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GIAMPIETRO FERRI

 

LA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO E LE PROSPETTIVE DI RIFORMA*

 

Sommario: — 1. La responsabilità civile dei magistrati secondo il testo originario del vigente codice di procedura civile: le ipotesi di responsabilità per i giudici. — 2. (Segue): le ipotesi di responsabilità per i magistrati del pubblico ministero. — 3. (Segue): la condizione prevista per proporre la domanda volta all’accertamento della responsabilità: l’autorizzazione del Ministro della Giustizia. — 4. (Segue): i dubbi sulla legittimità costituzionale della disciplina normativa: in particolare, l’esclusione della responsabilità per colpa grave e l’irresponsabilità di fatto dei magistrati. — 5. La disciplina della responsabilità civile dei magistrati introdotta dalla legge n. 117/1988: l’azione diretta verso lo Stato e l’azione di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato. — 6. (Segue): il problema della mancata previsione dell’azione diretta contro il magistrato alla luce del referendum del 1987: considerazioni in merito alla volontà espressa dal corpo elettorale. — 7. (Segue): il vincolo costituzionale rappresentato dalla necessaria presenza di un «filtro» (l’azione verso lo Stato) a garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della funzione giurisdizionale. — 8. I progetti di legge di modifica della legge n. 117/1988: considerazioni critiche. — 9. La giurisprudenza della Corte di giustizia e il progetto di legge che prevede la responsabilità del magistrato per la violazione del diritto europeo nell’attività interpretativa e di valutazione del fatto e delle prove. — 10. Il disegno di legge governativo di riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione: l’esplicita previsione della responsabilità civile dei magistrati e l’equiparazione agli altri dipendenti dello Stato. — 11. Conclusioni.

 

1. La responsabilità civile dei magistrati secondo il testo originario del vigente codice di procedura civile: le ipotesi di responsabilità per i giudici

 

La responsabilità civile dei magistrati, per la peculiarità delle funzioni loro attribuite, è fin dalle origini dello Stato unitario sottoposta a un regime giuridico differenziato, che la limita in modo da garantire l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione[1].

Prima dell’entrata in vigore della legge che disciplina attualmente la materia — la n. 117 del 1988 —, la responsabilità civile dei magistrati era regolata dagli artt. 55, 56 e 74 c.p.c.[2].

In base all’art. 55, il giudice era responsabile per l’attività funzionale «soltanto» in due casi: 1) quando «è imputabile di dolo, frode o concussione»; 2) «quando, senza giusto motivo, si rifiuta, omette o ritarda di provvedere sulle domande o istanze delle parti e, in generale, di compiere un atto del suo ministero» (cosiddetta responsabilità per «denegata giustizia» o per «diniego di giustizia»)[3].

Mentre nel primo caso il giudice rispondeva solo per dolo, previsto come ipotesi distinta dalle altre ma presupposto dalla frode e dalla concussione[4], nel secondo caso avrebbe potuto rispondere — stando almeno all’opinione di una parte della dottrina — anche per colpa grave[5].

Tuttavia, va tenuto presente che, ai sensi dell’art. 55, comma 2, le «ipotesi previste nel numero 2» del comma 1 potevano «aversi per avverate solo quando la parte ha depositato in cancelleria istanza al giudice per ottenere il provvedimento o l’atto, e sono decorsi inutilmente dieci giorni dal deposito» (cosiddetta «messa in mora» o «diffida ad adempiere»). Tale previsione sembrerebbe restringere notevolmente la possibilità che il giudice possa rispondere per colpa[6]. Tanto che si è rilevato come, in realtà, anche nelle ipotesi di omissione, di ritardo e, a maggior ragione, di rifiuto i comportamenti sanzionabili finivano con l’essere solo quelli intenzionali[7].

Sebbene alcuni avessero inizialmente sostenuto che, mancando nel codice di procedura penale una norma corrispondente a quella del codice di procedura civile, la disciplina speciale della responsabilità dei giudici contenuta nell’art. 55 c.p.c. si riferiva soltanto a quelli svolgenti le funzioni civili[8], successivamente le divergenze interpretative erano state superate, diventando pacifico che detta disciplina, applicabile limitatamente agli atti lesivi di diritti soggettivi posti in essere nell’esercizio delle funzioni, si estendeva a tutti i giudici appartenenti all’ordine giudiziario, compresi quelli svolgenti le funzioni penali[9].

 

2. (Segue): le ipotesi di responsabilità per i magistrati del pubblico ministero

 

L’art. 74 stabiliva che le «norme sulla responsabilità del giudice […] si applicano anche ai magistrati del pubblico ministero che intervengono nel processo civile, quando nell’esercizio delle loro funzioni sono imputabili di dolo, frode o concussione».

La disposizione limitava, quindi, la responsabilità dei magistrati del p.m. rispetto a quella dei magistrati giudicanti sotto un duplice aspetto: il primo attinente all’àmbito processuale, riferendosi la responsabilità all’intervento nel processo civile; il secondo alle fattispecie di illecito, mancando il riferimento ai comportamenti omissivi di cui all’art. 55, numero 2[10].

Tuttavia, con riferimento al primo aspetto, avrebbe potuto trattarsi di una limitazione più apparente che reale, ove, anziché interpretare restrittivamente l’espressione «che intervengono nel processo civile», attribuendole il significato tecnico di «intervento in causa»[11], la si fosse interpretata, in senso ampio, come partecipazione al processo, anche in via d’azione: dunque, in modo tale che il magistrato del p.m. potesse essere considerato responsabile civilmente non solo quando interveniva nel processo civile, ma anche quando agiva tanto in sede civile quanto in sede penale[12].

Con riguardo al secondo aspetto, va ricordato che, se, da un lato, si era argomentato che, in mancanza del richiamo alle ipotesi di responsabilità previste dall’art. 55, numero 2, i magistrati del p.m. non potessero essere responsabili civilmente nell’eventualità di omissioni o di ritardi nel compimento di atti di competenza del loro ufficio[13], dall’altro lato, si era ritenuto che con lo strumento dell’interpretazione il problema della loro responsabilità potesse essere risolto in senso positivo[14].

Va, infine, ricordato che gli artt. 55 e 74 non prevedevano una responsabilità dello Stato per gli illeciti civili commessi dai magistrati nell’esercizio delle funzioni. Tuttavia, la Corte costituzionale aveva affermato che «il loro apparente silenzio, malgrado un diverso indirizzo interpretativo, non significa esclusione della responsabilità dello Stato», che non potrebbe mancare stante il disposto dell’art. 28 Cost.[15]. Lamentando un danno ingiusto causato dal comportamento di un magistrato, il soggetto interessato avrebbe pertanto potuto promuovere un’azione di risarcimento nei confronti dello Stato.

 

3. (Segue): la condizione prevista per proporre la domanda volta all’accertamento della responsabilità: l’autorizzazione del Ministro della Giustizia

 

La disciplina codicistica tutelava i magistrati non soltanto delimitando notevolmente l’area dell’illiceità, ma anche prevedendo un controllo preventivo sulle domande dirette ad accertarne la responsabilità: un «filtro» tendente ad impedire che i giudici e i magistrati del p.m. diventassero «bersaglio di quanti, per le ragioni più diverse», ritenevano di aver subìto un danno «dall’esercizio delle funzioni giurisdizionali»[16].

L’art. 56, comma 1, disponeva, infatti, che «la domanda per la dichiarazione di responsabilità del giudice non può essere proposta senza l’autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia» (oggi denominato «Ministro della giustizia»[17]).

In mancanza di indicazioni da parte della norma, si era ritenuto che l’autorizzazione implicasse un controllo riguardante «sia il merito che la legittimità formale della domanda di risarcimento del danno»: un controllo che comunque, in sostanza, avrebbe dovuto evitare che giungessero all’esame del giudice competente azioni manifestamente infondate.

Nel caso in cui l’autorizzazione fosse stata negata, il provvedimento ministeriale avrebbe potuto essere impugnato davanti al giudice amministrativo. Nel caso opposto, l’art. 56, comma 2, stabiliva che, a «richiesta della parte autorizzata», la «Corte di cassazione designa, con decreto emesso in camera di consiglio, il giudice che deve pronunciare sulla domanda».

Infine, il comma 3 introduceva un’eccezione alla regola dell’autorizzazione ministeriale, escludendo l’applicazione dei commi precedenti, nonché dell’art. 55, nei casi di costituzione di parte civile nel processo penale o di azione civile in séguito a condanna penale[18].

L’estensione — almeno in alcuni casi[19] — di queste norme ai magistrati del p.m. veniva assicurata dall’art. 74, che, oltre alle norme sulla responsabilità del giudice, prevedeva l’applicazione di quelle «sull’esercizio della relativa azione».

