Ordinanza n. 72 del 2023

ORDINANZA N. 72

ANNO 2023

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Silvana SCIARRA

Giudici: Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 8-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Vicenza nel procedimento penale a carico di O. E., con ordinanza del 16 giugno 2022, iscritta al n. 92 del registro ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2022.

Visti l’atto di costituzione di O. E., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 22 marzo 2023 il Giudice relatore Francesco Viganò;

uditi l’avvocato Dario Lunardon per O. E. e l’avvocato dello Stato Salvatore Faraci per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 22 marzo 2023.


Ritenuto che con ordinanza del 16 giugno 2022 il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Vicenza ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 8-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), «nella parte in cui prevede il medesimo trattamento sanzionatorio sia per il delitto di utilizzo di documenti contraffatti o alterati, sia per quelli di contraffazione o alterazione di documenti descritti nella stessa norma, e non invece trattamenti sanzionatori differenziati, non prevedendo in particolare che la pena edittale per il delitto di utilizzo di documenti contraffatti o alterati sia determinata riducendo di un terzo la pena prevista per le condotte di contraffazione o alterazione dei documenti medesimi, analogamente a quanto disposto dall’art. 489 c.p.»;

che nel giudizio a quo O. E. è imputato del delitto previsto dalla disposizione censurata per avere utilizzato un certificato di conoscenza della lingua italiana risultato contraffatto, inviandolo all’Ufficio immigrazione della Questura di Vicenza, al fine di ottenere il «rilascio o rinnovo» del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo per lavoro subordinato;

che, in sede di udienza preliminare, l’imputato ha formulato richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, ai sensi degli artt. 168-bis del codice penale e 464-bis del codice di procedura penale, contestualmente sollecitando il promovimento del presente incidente di legittimità costituzionale;

che, in punto di non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente osserva anzitutto che l’art. 5, comma 8-bis, t.u. immigrazione prevede la medesima pena della reclusione da uno a sei anni sia per chiunque contraffà o altera documenti di soggiorno ovvero documenti finalizzati a ottenere un titolo legittimo di soggiorno, sia per chiunque, semplicemente, utilizza tali documenti;

che, ad avviso del giudice a quo, la disciplina censurata violerebbe i principi di eguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità della pena sotto un duplice profilo: a) per l’indebita equiparazione, quanto al trattamento sanzionatorio, di condotte di disvalore eterogeneo; e b) per l’irragionevole disparità di trattamento rispetto alla disciplina generale dei delitti di falso sancita nel codice penale;

che, sotto il primo profilo, risulterebbe irragionevole la previsione di un’unica cornice edittale per «condotte tra loro sensibilmente differenti sia in punto di elemento materiale che di coefficiente psicologico», indicative di «una diversa attitudine del soggetto attivo [a] porsi in contrasto con l’ordinamento», atteso che la falsificazione materiale di un titolo di soggiorno o dei documenti necessari a ottenerne il rilascio richiederebbe «capacità tecnica, abilità manuale, destinazione di risorse materiali e di tempo alla realizzazione dell’illecito» e presupporrebbe, sovente, l’inserimento del soggetto attivo «in un circuito dal quale provengono i supporti documentali e gli strumenti necessari alla realizzazione del falso»; caratteristiche, queste, assenti invece nell’«azione unisussistente» di mero uso di un documento contraffatto o alterato da terzi;

che la previsione di un identico trattamento sanzionatorio in relazione a condotte tanto dissimili risulterebbe perciò intrinsecamente incoerente e contraria al principio di proporzionalità della pena, il quale esige che quest’ultima sia «adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo» (sono citate le sentenze n. 55 del 2021 e n. 73 del 2020 di questa Corte);

che, sotto il secondo profilo, la disciplina censurata divergerebbe poi irragionevolmente da quella prevista dal codice penale per i comuni delitti di falso;

