"; b) dell'art. 273, nella parte in cui prescrive l'emissione del mandato di cattura anche nell'ipotesi in cui l'imputato sia stato scarcerato a seguito della decorrenza dei termini massimi fissati nell'art. 272.

 

8. - In conseguenza della pronunzia di parziale illegittimità costituzionale degli artt. 272, primo e terzo comma, 273 e 375, secondo comma, c.p.p., i termini fissati nell'art. 272 limitano la durata massima della detenzione preventiva, indipendentemente dalle vicende delle varie fasi del processo penale.

 

Le statuizioni della presente sentenza non precludono al legislatore una nuova disciplina della materia, eventualmente differenziata non solo in relazione ai vari tipi di reato, ma anche in relazione alle varie fasi del procedimento, purché, in conformità con l'ultimo comma dell'art. 13 della Costituzione, si assicuri in ogni caso la predeterminazione d'un ragionevole limite di durata della detenzione preventiva.

 

9. - L'ordinanza del giudice istruttore del tribunale di Ascoli Piceno ha denunziato anche il contrasto fra l'art. 277, secondo comma, che esclude l'ammissibilità della libertà provvisoria nei casi nei quali é obbligatoria l'emissione del mandato di cattura, e gli artt. 13, 27 e 111 della Costituzione.

 

I principi esposti in questa sentenza a proposito dell'articolo 253 c.p.p. e le statuizioni concernenti le disposizioni relative alla durata massima della detenzione preventiva dimostrano che la relativa questione - sollevata in relazione al combinato disposto dell'art. 277 e degli artt. 253 e 375 - non é fondata.

 

 

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

a) dichiara l'illegittimità costituzionale delle seguenti disposizioni del codice di procedura penale:

 

- art. 253, nella parte in cui tale disposizione esclude l'obbligo della motivazione in ordine alla sussistenza di sufficienti indizi di colpevolezza;

 

- art. 272, primo comma, limitatamente alle parole "quando si procede con istruzione formale" e "non sia stata depositata in cancelleria la sentenza di rinvio a giudizio e";

 

- art. 375, secondo comma, nella parte in cui impone o consente l'emissione del provvedimento di cattura dell'imputato anche quando questi sia stato scarcerato a seguito della decorrenza dei limiti fissati nell'art. 272;

 

b) ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiara l'illegittimità costituzionale delle seguenti disposizioni dello stesso codice:

 

- art. 272, terzo comma, limitatamente alle parole "e non é stato emesso il decreto di citazione a giudizio";

 

- art. 273, nella parte in cui prescrive l'emissione del mandato di cattura anche nell'ipotesi in cui l'imputato sia stato scarcerato a seguito della decorrenza dei termini fissati nell 'art. 272;

 

c) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 25 della legge 22 ottobre 1954, n. 1041 (sulla "disciplina della produzione, del commercio e dell'impiego degli stupefacenti"), sollevata dall'ordinanza del tribunale di Roma in riferimento agli artt. 13 e 27 della Costituzione;

 

d) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 277, secondo comma, del codice di procedura penale, sollevata dal giudice istruttore del tribunale di Ascoli Piceno in riferimento agli artt. 13, 27 e 111 della Costituzione.

 

 

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 aprile 1970.

 

Giuseppe BRANCA  -  Michele FRAGALI  -  Costantino MORTATI  -  Giuseppe CHIARELLI  -  Giuseppe VERZÌ  -  Giovanni BATTISTA BENEDETTI  -  Francesco PAOLO BONIFACIO  -  Luigi OGGIONI  -  Angelo DE MARCO  -  Ercole ROCCHETTI  -  Enzo CAPALOZZA  -  Vincenzo MICHELE TRIMARCHI  -  Vezio CRISAFULLI  -  Nicola REALE  -  Paolo ROSSI

 

 

 

Depositata in cancelleria il 4 maggio 1970.