 

4. (Segue): i dubbi sulla legittimità costituzionale della disciplina normativa: in particolare, l’esclusione della responsabilità per colpa grave e l’irresponsabilità di fatto dei magistrati

 

In dottrina, si era sostenuto che le norme del codice, limitando eccessivamente la responsabilità civile del magistrato, ed in particolare escludendo la responsabilità per colpa grave, erano costituzionalmente illegittime[20].

Ciò, non per contrasto con l’art. 28 Cost., ma per violazione del principio di ragionevolezza, che s’inscrive — com’è noto — nell’eguaglianza (art. 3 Cost.) [21].

L’art. 28 Cost., affermando che i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione dei diritti, fissa un principio valevole per tutti coloro che «svolgano attività statale», compresi i magistrati: quello della responsabilità giuridica per gli atti compiuti nell’àmbito di tale attività[22]. Disponendo che tale responsabilità si esprime «secondo le leggi penali, civili e amministrative», esso consente però di limitarla[23]. Dunque, come ha affermato la Corte costituzionale nella sentenza n. 2/1968, la disciplina della responsabilità civile non deve essere necessariamente uniforme, ricalcata sull’art. 2043 c.c. o sui princìpi del d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 («Statuto degli impiegati civili dello Stato»)[24]. Sono compatibili con la Costituzione regimi «variamente» differenziati di responsabilità «per categorie o per situazioni»[25].

 Orbene, la peculiare funzione e posizione dei giudici giustificano una disciplina differenziata.

 Tuttavia, non esisterebbe «una plausibile ragione» per la differenziazione operata dall’art. 55 c.p.c., non comprendendosi «perché i giudici, diversamente dagli altri impiegati civili dello Stato, non rispondano nei casi di massima colposità» (si pensi, ad esempio, all’applicazione di una legge abrogata o dichiarata incostituzionale, alla mancata presa in considerazione di fatti decisivi pacifici tra le parti, ecc.)[26].

Proprio la mancata previsione della responsabilità per colpa era stata probabilmente la causa principale di una situazione di «impunità mascherata»[27], rappresentando le ipotesi di responsabilità previste dal codice uno «sbarramento» in grado di rendere «praticamente inutilizzabile» l’istituto della responsabilità civile[28].

I «magri frutti» che «possono essere ricavati da una ricerca giurisprudenziale» relativa al periodo in cui la materia era disciplinata dal codice vigente dimostrano «che la responsabilità civile» costituiva «un’ipotesi di scuola», essendo il magistrato «sostanzialmente irresponsabile nei confronti della parte»[29].

Tale situazione di irresponsabilità di fatto, che si protraeva dal tempo in cui vigeva il primo codice di procedura civile dell’Italia unita[30], aveva portato la dottrina a domandarsi se la disciplina della responsabilità civile non realizzasse proprio «quella clausola cautelativa usata dalla Corte costituzionale» quando, affermando che la «singolarità della funzione giurisdizionale, la natura dei provvedimenti giudiziali, la stessa posizione super partes del magistrato possono suggerire […] condizioni e limiti alla sua responsabilità; ma non sono tali da legittimarne, per ipotesi, una negazione totale»[31], ha sottolineato «l’esigenza costituzionale che la responsabilità non sia solo fittizia»[32].

A suggerire la presentazione di proposte di cambiamento della normativa sulla responsabilità civile dei magistrati avrebbero allora dovuto essere non solo ragioni di opportunità, ma anche ragioni di legittimità costituzionale.

Ciò, anche in considerazione dei dubbi di legittimità costituzionale che erano stati sollevati nei confronti dell’art. 56 c.p.c.: tanto in relazione al comma 1, ravvisandosi il contrasto della prevista autorizzazione a procedere del Ministro della Giustizia con il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti (art. 24 Cost.)[33], quanto in relazione al comma 2, apparendo la designazione del giudice da parte della Corte di cassazione in contrasto con la norma secondo cui il giudice deve essere precostituito per legge (art. 25, comma 1, Cost.)[34].

 

5. La disciplina della responsabilità civile dei magistrati introdotta dalla legge n. 117/1988: l’azione diretta verso lo Stato e l’azione di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato

 

È dalla situazione di irresponsabilità di fatto che aveva preso le mosse l’iniziativa referendaria mirante ad abrogare gli artt. 55, 56 e 74 c.p.c., con l’obiettivo di estendere «notevolmente le ipotesi di responsabilità» e di eliminare «filtri autorizzativi»[35].

L’esito positivo del referendum dell’8-9 novembre 1987 aveva imposto al Parlamento di intervenire per rinnovare la disciplina della materia[36].

La nuova disciplina introdotta dalla legge n. 117/1988 (comunemente nota come «legge Vassalli»[37]), recante «Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati», ha risposto alle attese dei promotori del referendum solo parzialmente perché, mentre sono stati ampliati i casi di responsabilità, è rimasto il «filtro», anche se si tratta di una forma di protezione diversa dalla precedente.

Infatti, al dolo e al «diniego di giustizia»[38], sostanzialmente corrispondenti ai casi di responsabilità di cui all’art. 55 c.p.c., è stata aggiunta la colpa grave. Non, però, come ipotesi generica, specificandosi che essa è costituita da: a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; b) l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; d) l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione (art. 2, comma 3).

Tuttavia, occorre tenere presente che le ipotesi di responsabilità previste dalla legge trovano un’importante limitazione nella norma (art. 2, comma 2) che esclude in ogni caso la responsabilità per l’attività di interpretazione di norme di diritto e per quella di valutazione del fatto e delle prove (cosiddetta «clausola di salvaguardia»[39]).

L’autorizzazione del Ministro è stata eliminata, ma il soggetto danneggiato — fatta eccezione per il caso in cui il danno sia derivato da un fatto che costituisce reato (art. 13)[40] — non può agire contro il magistrato. È, infatti, previsto che chi abbia subìto un danno ingiusto per un «comportamento» o un «atto» o un «provvedimento giudiziario» posto in essere da qualunque magistrato — ordinario o speciale (art. 1) — «può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale» (art. 2, comma 1).

L’azione di risarcimento del danno contro lo Stato la quale va esercitata nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 4) — rappresenta in sé un «filtro».

Ma vi è anche il «filtro endoprocessuale»[41] costituito dal giudizio di ammissibilità (art. 5): un «meccanismo di deterrenza a monte contro azioni temerarie, artificiose, fittizie, di mera turbativa»[42]. Il tribunale competente a pronunciarsi sull’azione risarcitoria contro lo Stato dichiara, infatti, inammissibile la domanda «quando non sono stati rispettati i termini o i presupposti indicati dagli articoli 2, 3 e 4 ovvero quando è manifestamente infondata».

Al fine di evitare che l’azione risarcitoria si trasformi in un improprio mezzo di impugnazione, essa non può essere esercitata in qualunque momento successivo al verificarsi del fatto contestato. Bisogna attendere che siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque che non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, che sia esaurito il grado del procedimento nell’àmbito del quale il fatto si è verificato (art. 4).

La responsabilità del magistrato è assicurata dalla previsione che lo Stato, entro un anno dal risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o stragiudiziale stipulato dopo la dichiarazione di ammissibilità della domanda, esercita l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato (art. 7).

La responsabilità si manifesta non solo sul piano civilistico, ma anche su quello disciplinare, essendo previsto che il titolare dell’azione disciplinare debba esercitare detta azione «per i fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento» (art. 9).

 

6. (Segue): il problema della mancata previsione dell’azione diretta contro il magistrato alla luce del referendum del 1987: considerazioni in merito alla volontà espressa dal corpo elettorale

 

La mancata previsione di un’azione diretta, «senza filtri», verso il magistrato aveva suscitato reazioni assai critiche da parte di alcuni promotori del referendum (in particolare, della componente del comitato espressione del Partito radicale), i quali avevano accusato il Parlamento di avere tradito la volontà popolare, che si era espressa in modo molto chiaro, affermando il principio per cui i magistrati che sbagliano devono rispondere direttamente dei danni causati dai loro errori.

Tuttavia, altro è affermare che il corpo elettorale, con l’abrogazione delle norme del codice, ha manifestato un’insoddisfazione per la situazione esistente, indirizzando implicitamente l’organo rappresentativo verso l’approvazione di una legge che renda i magistrati più responsabili, altro è sostenere che il corpo elettorale ha espresso la preferenza per la responsabilità diretta «senza filtri».

Il punto è che il referendum abrogativo, mentre permette all’elettore di pronunciarsi sulla permanenza in vigore di una legge (o di una parte di essa), non gli consente di motivare la sua scelta e, quindi, implicitamente, di votare per una soluzione alternativa.

Nel caso specifico, l’elettore avrebbe potuto pronunciarsi a favore dell’abrogazione essendo favorevole alla responsabilità diretta del magistrato, senza il «filtro» dell’autorizzazione ministeriale, ma anche essendo favorevole ad una responsabilità «indiretta» che, tutelando l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, si traduca in una concreta forma di responsabilità per il magistrato che sbaglia[43].