che, infatti, ai sensi dell’art. 482 cod. pen. la falsificazione materiale di un atto pubblico o di certificato o autorizzazione amministrativa, ove commessa da un privato, è sanzionata con le pene previste dagli artt. 476 e 477 cod. pen. (rispettivamente da uno a sei anni, e da sei mesi a tre anni di reclusione) ridotte di un terzo, mentre l’uso di un atto falso è punito con le pene così determinate, ma ulteriormente ridotte di un terzo, secondo il disposto dell’art. 489 cod. pen.;

che tale disparità di trattamento risulterebbe, anche sotto questo profilo, contraria agli artt. 3 e 27 Cost. (sono citate le sentenze n. 62 del 2021, n. 88 e n. 40 del 2019, n. 233 e n. 222 del 2018, n. 179 del 2017 e n. 236 del 2016);

che la rilevanza delle questioni discenderebbe «dalla richiesta formulata dall’imputato di ammissione all’istituto della messa alla prova», poiché, in ragione della cornice edittale prevista dall’art. 5, comma 8-bis, per l’uso di atti falsi (reclusione da uno a sei anni), non sarebbe possibile l’ammissione a tale rito alternativo, stanti i limiti di pena stabiliti dall’art. 168-bis cod. pen.;

che detta richiesta potrebbe invece essere valutata nel merito ove la disposizione censurata fosse ricondotta a razionalità e coerenza rispetto alle previsioni codicistiche, nonché a conformità con il principio di proporzionalità della pena rispetto all’offesa, mediante una pronuncia di questa Corte che differenziasse il trattamento sanzionatorio del mero uso di un atto falso rispetto a quello della falsificazione materiale, prevedendo la riduzione di un terzo della sanzione edittale nella prima ipotesi (è richiamata la sentenza n. 143 del 2021);

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate non fondate;

che l’interveniente, dopo avere evidenziato che la disciplina del fenomeno migratorio rappresenta «una manifestazione della sovranità dello Stato» (sono citate le sentenze n. 172 del 2012, n. 250 del 2010, n. 148 del 2008, n. 206 del 2006 e n. 353 del 1997 di questa Corte), osserva che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 5, comma 8-bis, t.u. immigrazione – introdotta dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo) e poi novellata dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) – presidierebbe i beni giuridici della pubblica fede e della regolarità dell’ingresso e soggiorno dei cittadini stranieri e si configurerebbe come speciale e assorbente rispetto ai delitti comuni di falsità previsti dal codice penale, ciò che giustificherebbe «aspetti differenziali nella costruzione della fattispecie penale e del trattamento sanzionatorio»;

che non sarebbe persuasiva la tesi del rimettente circa una minore offensività dell’uso di documenti alterati o contraffatti rispetto alla fabbricazione dei medesimi, dovendosi anzi ritenere più grave la prima fattispecie, per il carattere di plurioffensività (della pubblica fede e della regolarità degli «ingressi di soggiorno» degli stranieri) che invece difetterebbe nella seconda (posta solo a tutela della pubblica fede);

che il giudizio di maggiore o minore disvalore di una determinata condotta e la determinazione delle cornici edittali della relativa pena rientrerebbero nell’ambito di discrezionalità del legislatore e sarebbero sindacabili solo in ipotesi di «manifesta arbitrarietà, irragionevolezza o sproporzione delle sanzioni» (sono richiamate le sentenze n. 146 del 1996 e n. 313 del 1995 di questa Corte), qui certamente insussistenti;

che il limite alla manifesta sproporzione della singola scelta sanzionatoria risulterebbe travalicato – con conseguente ammissibilità del sindacato costituzionale – solo «ove il legislatore fissi una misura minima della pena troppo elevata, vincolando così il giudice all’inflizione di pene che potrebbero risultare, nel caso concreto, chiaramente eccessive rispetto alla sua gravità» (è citata la sentenza n. 28 del 2022 e sono altresì richiamate le sentenze n. 136 e n. 73 del 2020, n. 284, n. 112, n. 88 e n. 40 del 2019, n. 222 del 2018, n. 236 del 2016, n. 68 del 2012, n. 341 del 1994, n. 409 del 1989 e n. 218 del 1974), ipotesi che nella specie non ricorrerebbe;