Il fatto stesso che i partiti che si erano pronunciati per il «sì» abbiano dato diverse motivazioni alla loro posizione[44] dimostra quanto sia arbitrario attribuire all’atto risultante dal referendum il significato di un voto popolare favorevole ad una precisa soluzione legislativa, che, oltre a tutto, nella circostanza non è stata neppure prospettata dal comitato promotore[45].

 

7. (Segue): il vincolo costituzionale rappresentato dalla necessaria presenza di un «filtro» (l’azione verso lo Stato) a garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della funzione giurisdizionale

 

Un altro aspetto da considerare è quello dei limiti che incontra il legislatore nella disciplina della materia.

 La giurisprudenza costituzionale, nell’esigere che i magistrati non siano sottratti alla responsabilità giuridica per gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni istituzionali, ha posto dei vincoli al legislatore ordinario. In particolare, nella sentenza con la quale ha dichiarato ammissibile il referendum, la Corte costituzionale ha stabilito che nella disciplina della responsabilità civile dei magistrati sono consentite scelte «plurime» ma non «illimitate», «in quanto la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità», «specie in considerazione dei disposti appositamente dettati per la Magistratura (art. 101 e 113), a tutela della sua indipendenza e dell’autonomia delle sue funzioni»[46]: parole dalle quali poteva evincersi che la mancata previsione di un «filtro», privando il singolo magistrato di uno strumento che è fondamentale per la tutela della sua indipendenza, avrebbe posto per la nuova legislazione un problema di compatibilità con la Costituzione[47].

Se ne avrà la conferma quando la Corte, pronunciandosi su una serie di questioni di legittimità riguardanti la legge n. 117/1988, affermerà che, «facendo corretta applicazione» dei princìpi fissati dalla giurisprudenza costituzionale, essa ha «riferito la responsabilità diretta del giudice alla sola ipotesi di danni derivanti da fatti costituenti reato»[48]. Di regola dovrebbe quindi operare il meccanismo della «responsabilità indiretta verso lo Stato»[49].

In conclusione, non essendo possibile affermare che gli elettori si sono espressi a favore dell’azione diretta verso il magistrato, non si può sostenere che la previsione dell’azione nei confronti dello Stato si pone in contrasto con la volontà popolare espressa nel referendum del 1987, e dunque non sembra possano prospettarsi sotto tale profilo eventuali dubbi di legittimità costituzionale[50].

Ai fini della valutazione del comportamento del legislatore dal punto di vista considerato, è comunque decisiva la considerazione che la disciplina della responsabilità dei magistrati deve essere rispettosa della Costituzione, la quale impone — secondo la Corte costituzionale — la presenza del «filtro» rappresentato dall’azione contro lo Stato a garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza degli stessi magistrati.

 

8. I progetti di legge di modifica della legge n. 117/1988: considerazioni critiche

 

è affermazione diffusa[51] — ma non confermata dai dati più recenti[52] — che nell’attuale ordinamento i magistrati sono di fatto irresponsabili per gli illeciti civili.

Di fronte a risultati giudicati insoddisfacenti, sono stati presentati numerosi progetti di legge per modificare la legge n. 117/1988, che sembrano voler rafforzare la responsabilità personale.

Le modifiche proposte riguardano due aspetti fondamentali: quello procedurale e quello sostanziale.

In relazione al primo, va detto che la maggior parte dei progetti mira a sostituire il meccanismo dell’azione diretta contro lo Stato e della successiva azione di rivalsa dello Stato contro il magistrato con l’azione diretta nei confronti del magistrato, eliminando anche l’altro «filtro» rappresentato dal giudizio di ammissibilità[53], e così creando una responsabilità diretta «senza filtri» per i magistrati, che non è però compatibile con i vincoli posti dalla giurisprudenza costituzionale.

La Corte costituzionale, infatti, oltre a esigere che vi sia il «filtro» della «responsabilità indiretta» del magistrato nei confronti dello Stato, ha riconosciuto il «rilievo costituzionale» del giudizio di ammissibilità quale «meccanismo di “filtro” della domanda giudiziale, diretta a far valere la responsabilità civile del giudice, perché un controllo preliminare della non manifesta infondatezza della domanda, portando ad escludere azioni temerarie e intimidatorie, garantisce la protezione dei valori di indipendenza e di autonomia della funzione giurisdizionale»[54].

In relazione al secondo aspetto, alcuni progetti di legge mirano ad estendere la responsabilità per colpa: o mediante l’abrogazione delle norme che specificano i casi di «colpa grave»[55], la quale verrebbe in tal modo dilatata, o addirittura prevedendo che i magistrati rispondano anche per colpa lieve[56]: un ampliamento della responsabilità che appare eccessivo e che, esponendo facilmente il magistrato a reazioni improprie delle parti, non sembra compatibile con l’esigenza di tutelare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Considerazione che vale anche, a maggior ragione, per la soppressione — che è prevista da qualche progetto — della norma che esclude la responsabilità del magistrato per l’attività di interpretazione del diritto e di valutazione del fatto e delle prove[57], la cui presenza sembra essere richiesta dalla Corte costituzionale quale strumento necessario a garantire l’imparzialità del giudice[58].

Vanno, poi, segnalate altre proposte innovative, sempre tendenti a responsabilizzare maggiormente i magistrati. Quella della cancellazione dei limiti al risarcimento previsti dalla legge[59], che, all’art. 8 comma 3, stabilisce che la «misura della rivalsa» non può superare una somma pari al terzo di un’annualità dello stipendio (limite non applicabile se il fatto è commesso con dolo, anche se si tratta di un’eccezione assai poco significativa, perché è molto improbabile che i magistrati vengano chiamati a rispondere per dolo). Quella del divieto — che suscita non pochi dubbi di legittimità costituzionale — di contrarre polizze assicurative per la responsabilità civile[60].

In conclusione, senza poter qui esaminare nel dettaglio ciascuno di essi, sembra di poter dire che si tratta di progetti di legge i quali, proponendo per lo più modifiche che contrastano palesemente con i vincoli posti dalla Corte costituzionale, o che sollevano forti dubbi di legittimità costituzionale, non possono offrire valide prospettive di cambiamento. Anzi, proprio il fatto che, per come sono strutturati, non abbiano concrete possibilità di trasformarsi in legge — come dimostra ampiamente l’esperienza — legittima l’impressione che i progetti di legge non siano stati presentati per dare avvio al procedimento legislativo, ma costituiscano uno strumento di cui la rappresentanza politica si serve per altri scopi, volendo probabilmente far vedere che si fa carico di un problema che è avvertito dall’opinione pubblica oppure dimostrare di avere una capacità di reazione di fronte a provvedimenti giudiziari percepiti come avversi, mandando segnali «minacciosi» ai magistrati «scomodi»[61].

 

9. La giurisprudenza della Corte di giustizia e il progetto di legge che prevede la responsabilità del magistrato per la violazione del diritto europeo nell’attività interpretativa e di valutazione del fatto e delle prove

 

Se, come si è visto, a stimolare la presentazione delle suddette proposte di cambiamento della legge n. 117/1988 sono stati fattori tutti interni allo Stato italiano, a suggerire la presentazione di uno degli ultimi progetti di legge depositati è un altro fattore, di provenienza esterna: la giurisprudenza comunitaria[62].

Occorre sùbito evidenziare che la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea che qui interessa non è intervenuta direttamente sulle modalità con cui la legge italiana disciplina la responsabilità civile dei magistrati.

Tuttavia, stabilendo che lo Stato italiano — quale Stato membro dell’Unione europea — deve rispondere per i danni arrecati ai singoli dalla violazione del diritto comunitario commessa da un giudice nazionale, la sentenza Traghetti del Mediterraneo Spa del 2006[63] potrebbe porre, indirettamente, un problema per la normativa interna sulla responsabilità civile dei magistrati[64], posto che essa esenterebbe il magistrato dal rispondere quando lo Stato è invece tenuto a risarcire il danno proprio per l’errore del magistrato. Anche se è opportuno ricordare che, fermo restando il principio secondo il quale, in base all’art. 28 Cost., lo Stato deve rispondere necessariamente ove debba rispondere il giudice, «quanto alle altre violazioni di diritti soggettivi, cagionate dal giudice fuori delle ipotesi in cui egli debba rispondere, il diritto al risarcimento nei riguardi dello Stato non trova garanzia nel precetto costituzionale, ma può derivare da princìpi generali dell’ordinamento o da una specifica legge ordinaria»[65].

Nel definire una questione pregiudiziale promossa dal Tribunale di Genova, chiamato a decidere una controversia sollevata dal curatore fallimentare della società «Traghetti del Mediterraneo» nei confronti dello Stato italiano per la condanna al risarcimento del danno subìto a causa degli errori di interpretazione commessi dalla Corte di cassazione[66] e a causa della violazione dell’obbligo di rinvio su di essa gravante, la Corte di giustizia ha affermato in particolare che il diritto comunitario «osta ad una legislazione nazionale» che: a) escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a séguito di una violazione del diritto comunitario imputabile ad un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operata da tale organo giurisdizionale»; b) «limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente», per l’accertamento della quale — secondo quanto previsto dalla sentenza Köbler del 2003[67] — il giudice nazionale investito della domanda di risarcimento dei danni deve tenere conto in particolare del grado di chiarezza e di precisione della norma violata, del carattere intenzionale della violazione, della scusabilità o inescusabilità dell’errore, della posizione adottata eventualmente da un’istituzione comunitaria nonché della mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale di cui trattasi, dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, terzo comma, CE[68]. In ogni caso — sempre secondo la sentenza Köbler — una violazione del diritto comunitario «è sufficientemente caratterizzata allorché la decisione è intervenuta ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in questa materia»[69].

Sarebbe, quindi, evidente, secondo i sottoscrittori della proposta di legge recante «Modifiche all’articolo 2 della legge 13 aprile 1988, n. 117», presentata il 2 marzo 2011[70], la «riscrittura» di tale articolo operata dalla Corte di giustizia: con l’introduzione, per i giudici di ultimo grado, della specifica ipotesi di responsabilità derivante dall’omesso adempimento dell’obbligo di rinvio su di essi gravante ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e, per tutti i giudici, relativamente all’applicazione del solo diritto dell’Unione europea, della responsabilità derivante dall’attività interpretativa, nonché da attività di valutazione del fatto e delle prove, non più limitata ai casi di dolo o colpa grave (come definiti dall’art. 2), ma soggetta alla sussistenza di tre condizioni: a) che la norma giuridica violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli; b) che si tratti di violazione grave e manifesta (tenuto conto degli elementi sopra indicati); c) che esista un nesso causale diretto tra la violazione dell’obbligo incombente allo Stato e il danno subìto dai soggetti lesi.

Da tale operazione deriverebbe una norma «palesemente asimmetrica»: un’identica attività, infatti, può essere o meno causatrice di responsabilità civile a seconda della natura (statale o europea) della norma da applicarsi.

Sarebbe perciò necessario riformulare l’art. 2 della legge n. 117/1988, inserendo esplicitamente la «riscrittura» operata dalla Corte di giustizia e parificando le ipotesi di responsabilità, a prescindere dalla provenienza della normativa che il giudice dovrà applicare.

Di qui la proposta di eccettuare dalla regola per cui i magistrati non rispondono dell’attività di interpretazione di norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove il caso di «manifesta violazione della legge o del diritto dell’Unione europea»; di aggiungere, poi, che, al fine «di determinare se vi sia stata manifesta violazione della legge, sono considerati tutti gli elementi rilevanti per l’attività interpretativa o valutativa […] e, in ogni caso, il grado di chiarezza e precisione delle disposizioni violate, il carattere intenzionale della violazione, l’inescusabilità dell’errore di diritto»; infine, di prevedere che, al fine di determinare se vi sia stata manifesta violazione del diritto dell’Unione europea, sono considerate «l’eventuale esistenza di una posizione adottata da una istituzione comunitaria e l’eventuale inosservanza, da parte del magistrato, dell’obbligo di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia» ai sensi dell’art. 267, comma 3, del «Trattato sul funzionamento dell’Unione europea».

Tuttavia, non sembra si possa affermare che la giurisprudenza comunitaria ha compiuto una «riscrittura» della legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati, quanto meno nel senso che essa non ha comportato modifiche al vigente regime di responsabilità dei magistrati e non ha imposto neppure che siano apportate modifiche ad esso[71].

Posto che lo Stato è chiamato a risarcire il danno per violazione del diritto comunitario, nei termini indicati dalla Corte di giustizia, è però normale porsi il problema della responsabilità del dipendente dello Stato che ha causato il danno, e quindi dell’adeguatezza di una disciplina normativa che non consentisse di dichiarare la sua responsabilità civile.

Senza poter qui approfondire la questione, non sembra comunque si possa trascurare il fatto che la legislazione attuale, prevedendo una responsabilità del magistrato a titolo di colpa grave nel caso di «grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile»[72], può consentire di sanzionare, pur in presenza della «clausola di salvaguardia», il comportamento del magistrato che si configurasse come una manifesta violazione del diritto comunitario.

 

10. Il disegno di legge governativo di riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione: l’esplicita previsione della responsabilità civile dei magistrati e l’equiparazione agli altri dipendenti dello Stato

 

Poiché la giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto che l’art. 28 Cost. si applica anche ai magistrati e che la responsabilità per gli illeciti da loro commessi nell’esercizio delle funzioni istituzionali si estende allo Stato[73], non si vede la ragione per la quale si dovrebbe inserire nella Costituzione una norma che esplicitasse che i magistrati sono responsabili degli atti lesivi dei diritti e che disponesse l’estensione di tale responsabilità allo Stato.

Tuttavia, il disegno di legge governativo recante «Riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione» presentato il 7 aprile 2011 prevede, nell’àmbito della II sezione-bis intitolata «Responsabilità dei magistrati», che i «magistrati sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione dei diritti» (art. 113-bis, comma 1) e che la «responsabilità si estende allo Stato» (art. 113-bis, comma 3)[74].

La prima previsione è però completata da un’indicazione che non dovrebbe rendere priva di significato la «novità», spiegando il senso dell’intervento legislativo: quella secondo cui i magistrati sono responsabili «al pari degli altri funzionari e dipendenti dello Stato», ossia — come suggerito dalla Relazione introduttiva al disegno di legge — «alle stesse identiche condizioni»[75].

Il disegno di legge costituzionale prevede, dunque, come illustra la Relazione, «un’unica disciplina comune per tutti gli impiegati civili dello Stato», che attualmente non sussiste perché, al di là della speciale disciplina valevole per i magistrati, la legislazione ordinaria contempla, non senza ragionevole motivo, un trattamento differenziato per alcuni di essi[76]. Si recepirebbe così — prosegue la Relazione — un principio «già desumibile» dagli artt. 28 e 98 Cost., «che pongono sullo stesso piano gli impiegati pubblici, tra i quali i magistrati», come ha «stabilito in via interpretativa» la Corte costituzionale nella sentenza n. 2/1968[77].

Tuttavia, quanto all’art. 28 Cost., la Corte ha affermato che vi sono specifiche esigenze costituzionali che giustificano, e anzi impongono, un trattamento particolare per i magistrati[78], sicché l’applicazione ai magistrati della normativa generale che attualmente regola la responsabilità dei pubblici impiegati, non circoscrivendo i presupposti della colpa grave e non prevedendo «filtri»[79], metterebbe a rischio l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, che non solo sono valori costituzionalmente tutelati ma rappresentano probabilmente dei princìpi supremi. Al legislatore ordinario — al quale, secondo la Relazione, la normativa costituzionale riconoscerebbe ampi margini di «discrezionalità» in merito alle «scelte sulla concreta disciplina da adottare»[80] — non resterebbe allora che estendere agli altri pubblici dipendenti le particolari garanzie previste per i magistrati: una soluzione che non sembra però ragionevole e forse non risulterebbe neppure compatibile con l’art. 28 Cost.

La previsione, contenuta nell’art. 113-bis, comma 2, che la «legge disciplina espressamente la responsabilità civile dei magistrati per i casi di ingiusta detenzione e di altra indebita limitazione della libertà personale» sta a significare — secondo la Relazione — che detti casi devono essere regolati «con norme specifiche»[81]. Ciò in considerazione dell’importanza di tale libertà, che «si colloca al vertice dei valori riconosciuti» dalla Costituzione[82].

Il fatto che la norma costituzionale richieda un intervento attuativo del legislatore ordinario, al quale non sono posti vincoli riguardo al contenuto delle «norme specifiche», induce però a pensare che essa abbia più un valore «simbolico» che una reale portata innovativa.

 

11. Conclusioni

 

Poiché a giudizio di molti l’esperienza applicativa della legge n. 117/1988 non è stata positiva, si potrebbe pensare a qualche modifica.

Bisogna, però, tener conto del fatto che, alla luce della giurisprudenza costituzionale, i margini di intervento del legislatore sono ristretti, dovendo il principio di responsabilità del magistrato coniugarsi con quello della sua indipendenza, il quale impone che l’azione di risarcimento del danno venga esercitata nei confronti dello Stato, che vi sia un controllo preliminare della non manifesta infondatezza della domanda e che al giudice sia garantita l’autonomia nell’interpretazione delle norme di diritto e nella valutazione dei fatti e delle prove[83].

Non potendosi, dunque, eliminare il giudizio di ammissibilità, che dovrebbe essere mantenuto non solo perché è la Corte costituzionale a richiederlo ma anche per ragioni di opportunità[84], si potrebbe forse ragionare sull’ipotesi di una sua diversa disciplina, al fine di rendere meno difficoltosa l’azione intrapresa dal danneggiato, che non trova tuttavia nella normativa che regola attualmente detto giudizio una barriera invalicabile[85].