che sarebbe insussistente la denunciata irragionevole disparità fra il trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 5, comma 8-bis, t.u. immigrazione e quello di cui all’art. 482 (in relazione agli artt. 476, 477 e 489) cod. pen., attesa la disomogeneità del tertium comparationis evocato;

che, d’altra parte, il giudice a quo non avrebbe chiarito perché l’impossibilità per l’imputato di accedere alla sospensione del procedimento con messa alla prova violerebbe l’art. 27 Cost., atteso che tale istituto – applicabile a condotte punite con la pena pecuniaria o con la pena detentiva edittale non superiore nel massimo a quattro anni – sarebbe riservato ai reati di «scarsa gravità ed allarme sociale», laddove proprio la previsione della reclusione da uno a sei anni per l’uso di documenti contraffatti o alterati al fine di ottenere il rilascio di un titolo di soggiorno disvelerebbe il giudizio di gravità che il legislatore riconnette a tale condotta, «secondo scelte di politica criminale che non risultano, nei termini sollevati, sindacabili»;

che comunque il rimettente ben potrebbe, ricorrendone i presupposti, applicare la pena edittale minima o concederne la sospensione condizionale, onde assicurare comunque la proporzionalità del trattamento sanzionatorio;

che si è costituito in giudizio O. E., imputato nel giudizio a quo, insistendo per l’accoglimento delle questioni;

che la parte evidenzia «la severità sanzionatoria che il legislatore ha riservato al reato di falsità in titolo di soggiorno – punito con una pena detentiva superiore a tutte le ipotesi comuni di falsità commessa dal privato – e, dall’altro, l’equiparazione radicale all’interno di una medesima disposizione di condotte assai diverse sotto il profilo della progressione criminosa e dell’offensività in astratto»;

che, benché la mera previsione di ipotesi di reato speciali – quali quelle contenute nell’art. 5, comma 8-bis, t.u. immigrazione – punite con pene più rigide rispetto a quelle codicistiche non esorbiti dai confini del «legittimo apprezzamento consentito al legislatore», non altrettanto potrebbe dirsi in relazione alla omissione di «qualsivoglia graduazione sanzionatoria» tra le condotte tipizzate dalla disposizione censurata, il cui disvalore è completamente diverso;

che l’equiparazione, a fini sanzionatori, tra contraffazione e alterazione di un titolo di soggiorno o di un documento necessario al suo ottenimento da un lato, e utilizzazione di un documento falso dall’altro, violerebbe l’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza «tanto intrinseca quanto estrinseca», e sarebbe contraria al principio di eguaglianza, considerato anche che gli artt. 476, 477, 482 e 489 cod. pen., assunti a tertium comparationis, contemplerebbero invece «un trattamento sanzionatorio progressivo e proporzionato rispetto alle singole condotte»;

che la diversità di disciplina sussistente tra l’art. 5, comma 8-bis, t.u. immigrazione e le norme codicistiche poste a tutela della pubblica fede, si risolverebbe in una disparità di trattamento fra «due categorie di persone: da una parte i cittadini rei di delitti contro la fede pubblica per ogni tipo di atto, che beneficiano della graduazione punitiva proporzionata al fatto prevista dal codice, e dall’altra gli stranieri rei di falso materiale o utilizzo di atto falso per i titoli di soggiorno, cui detta graduazione è preclusa», disparità, questa, sindacabile da parte di questa Corte, al metro dei principi di eguaglianza e proporzionalità (sono citate le sentenze n. 341 del 1994, n. 422 e n. 343 del 1993, n. 409 del 1989);

che, osserva la difesa della parte, secondo la giurisprudenza costituzionale risulterebbe irragionevole e manifestamente sproporzionato «vincolare il giudice a irrogare sanzioni chiaramente eccessive» (è citata la sentenza n. 63 del 2022); ciò che si verificherebbe nel caso di specie, ove la manifesta sproporzione riposerebbe «non tanto sul quantum edittale della pena, quanto sulla indiscriminata assimilazione sanzionatoria di più condotte»;