Nello stesso modo non può dirsi che rappresenti un impedimento la definizione legislativa di «colpa grave». Se è vero, infatti, che essa impedisce un’estensione della responsabilità che potrebbe avere conseguenze negative sul funzionamento della giustizia (il conformismo giurisprudenziale, la minore tutela dei soggetti deboli, ecc.)[86], è altrettanto vero che non preclude la possibilità di sanzionare comportamenti veramente gravi dei magistrati.

Non sembra, quindi, si possa sostenere — tanto più alla luce di recenti dati che attesterebbero un aumento non trascurabile delle decisioni di accoglimento delle domande di risarcimento[87] — che la disciplina legislativa, essendo «congegnata in modo da rendere praticamente impossibile o quasi la sua applicazione», non è conforme al canone della ragionevolezza[88].

 Il problema non sarebbe allora tanto quello della disciplina procedurale e sostanziale contenuta nella legge — che, nel difficile tentativo di contemperare il principio di responsabilità con quello di indipendenza dei magistrati, tutelando il danneggiato, ha adottato una soluzione che non appare squilibrata[89] —, quanto piuttosto quello del giudice che deve decidere sulla responsabilità dei magistrati, il quale non dovrebbe appartenere alla stessa categoria, ma dovrebbe essere un soggetto «esterno» o, comunque, un organo collegiale in cui la componente «togata» non sia maggioritaria[90].

Ora, se si può convenire sul fatto che un organo esterno alla magistratura, che dovrebbe essere in ogni caso composto in modo che sia assicurata la sua indipendenza dal potere politico, proprio per la sua «terzietà» garantirebbe di più il danneggiato[91], ci si può forse domandare se la difficoltà di accertare in concreto la responsabilità civile del magistrato non sia dovuta ai limiti che ha in sé lo strumento, tenendo conto soprattutto che deve essere salvaguardata la «libertà» interpretativa e di valutazione dei fatti e delle prove e che contro i provvedimenti giudiziari sono previsti dall’ordinamento appositi rimedi di natura processuale.

Il fatto stesso che anche negli ordinamenti stranieri l’accertamento della responsabilità civile del magistrato, quando essa sia prevista, rappresenti un evento raro[92], dimostrerebbe come vi siano delle limitazioni «connaturate» allo stesso istituto, che possono spiegare almeno in parte perché non siano stati molti i casi in cui i magistrati italiani sono stati dichiarati responsabili.

Posto che non può non valere anche per il magistrato il principio di responsabilità, e che, in presenza dell’art. 28 Cost., una qualche forma di responsabilità civile non può non essere prevista dall’ordinamento, occorre quindi chiedersi se la sede più appropriata per accertare la responsabilità non sia un’altra: quella disciplinare[93], che opera su un piano diverso, ma può punire condotte scorrette che hanno avuto effetti negativi sui cittadini[94]. Anche in tal caso si porrebbe, però, il problema, da tempo discusso nell’àmbito scientifico e politico, del giudice che deve decidere, non ritenendosi che la Sezione disciplinare del CSM, per la sua composizione, caratterizzata dalla prevalenza dei «togati» sui «laici», sia idonea a garantire nel migliore dei modi il corretto funzionamento della giustizia disciplinare. Ma non si può sottacere che, dopo un periodo in cui ha mostrato di risentire eccessivamente delle spinte corporative, la giustizia disciplinare ha funzionato nel complesso in modo positivo[95].

Tuttavia, ai fini della migliore tutela dei diritti dell’individuo, sarebbe prima di tutto necessaria un’efficace azione «di prevenzione» (si pensi, ad esempio, all’applicazione rigorosa da parte del CSM delle norme sulla valutazione professionale dei magistrati).

Non va, infine, trascurata l’importanza dell’istituto della riparazione per le vittime degli errori giudiziari (art. 24, comma 4, Cost.), che, se è estraneo all’argomento della responsabilità del magistrato, dal momento che non presuppone una responsabilità nell’esercizio della funzione giurisdizionale (e appunto perciò non comporta una commisurazione della riparazione all’entità del danno), disciplinato con norme adeguate, può costituire uno strumento a sostegno del danneggiato e, in particolare, di chi abbia subìto un’ingiusta detenzione.

 

 



(*) Il presente contributo è destinato agli Scritti in memoria di Alessandra Concaro. Una versione più estesa è in corso di pubblicazione presso la rivista Diritto e Società.

[1] Secondo l’art. 783 del codice di procedura civile del 1865, le «Autorità giudiziarie e gli ufficiali del ministero pubblico sono civilmente responsabili:

1°. Quando nell’esercizio delle loro funzioni siano imputabili di dolo, frode, o concussione;

2°. Quando rifiutino di provvedere sulle domande delle parti, o tralascino di giudicare o conchiudere sopra affari che si trovino in istato di essere decisi;

3°. Negli altri casi dichiarati dalla legge».

Ai sensi dell’art. 784, affinché «possa aver luogo l’azione civile nel caso di cui al . 2°» dell’art. 783 «è necessario che la parte abbia fatto due istanze», ad un «intervallo» minimo di tempo (5 o 10 giorni, a seconda dei casi), «all’autorità giudiziaria o all’ufficiale del ministero pubblico».

Va precisato che, non essendo contemplati dalla legge altri casi, la responsabilità era limitata alle ipotesi previste dal codice.

Era previsto un «filtro», posto che occorreva l’autorizzazione dell’azione civile da parte della «corte cui spetta di giudicarne» (art. 786).

Si riteneva che i magistrati potessero rispondere civilmente solo per dolo, ma ciò che va evidenziato è che l’istituto della responsabilità civile era quasi del tutto privo di rilevanza pratica (cfr. A. Giuliani, N. Picardi, La responsabilità del giudice, Milano 1995, 125 s.).

[2] Sulla disciplina della responsabilità civile dei magistrati contenuta nel testo originario del c.p.c. approvato con il r.d. 28 ottobre 1940 n. 1443, cfr., nell’àmbito degli studi monografici dedicati al tema, V. Vigoriti, Le responsabilità del giudice, Bologna 1984, 34 ss.; L. Scotti, La responsabilità civile dei magistrati, Milano 1988, 35 ss.; A. Giuliani, N. Picardi, La responsabilità, cit., 139 ss.

[3] La formulazione dell’art. 55 c.p.c. ricalcava, dunque, sostanzialmente quella dell’art. 783 del codice precedente (v. nota 1). Il fatto che la norma del codice del 1865 fosse formalmente aperta a ulteriori ipotesi di responsabilità spiega probabilmente perché nel codice del 1940 si fosse voluto precisare che la responsabilità opera «soltanto» nei casi indicati all’art. 55.

[4] Per tale ragione tutte e tre le figure previste dall’art. 55, punto 1, c.p.c. venivano «assommate nel dolo» (cfr. L. Scotti, La responsabilità, cit., 39), individuato nella violazione cosciente di un dovere d’ufficio, auspicandosi «l’abbandono» della «tripartizione accademica» e la lineare configurazione della responsabilità per ogni danno ingiusto dolosamente cagionato dal giudice» (E. Fassone, Il giudice tra indipendenza e responsabilità, in Riv. it. dir. proc. pen. 1980, 14). Si riteneva anche, in dottrina, che, oltre ad essere di natura dolosa, il comportamento del giudice avrebbe dovuto configurarsi come penalmente illecito, non spiegandosi altrimenti la presenza della parola «imputabile» (cfr., tra gli altri, S. Costa, Responsabilità del giudice, dei suoi ausiliari e del p.m., in Nss. Dig. It., XV, Torino 1968, 703). In definitiva, avrebbe potuto essere considerato responsabile civilmente il giudice che avesse commesso un reato doloso.

Tuttavia, questo non era l’orientamento di tutta la letteratura giuridica. Una parte riteneva infatti che il dolo consistesse nella intenzione di arrecare danno alla parte con un provvedimento ingiusto. Poiché tale requisito non sempre si riscontra nella frode e nella concussione, si argomentava che il dolo non poteva assorbire tutte le ipotesi dell’art. 55, punto 1, giustificandosi così l’esplicita previsione delle ipotesi di frode (comprensiva di tutti i casi di macchinazione comunque preordinata a imprimere artatamente un certo corso al giudizio) e concussione (cfr. T. Segrè, sub art. 55, in Commentario al Codice di procedura civile diretto da E. Allorio, I, Torino 1973, 655 s. e, in senso conforme, A.M. Sandulli, Atti del giudice e responsabilità civile, in Scritti in onore di S. Pugliatti, III, Milano 1978, 1293 s.).

[5] Nel senso che la responsabilità potesse essere attribuita per colpa, cfr., ad es., G. De Stefano, Riflessioni sulla responsabilità del giudice, in Scritti Pugliatti, III, cit., 549; A.M. Sandulli, Atti, cit., 1302; T. Segrè, art. 55, cit., 653.

[6] Secondo V. Vigoriti, voce Responsabilità del giudice, I, Responsabilità del giudice, dei suoi ausiliari, del p.m., in Enc. Giur., XXVI, Roma 1991, 3, «i requisiti della diffida e del termine dilatorio appaiono dettati proprio per evitare l’insorgere di responsabilità per fatti colposi».

[7] Tuttavia, si trattava di «figure inoperanti nella pratica», sia perché è «difficilissimo che una parte osi mettere in mora il suo giudice quando questi non ha ancora pronunciato la decisione definitiva», sia perché l’omissione del giudice «non può mai essere “indebita”, e perciò generatrice di responsabilità civile, quando sia motivata sul piano tecnico, per cui basterà al giudice» replicare «alla messa in mora con il sostegno di un qualsiasi argomento di natura giuridica, ed automaticamente la omissione ed il ritardo si convertiranno in rifiuto, e questo costituirà a sua volta un provvedimento giudiziario, tutt’al più passibile di impugnazione e di riforma, ma non di responsabilità per danni». Così E. Fassone, Il giudice, cit., 7. Di ipotesi suscettibili di ampie applicazioni parla invece G. Giacobbe, Quale responsabilità del magistrato?, in Dir. soc. 1981, 187. Sulle implicazioni negative della «messa in mora», cfr. anche N. Trocker, La responsabilità del giudice, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1982, 1314.

[8] Per indicazioni, cfr. V. Vigoriti, Responsabilità, cit., 3.

[9] V. Vigoriti, Le responsabilità, cit., 35 s.

[10] Si esprimono criticamente nei confronti della scelta del legislatore G. Volpe, Diritti, doveri e responsabilità dei magistrati, in L’ordinamento giudiziario, a cura di A. Pizzorusso, Bologna 1974, 444-5; M. Pivetti, A. Rossi, I referendum sulla giustizia, in Q. giust. 1986, n. 1, 9; L. Scotti, La responsabilità, cit., 88.

[11] Per questa lettura interpretativa, cfr., tra gli altri, V. Vigoriti, Le responsabilità, cit., 106 s., il quale precisa che «l’applicabilità dell’art. 55, n. 1», avrebbe dovuto essere limitata «solo» alle ipotesi di «intervento facoltativo nel processo civile».

[12] Indicazioni in L. Scotti, La responsabilità, cit., 42.

[13] Cfr., tra gli altri, S. Satta, sub art. 74, in Commentario al codice di procedura civile, I, Milano 1959, 248.

[14] Cfr., tra gli altri, F. Carnelutti, Istituzioni del processo civile italiano, I, Roma 1956, 190.

[15] Il quale, «dicendo responsabili della violazione di diritti soggettivi tanto i “funzionari” e i “dipendenti” quanto lo Stato, ha ad oggetto l’attività, oltre che degli uffici amministrativi, di quelli giudiziari». Se, in ipotesi, gli artt. 55 e 74 c.p.c. «nei riguardi dello Stato non accordassero mai al terzo l’azione di risarcimento, violerebbero sicuramente l’art. 28». Ma essi non «contengono un precetto che escluda del tutto la responsabilità dello Stato»: nella loro formulazione dovrà dunque leggersi, in conformità alla norma costituzionale, «la responsabilità dello Stato per gli atti e le omissioni di cui risponde il giudice nell’esercizio del suo ministero». Così la sent. Corte cost. n. 2/1968, punti 1 e 2 del Cons. in dir.

[16] V. Vigoriti, Le responsabilità, cit., 42.

[17] Il cambio di denominazione è stato disposto dall’art. 16 del d. lgs. n. 300/1999.

[18] V. Vigoriti, Le responsabilità, cit., 44.

[19] V. supra, § 2.

[20] Cfr. F. Lunari, Appunti per uno studio sulla responsabilità civile del giudice per colpa, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1977, 1722; A.M. Sandulli, Atti, cit., 1292 s. e 1310.

[21] A.M. Sandulli, Atti, cit., 1292 s. Il contrasto con l’art. 28 è negato anche da F. Carnelutti, Istituzioni, cit., 183.

[22] Cfr. la sent. Corte cost. n. 2/1968, cit., punto 1 del Cons. in dir.

[23] A.M. Sandulli, Atti, cit., 1292.

[24] G. Zagrebelsky, La responsabilità del magistrato nell’attuale ordinamento, in Giur. cost. 1982, I, 789.

[25] Sent. n. 2/1968, cit., punto 1 del Cons. in dir.

[26] Così A.M. Sandulli, Atti, cit., 1293.

[27] E. Fassone, Il giudice, cit., 6.

[28] Ibidem.

[29] A. Giuliani, N. Picardi, La responsabilità, cit., 153 e N. Trocker, La responsabilità, cit., 1314. V. anche V. Varano, voce Responsabilità del magistrato, in Dig. disc. priv., sez. civ., XVII, Torino 1998, 113.

[30] V. la nota 1.

[31] Che «violerebbe apertamente quel principio o peccherebbe di irragionevolezza sia di per sé» sia nel confronto con l’imputabilità dei “pubblici impiegati”» (sent. n. 2/1968, cit., punto 1 del Cons. in dir.).

[32] G. Zagrebelsky, La responsabilità, cit., 789.

[33] Cfr., ad es., G. Zagrebelsky, La responsabilità, cit., 790.

[34] V. Vigoriti, Le responsabilità, cit., 43. V. anche A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli 2006, 288.

[35] V. Grevi, Per i magistrati è in gioco l’autonomia, in Il Sole-24 Ore, 8 novembre 1987.

[36] L’intervento del Parlamento sarebbe potuto avvenire prima dello svolgimento del referendum, e si era da più parti auspicata l’approvazione di una legge prima del voto popolare, nella consapevolezza che l’eventuale abrogazione referendaria non avrebbe potuto risolvere definitivamente il problema, richiedendo un successivo intervento parlamentare.

 Verrebbe, dunque, da chiedersi perché il Parlamento non sia intervenuto preventivamente. Il fatto è che la soluzione in sede parlamentare, ricercata dal partito di maggioranza relativa (la D.C.), era stata rifiutata dai partiti di governo (il P.L.I. e il P.S.I.) che — fatto non poco anomalo — avevano promosso il referendum, ponendo poi come condizione per la ricomposizione della maggioranza governativa all’indomani delle elezioni politiche anticipate lo svolgimento entro breve tempo della consultazione popolare, in deroga alla legislazione vigente. Un comportamento, quello dei liberali e dei socialisti, che potrebbe forse spiegarsi ipotizzando che l’esito positivo del referendum avrebbe favorito una soluzione legislativa a loro più gradita, dando piena attuazione al principio di responsabilità del magistrato. Tuttavia, anche alla luce delle ripetute manifestazioni di insofferenza della classe politica (in particolare, dei socialisti) nei confronti del controllo di legalità esercitato dal potere giudiziario, esso aveva destato il sospetto di una strumentalità dell’iniziativa referendaria, la quale, promossa con il dichiarato intento di realizzare una «giustizia giusta», a garanzia dei cittadini, era apparsa agli occhi di non pochi osservatori come un mezzo improprio per «regolare i conti» con la magistratura (cfr., tra gli altri, G. Neppi Modona, Quel referendum contro i giudici, in la Repubblica, 16-17 marzo 1986; V. Grevi, Per i magistrati, cit.), oltre che per ridisegnare i rapporti di forza all’interno della coalizione governativa (E. Scalfari, Le ragioni dei giudici, le colpe dei partiti, in la Repubblica, 18 ottobre 1987). Sulla vicenda dei referendum sulla giustizia del 1987, che s’inserisce nel lungo conflitto tra il potere politico e quello giudiziario, cfr. G. Ferri, Magistratura e potere politico, Padova 2005, 126 ss.

[37] Dal nome del Ministro della Giustizia dell’epoca, che il 1° dicembre 1987 aveva presentato il d.d.l. da cui è scaturita la legge (A.S., X Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 1995).

[38] Identificato con «il rifiuto, l’omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data del deposito in cancelleria» (art. 3).

[39] Su cui cfr. F. Biondi, La responsabilità del magistrato. Saggio di diritto costituzionale, Milano, 2006, 197 ss.; F.P. Luiso, La responsabilità civile del magistrato secondo la legge 13 aprile 1988 n. 117, in La responsabilità dei magistrati, a cura di M. Volpi, Napoli, 2008, 175 ss.

[40] In tal caso l’azione civile per il risarcimento del danno ed il suo esercizio anche nei confronti dello Stato come responsabile civile sono regolati dalle norme ordinarie. All’azione di regresso dello Stato che sia tenuto al risarcimento nei confronti del danneggiato si procede secondo le norme ordinarie relative alla responsabilità dei pubblici dipendenti.

[41] L. Scotti, La responsabilità, cit., 173.

[42] A. Proto Pisani, La nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati: il giudizio nei confronti dello Stato, in Foro it., 1988, 420.