che sarebbe altresì violato l’art. 27 Cost., in quanto «il vizio di sproporzione in punto di trattamento sanzionatorio tra le tre condotte alternative» punite dal censurato art. 5, comma 8-bis, comprometterebbe la finalità rieducativa della pena, che implica «un costante “principio di proporzione” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra”» (sono citate le sentenze n. 341 del 1994 e n. 313 del 1990 di questa Corte);

che, nella memoria illustrativa depositata in prossimità dell’udienza, la parte dà atto che, per effetto delle modifiche recate all’art. 550, comma 2, cod. proc. pen. dall’art. 32, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), il delitto di cui all’art. 5, comma 8-bis, t.u. immigrazione è ora incluso nel novero dei reati per i quali si procede con citazione diretta a giudizio e dunque – per effetto del richiamo all’art. 550, comma 2, cod. proc. pen. operato dall’art. 168-bis, primo comma, cod. pen. – di quelli per cui è ammissibile la sospensione del procedimento con messa alla prova;

che tale sopravvenienza normativa non determinerebbe tuttavia l’irrilevanza delle questioni sollevate dal rimettente, in quanto quest’ultimo – che pure potrebbe ora disporre la sospensione del procedimento con messa alla prova – dovrebbe comunque applicare la disposizione censurata;

che, d’altra parte, le prassi e i protocolli in uso presso i tribunali valorizzerebbero l’entità della cornice edittale di pena delle singole fattispecie di reato per determinare – entro il termine massimo di due anni stabilito dall’art. 464-quater, comma 5, cod. proc. pen. nei procedimenti che abbiano oggetto reati per i quali è prevista la pena detentiva – i «differenti “scaglioni” di durata del periodo di sospensione del processo e della prestazione di lavoro di pubblica utilità posta a carico dell’imputato»; di talché i limiti minimi e massimi di pena previsti per il singolo reato finirebbero per «“riverberarsi” sul provvedimento che il Giudice è chiamato a pronunciare all’esito del vaglio di ammissibilità dell’istanza di messa alla prova»;

che, all’udienza, il difensore della parte ha ulteriormente argomentato in senso contrario rispetto alla possibilità di restituzione degli atti per consentire al rimettente l’esame dello ius superveniens, sul rilievo, in particolare, che la modifica normativa intervenuta incide su disposizione differente da quella sottoposta allo scrutinio della Corte.

Considerato che il GUP del Tribunale di Vicenza ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 8-bis, t.u. immigrazione, nella parte in cui prevede la medesima pena della reclusione da uno a sei anni sia per le ipotesi di contraffazione o alterazione di titoli di soggiorno o documenti necessari al loro ottenimento, sia per il mero uso di tali documenti, invece di prevedere la riduzione di un terzo della pena edittale in quest’ultima ipotesi, analogamente a quanto disposto dall’art. 489 cod. pen.;

che il giudice a quo è investito della richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, formulata in sede di udienza preliminare da un imputato del delitto di cui all’art. 5, comma 8-bis, t.u. immigrazione;

che il rimettente ha espressamente argomentato la rilevanza delle questioni osservando che la previsione, da parte della disposizione censurata, della pena della reclusione da uno a sei anni per l’ipotesi di mero uso dei documenti gli precluderebbe di accogliere tale richiesta dell’imputato, dal momento che l’art. 168-bis cod. pen. consente la sospensione del procedimento con messa alla prova – in particolare – per i delitti puniti con la pena edittale detentiva non superiore a quattro anni;

che, effettivamente, al momento della pronuncia dell’ordinanza di rimessione l’accesso al rito alternativo risultava precluso, giacché il delitto ascritto all’imputato non rientrava neppure tra quelli per i quali era prevista la citazione diretta a giudizio ai sensi dell’art. 550, comma 2, cod. proc. pen.;

che, come correttamente osservato dal giudice a quo, proprio da ciò derivava la rilevanza delle questioni sollevate, concernenti una disposizione della quale il rimettente non era invero chiamato a fare direttamente applicazione nel giudizio a quo, ma dalla quale comunque discendeva – mediatamente – un effetto preclusivo rispetto all’applicazione dell’art. 168-bis cod. pen.;