[43] Per altro verso, l’elettore avrebbe potuto pronunciarsi per il «no» pur non condividendo una parte della normativa. A conferma di ciò, si possono riportare le parole con le quali un autorevole giurista, all’epoca presidente del gruppo della Sinistra Indipendente alla Camera, si è espresso per il «no»: con l’autorizzazione prevista dall’art. 56 c.p.c., il magistrato è «nelle mani del potere politico in una materia» molto delicata. «Ma la volontà di eliminare questa norma basta a giustificare il sì? Non è questo il cuore del quesito referendario. Quel che si vuole travolgere è il principio, è l’art. 55 che […] limita i casi di responsabilità del giudice. Ed io sono convinto che questo principio meriti di essere mantenuto, senza aperture verso una incerta nozione di colpa grave» (S. Rodotà, Se vince il «no»…, in la Repubblica, 6 novembre 1987).

[44] Basti ricordare l’atteggiamento dei due partiti maggiori che, dopo avere osteggiato l’iniziativa referendaria, si erano schierati per il «sì» non perché condividessero le soluzioni prefigurate da alcuni dei promotori, ma con la motivazione che la normativa sottoposta al referendum necessitava di essere modificata, anche se è ragionevole ritenere che ad essere decisive, per il cambiamento di posizione della D.C. e del P.C.I., siano state in realtà ragioni di «tattica elettorale e politica» (cfr. E. Scalfari, Le ragioni, cit. e L’inutile truffa del voto di oggi, in la Repubblica, 8 novembre 1987).

È comunque interessante ricordare, a conferma della necessità del superamento della disciplina codicistica, gli argomenti con i quali era stata motivata la posizione abrogazionista del P.C.I.: «1) l’imputato può citare direttamente il suo giudice, trasformandolo in controparte; 2) questa citazione può avvenire anche durante il processo, paralizzandone il corso; 3) è il ministro della Giustizia che decide discrezionalmente, concedendo o negando l’autorizzazione a procedere, quale cittadino deve essere risarcito e quale cittadino deve essere trascinato in giudizio; 4) l’inefficienza della macchina giudiziaria si scarica sul giudice, che è tenuto al risarcimento del danno se non emette il provvedimento richiesto da una parte entro dieci giorni dalla formale istanza di adempimento. Questi principi si applicano solo al giudice e non anche» al p.m. nei «processi penali»; un magistrato «di un’importante Procura» è stato «direttamente citato in giudizio, senza passare neanche attraverso l’autorizzazione del ministro. Le norme hanno vissuto sinora sonni tranquilli nelle pagine ingiallite del Codice […]. Ma l’aggressività antigiudice di settori importanti del mondo criminale» e «del mondo politico le sta richiamando in vita, tanto che sono parecchie (sembra 32) le domande che attendono […] sui tavoli del ministero» (così il responsabile delle politiche per la giustizia del partito L. Violante, Tutte le ragioni del sì comunista, in la Repubblica, 7 novembre 1987).

[45] I radicali si erano espressi nel senso di una responsabilità anche per colpa grave e soprattutto «senza filtri». I socialisti erano stati chiari nel dire che la responsabilità doveva estendersi alla colpa grave e che i magistrati che commettono degli illeciti devono rispondere «di tasca propria», salvo l’eventuale fissazione di limiti al risarcimento. Tuttavia, non avevano sciolto il nodo fondamentale del «filtro», mostrando comunque in più occasioni di guardare con favore al meccanismo dell’azione diretta contro lo Stato e della successiva azione di rivalsa, condiviso anche dai liberali (cfr. la Repubblica, 19 dicembre 1986 e 8 novembre 1987).

[46] Sent. n. 26/1987, punto 4 del Cons. in dir.

[47] L’esigenza di «attenta e specifica considerazione», da parte del legislatore, ai «principi costituzionali di autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario, secondo quanto riaffermato anche di recente dalla Corte costituzionale», era stata segnalata dal Presidente della Repubblica dell’epoca, Francesco Cossiga, in una lettera inviata al Presidente del Consiglio Goria (cfr. la Repubblica, 28 novembre 1987). Per un commento favorevole all’intervento presidenziale, cfr. S. Rodotà, Dei giudici o la legge imperfetta, in la Repubblica, 29-30 novembre 1987.

[48] Sent. n. 18/1989, punto 10 del Cons. in dir.

[49] Ibidem.

In questo senso, nell’àmbito della letteratura in argomento, cfr. E. Fassone, Il giudice, cit., 16 ss.; A. Anzon, La responsabilità del giudice come rimedio contro le interpretazioni «troppo creative»: considerazioni critiche, in Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Annuario 2004. Separazione dei poteri e funzione giurisdizionale, Padova 2008, 270 ss.

[50] Sul discusso problema del presunto effetto vincolante della deliberazione referendaria sul legislatore rappresentativo si rinvia a M. Luciani, sub Art. 75, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca e A. Pizzorusso, Bologna-Roma 2005, 661 ss.

[51] Cfr., tra gli altri, V. Varano, Responsabilità, cit., 118; N. Zanon, La responsabilità dei giudici, in Annuario 2004, cit., 228 ss.; A. D’Aloia, La responsabilità del giudice alla luce della giurisprudenza comunitaria, in Problemi attuali della giustizia in Italia, a cura di A. Pace, S. Bartole e R. Romboli, Napoli 2010, 11 ss.

[52] I quali testimoniano «come nel biennio 2007-2008 si sia assistito a una vera e propria esplosione dei provvedimenti di accoglimento delle richieste avanzate dai cittadini. Il 2008 da solo, con 109, fa totalizzare più di tutti i procedimenti dei 5 anni precedenti» (G. Negri, Giudici alla sbarra per gli errori, in Il Sole-24 Ore, 17 ottobre 2010).

[53] Cfr., con riferimento alle ultime tre legislature, i progetti di legge Borea (A.S., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 1427); Cento e altri (A.C., XIV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 2979); Alberti Casellati (A.S., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 156); Tommassini (A.S., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 284); Forlani (A.C., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 766); Turco e altri (A.C., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 3340); Lussana e altri (A.C., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 1429); Brigandì e altri (A.C., XVI Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 1956); Perduca e Poretti (A.S., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 1889); Versace (A.C., XVI Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 3285); Laboccetta (A.C., XVI Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 3300); Lauro e altri (A.S., XVI Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 2390); Garagnani (A.C., XV Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 4069); Bernardini (A.C., XVI Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 4148).

[54] Sent. n. 18/1989, punto 10, cit. In senso critico N. Zanon, La responsabilità, cit., 228 ss.

[55] Cfr., tra gli altri, il d.d.l. Perduca, cit., e la proposta di l. Bernardini, cit.

[56] Cfr. la proposta di l. Maiolo (A.C., XIII Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 1996).

[57] Cfr. il d.d.l. Tommassini, cit. V. anche la proposta Maiolo, cit., dove, non escludendosi la responsabilità per le ipotesi indicate, implicitamente la si ammette.

Un discorso a parte dovrebbe essere fatto per la proposta di l. Tassone e altri (A.C., XIII Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 2869), la quale prevede la specifica ipotesi di responsabilità per l’«immotivata inosservanza dei criteri generali di ermeneutica legislativa e la conseguente emissione di atti o provvedimenti determinati da interpretazioni della legge strettamente personali o manifestamente difformi dalla consolidata giurisprudenza» (art. 2, comma 2, lett. e). Si tratta di una previsione che appare motivata dalle stesse ragioni che ispirarono l’inserimento di una fattispecie simile, successivamente abrogata, all’interno della nuova disciplina degli illeciti disciplinari introdotta dalla riforma dell’ordinamento giudiziario, sicché possono riproporsi i rilievi critici espressi in relazione ad essa. Cfr. G. Ferri, Magistratura, cit., 408 ss. e G. Ferri, La riforma dell’ordinamento giudiziario e la sua sospensione, in Stud. Iur., 2007, 397 s. V. anche A. Anzon, La responsabilità, cit., 253 ss.

[58] Sent. n. 18/1989, punto 10, cit.

[59] Cfr. la proposta Versace, cit., la quale prevede, a garanzia del pieno ristoro del danno, che i magistrati sono tenuti a sottoscrivere una polizza assicurativa per la responsabilità civile.

[60] Art. 7 del d.d.l. Tommassini, cit. Nella relazione illustrativa la necessità di intervenire sul punto è così giustificata: la responsabilità è «destinata a riuscire vana» per «la stipula invalsa di polizze» dai «costi oltremodo modesti, che sono palesemente nulle, perché contrarie» agli artt. 1343, 1344 e 1345 c.c.

[61] Non è del resto una novità, nella vicenda dei rapporti fra il potere politico e la magistratura, che i progetti di legge in materia di giustizia vengano presentati nei momenti di più forte tensione per «lanciare dei segnali», quasi a dire che il potere politico è «sovrano» e dispone delle «armi» per «riportare all’ordine» il potere giudiziario: cfr. G. Ferri, Magistratura, cit., passim.