che tuttavia, successivamente all’ordinanza di rimessione, l’art. 32, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 150 del 2022 ha modificato l’art. 550, comma 2, cod. proc. pen., inserendo il delitto di cui all’art. 5, comma 8-bis, t.u. immigrazione nel novero di quelli per i quali si procede a citazione diretta, sicché ora anche per tale reato è possibile la sospensione del procedimento con messa alla prova;

che, ai sensi dell’art. 90, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2022, la modifica normativa si applica «ai procedimenti pendenti nel giudizio di primo grado e in grado di appello» alla data di entrata in vigore del decreto legislativo medesimo;

che, per effetto di tale sopravvenienza normativa, nel medesimo giudizio a quo non deve più farsi applicazione, nemmeno indiretta, della disposizione censurata, e in particolare del frammento che disciplina il trattamento sanzionatorio per il delitto da essa prevista (sulla irrilevanza di questioni che non concernano specificamente il frammento di disposizione censurato, ordinanza n. 56 del 2023);

che, infatti, l’accoglimento della richiesta dell’imputato di sospensione del procedimento con messa alla prova non è più preclusa dalla previsione del massimo edittale di sei anni di reclusione stabilito dall’art. 5, comma 8-bis, t.u. immigrazione, risultando consentita dal generale richiamo compiuto dall’art. 168-bis cod. pen. all’art. 550, comma 2, cod. proc. pen., come modificato dal d.lgs. n. 150 del 2022;

che l’affermazione della parte secondo cui la cornice edittale del reato sarebbe utilizzata, nelle prassi e nei protocolli in uso nei tribunali, per graduare la durata della messa alla prova all’interno della cornice stabilita dall’art. 464-quater, comma 5, cod. proc. pen. fa riferimento a un rilievo meramente eventuale dell’art. 5, comma 8-bis, t.u. immigrazione, comunque non disciplinato a livello normativo;

che neppure è persuasivo l’argomento, sostenuto dalla parte in udienza, secondo cui la sopravvenienza normativa sarebbe irrilevante in quanto avente ad oggetto una disposizione distinta da quella censurata;

che, infatti, come poc’anzi osservato, la stessa disposizione censurata assumeva rilevanza soltanto mediata nel giudizio a quo, per effetto del generale richiamo compiuto dall’art. 168-bis cod. pen. alle cornici edittali dei singoli reati per i quali si procede: tale rilevanza è ora venuta meno a seguito della riconduzione dello specifico delitto – a cornice edittale invariata – al novero di quelli previsti dall’art. 550, comma 2, cod. proc. pen., oggetto di autonomo e distinto richiamo da parte dello stesso art. 168-bis cod. pen.;

che, peraltro, la sopravvenuta possibilità di fruire, per il delitto in questione, del rito alternativo della sospensione del procedimento con messa alla prova rappresenta un’ulteriore possibilità di individualizzazione e mitigazione del trattamento sanzionatorio, ora offerta dall’ordinamento;

che la giurisprudenza costituzionale – quando le modifiche conseguenti a uno ius superveniens «incidono così “profondamente sull’ordito logico che sta alla base delle censure prospettate” (ordinanze n. 97 del 2022 e n. 60 del 2021), oppure intaccano il meccanismo contestato dal rimettente (ordinanza n. 55 del 2020) – è costante nel ricavarne la necessità di restituire gli atti al giudice a quo, spettando a quest’ultimo sia verificare l’influenza della normativa sopravvenuta sulla rilevanza delle questioni sollevate (ordinanza n. 243 del 2021), sia procedere alla rivalutazione della non manifesta infondatezza, tenendo conto delle intervenute modifiche normative (ordinanze n. 97 del 2022, n. 60 del 2021 e n. 185 del 2020)» (ordinanze n. 31 e n. 30 del 2023, n. 227 del 2022);

che dunque, alla luce dello ius superveniens recato dall’art. 32, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 150 del 2022, si rende necessaria la restituzione degli atti al giudice a quo per una nuova valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza delle questioni sollevate.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

ordina la restituzione degli atti al Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Vicenza.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 marzo 2023.

F.to:

Silvana SCIARRA, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Valeria EMMA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 aprile 2023.