Per quanto riguarda l’àmbito specifico della responsabilità dei magistrati, giova ricordare che anche in materia disciplinare non è mancata la presentazione di progetti di legge con palesi vizi di legittimità costituzionale, che, proprio per ciò, più che veri e propri atti d’iniziativa legislativa, sembrano costituire la reazione impropria a comportamenti di alcuni magistrati non graditi al potere politico (cfr. G. Ferri, La responsabilità disciplinare dei magistrati per illeciti extrafunzionali, in Q. giust. 2008, n. 5, 96, nota 43).

[62] Cfr. A. D’Aloia, La responsabilità, cit.

[63] Sentenza della Corte (Grande Sezione) 13 giugno 2006, causa C-173/2003, Traghetti del Mediterraneo SpA contro Repubblica italiana. Su tale sentenza, anche in relazione alla sentenza Köbler (v. infra, nel testo), cfr., tra gli altri, F. Biondi, Dalla Corte di Giustizia un «brutto» colpo per la responsabilità civile dei magistrati, in Q. cost. 2006, 839 ss.; F. Dal Canto, La responsabilità del magistrato nell’ordinamento italiano, in www.rivistaaic.it/old_site_aic/dottrina/garanzie/dalcanto.html, 29 ss.; C. Rasia, Responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario da parte del giudice supremo: il caso Traghetti del Mediterraneo contro Italia, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2007, 661 ss.; S. Panizza, La responsabilità civile dei magistrati nella giurisprudenza costituzionale, in La responsabilità dei magistrati, cit., 201 ss.; A. D’Aloia, La responsabilità, cit., 19 ss.

[64] F. Dal Canto, La responsabilità, cit., 29 ss. e S. Panizza, La responsabilità, cit., 206 ss.

[65] Sent. Corte cost. n. 18/1989, cit., punto 6 del Cons. in dir., la quale prosegue affermando che in «epoca più recente la giurisprudenza, in più stretto collegamento con il principio stabilito» dall’art. 2043 c.c., «ritenuto ormai generalmente applicabile alla P.A. sulla base del rapporto organico corrente tra l’ufficio del giudice e lo Stato, era giunta all’affermazione di una responsabilità diretta di quest’ultimo anche al di fuori delle ipotesi in cui il giudice poteva essere chiamato a rispondere direttamente del danno».

[66] Cfr. la sent. n. 5087/00.

[67] Sent. Corte di giustizia 30 settembre 2003, causa C-224/01, G. Köbler contro Repubblica austriaca. Su tale sentenza cfr. F. Biondi, La responsabilità, cit., 220 ss. e gli scritti ivi citati.

[68] Punti 53-55.

[69] Punto 56.

[70] Cfr. la proposta di l. Di Pietro e Palomba (A.C., XVI Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 4127).

[71] Cfr., nell’àmbito dei giudizi espressi dai commentatori sul discusso «emendamento Pini», presentato alla Camera in sede di esame del d.d.l. comunitaria annuale e tendente a sostituire la responsabilità per dolo o colpa grave con quella per «violazione manifesta del diritto», R. Bin, Intervista a Radio Radicale, 26 marzo 2011; G. De Cataldo, Una legge contro i giudici, in la Repubblica, 28 marzo 2011.

Il contrasto della l. n. 117/1988 con la giurisprudenza comunitaria è stato escluso dal Governo nella risposta a un’interrogazione parlamentare presentata da Mecacci e altri, affermando che «la decisione del giudice comunitario e la disciplina interna si pongono su piani del tutto differenti» (A.C., XVI Leg., Res. II Comm. permanente (Giustizia), 18 dicembre 2008, 36, allegato 2).

[72] V. supra, § 5.

[73] V. supra, § 2 e 9.

[74] A.C., XVI Leg., D.d.l. e Rel., Doc. n. 4275.

[75] Cfr., in senso critico sul testo dell’art. 113-bis, comma 1, V. Onida, Quella spada sul capo dei giudici, in Il Sole-24 Ore, 18 marzo 2011; M. Villone, La “riforma epocale” della giustizia nel ddl costituzionale AC 4275: continuità o rottura?, in www.costituzionalismo.it, 22 maggio 2011, § 9; R. Romboli, Una riforma “epocale” della giustizia o un riassetto del rapporto tra poteri?, in www.rivistaaic.it, 20 settembre 2011.

[76] Si pensi, in particolare, agli insegnanti della scuola pubblica, che, se per i danni arrecati personalmente a terzi per gli atti funzionali compiuti in violazione di diritti rispondono come gli altri pubblici dipendenti, per i danni provocati dagli alunni rispondono non in maniera diretta e solo nei casi di dolo o colpa grave nella vigilanza, essendo previsto che, «salvo rivalsa» nei casi indicati, l’amministrazione «si surroga al personale medesimo nelle responsabilità civili derivanti da azioni giudiziarie promosse da terzi» (art. 61 l. n. 312/1980).

Secondo la Corte costituzionale, si tratta di un’esclusione di responsabilità consentita dall’art. 28 Cost., secondo «valutazioni rimesse alla discrezionalità legislativa» (cfr. la sent. n. 64/1992).

[77] Cfr. il d.d.l. n. 4275, cit., 14 s.

[78] V. supra, § 7 e 8.

[79] Artt. 22 e 23 d.P.R. n. 3/1957.

[80] Cfr. il d.d.l. n. 4275, cit., 15.

[81] Ibidem.

[82] Ibidem.

[83] V. supra, § 7 e § 8.

[84] In senso favorevole alla previsione di tale giudizio, cfr. A. Proto Pisani, La nuova legge, cit., 420; E. Fazzalari, Una legge «difficile», in Giur. cost. 1989, I, 105. In senso critico A. D’Aloia, Questioni in tema di responsabilità dei magistrati, in Annuario 2004, cit., 309 ss., il quale parla di «aggravamento procedurale […] poco in armonia con un principio costituzionale desumibile dalla combinazione tra ragionevolezza dei tempi ed effettività delle domande di tutela».

[85] V. Onida, Intervista a Radio Radicale, 19 marzo 2011.

La relazione introduttiva alla proposta di l. Mantini, che mira a sopprimere il giudizio di ammissibilità, parla invece di «cautela del tutto inutile», che rende «assai complessa e in sostanza impraticabile» la tutela del danneggiato (A.C., XVI Leg., D.d.l. e Rel., n. 2089, 2).

[86] E. Fassone, Il giudice, cit., 15 s.; G. Zagrebelsky, La responsabilità, cit., 790.

[87] V. supra, nota 52.

[88] Per la tesi che considera la l. n. 117/1988 viziata sotto il profilo della ragionevolezza, non essendovi coerenza tra il mezzo e il fine, cfr. A. D’Aloia, La responsabilità, cit., 16 ss.

[89] Nel senso, invece, che la normativa sia «sbilanciata» a favore dei magistrati, cfr. A. Proto Pisani, Lezioni, cit., 289; A. D’Aloia, La responsabilità, cit., 18. Spunti critici anche in E. Fazzalari, Nuovi profili della responsabilità civile del giudice, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1988, 1027, che parla di rivalsa «quasi soltanto simbolica».

[90] Opinione espressa, nell’àmbito del recente dibattito sulla riforma della giustizia, da R. Bin, Intervista, cit.

Si tratta comunque di un problema discusso da lungo tempo. Per le posizioni contrarie, cfr., esplicitamente, G. Giacobbe, Quale responsabilità, cit., 187 e, implicitamente, G. Zagrebelsky, La responsabilità, cit., 790.

[91] Secondo V. Roppo, Responsabilità dello Stato per fatto della giurisdizione e diritto europeo: una case story in attesa del finale, in Riv. dir. priv., 2006, 357, è proprio il modo in cui le disposizioni della l. n. 117/1988 sono «generalmente intese dai giudici» a spiegare perché, «dal punto di vista della tutela risarcitoria» dei «danneggiati», i «risultati pratici» siano «sostanzialmente pari a zero».

[92] P. Trimarchi, Rischio di distorsione delle decisioni, in Corriere della Sera, 29 marzo 2011.

In Francia, «dove esiste una disciplina analoga a quella italiana, non risulta mai essersi verificato un caso di azione di regresso da parte dello Stato verso un giudice» (cfr. la delibera del CSM del 28 giugno 2011).

[93] L. P. Comoglio, C. Ferri, M. Taruffo, Lezioni sul processo civile, I, Bologna 2006, 178 s.

[94] Muovendo dalla circostanza che la «colpa grave non può che essere determinata da un comportamento rilevante in sede disciplinare», si è ipotizzato di inserire il procedimento di responsabilità civile nel procedimento disciplinare, consentendo al danneggiato» di parteciparvi «in qualità di parte civile» (G. Zagrebelsky, La responsabilità, cit., 791).

[95] G. Ferri, La responsabilità, cit., 79 ss.