Sentenza n. 219 del 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Silvana SCIARRA;

Giudici: Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 248, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), promosso dal Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, sezione quinta, nel procedimento vertente tra il Comune di Santa Venerina e Ingegneria & Appalti srl, con ordinanza del 21 luglio 2021, iscritta al n. 177 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visti gli atti di costituzione del Comune di Santa Venerina e Ingegneria & Appalti srl, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 4 ottobre 2022 il Giudice relatore Angelo Buscema;

uditi gli avvocati Andrea Scuderi e Marcello Clarich per il Comune di Santa Venerina, Antonio Saitta per Ingegneria & Appalti srl e l’avvocato dello Stato Gianni De Bellis per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 5 ottobre 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 21 luglio 2021 (reg. ord. n. 177 del 2021), il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, sezione quinta, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 248, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), in riferimento agli artt. 3, 5, 81, 97, 114 e 118 della Costituzione.

Riferisce il giudice rimettente di essere stato adito dal Comune di Santa Venerina per la riforma della sentenza del TAR Lazio, sede di Roma, sezione seconda-bis, 18 agosto 2020, n. 9250, resa fra il medesimo Comune e la società Ingegneria & Appalti srl, nel giudizio di ottemperanza del lodo arbitrale del 13 luglio 2010, n. 95, della Camera arbitrale presso l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, con cui il Comune di Santa Venerina era stato condannato a risarcire alla società i danni conseguenti alla risoluzione – disposta a decorrere dal 1° gennaio 2009 dall’amministrazione locale – di una convenzione risalente al 7 marzo 2003 e avente natura trentennale (scadenza il 7 marzo 2033), ai sensi della quale la medesima società era risultata aggiudicatrice di un appalto per la progettazione definitiva ed esecutiva, la costruzione e la gestione degli impianti di trattamento delle acque destinate al consumo umano e acqua da tavola, incluso l’adeguamento dei serbatori esistenti nel Comune di Santa Venerina.

L’importo valutato in sede arbitrale a titolo di risarcimento dei danni a favore della società ammontava in linea capitale ad euro 4.318.405, oltre ad accessori, costituiti dalla rivalutazione monetaria e dagli interessi.

A causa dell’insostenibilità per il bilancio comunale della somma dovuta, il Comune di Santa Venerina, con delibera del Consiglio comunale del 12 marzo 2013, n. 9, dichiarava il proprio dissesto, ai sensi degli artt. 244 e seguenti t.u. enti locali e, contestualmente, impugnava il lodo dinanzi alla Corte d’appello di Roma che, con sentenza 29 luglio 2015, n. 4643, confermava la validità e l’efficacia della decisione arbitrale (ad eccezione della rivalutazione a titolo di maggior danno). Con ordinanza 9 marzo 2018, n. 5835 la Corte di cassazione, prima sezione civile, rigettava integralmente i ricorsi proposti da entrambe le parti.

In seguito all’adesione del Comune alla procedura semplificata (di cui all’art. 258 t.u. enti locali) e della conseguente erogazione dell’anticipazione di liquidità del Ministero dell’interno (art. 33 del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, recante «Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale», convertito, con modificazioni, nella legge 23 giugno 2014, n. 89), il credito vantato dalla società Ingegneria & Appalti srl è stato inserito nella massa passiva della procedura e liquidato in data 22 gennaio 2018 per l’intero importo ammesso in linea capitale, nonché per gli interessi maturati fino al momento della dichiarazione del dissesto, ossia fino all’11 marzo 2013 (euro 4.354.405,96 in sorte capitale ed euro 476.547,96 a titolo di interessi, per un totale di euro 4.830.953,92).

Una volta chiusa la gestione liquidatoria, con l’approvazione del rendiconto (ex art. 256, comma 11, t.u. enti locali), la società, in data 4 giugno 2018, ha chiesto all’amministrazione, tornata in bonis, il pagamento degli interessi maturati successivamente alla dichiarazione di dissesto e, avendo ricevuto risposta negativa, ha promosso il richiamato giudizio di ottemperanza, per l’integrale esecuzione del lodo arbitrale, domanda accolta in primo grado dal TAR Lazio, sede di Roma, con la menzionata sentenza n. 9250 del 2020.

Nei confronti di tale pronuncia, il Comune di Santa Venerina ha presentato appello al Consiglio di Stato, deducendo che, secondo un’interpretazione «logico-sistematica» dell’art. 248, comma 4, t.u. enti locali, il dissesto sarebbe funzionale a garantire il sollecito ripristino della piena funzionalità degli enti locali, il pagamento del credito per l’intera quota capitale durante la procedura concorsuale avrebbe «natura transattiva e tombale», determinando l’estinzione di tutti i debiti dell’ente. Sempre secondo il Comune, peraltro, gli oneri maturati sul credito in linea capitale dopo la dichiarazione del dissesto – quantificati dalla società nella prima richiesta di pagamento del 4 giugno 2018 in euro 1.385.676,83 e nella seconda del 7 febbraio 2020 in euro 1.812.677,50 – sarebbero insostenibili per il bilancio comunale, al punto da dover ricorrere a un nuovo dissesto.

Ritenendo le questioni rilevanti e non manifestamente infondate, il Consiglio di Stato ha sospeso il giudizio e ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 248, comma 4, t.u. enti locali, sulla base delle seguenti motivazioni.

1.1.– In punto di rilevanza, afferma il rimettente di dover necessariamente applicare nel giudizio la norma censurata, posto che essa rappresenta la premessa legislativa su cui si fonda la pretesa creditoria della società appellata, precisando altresì di non poter percorrere l’opzione interpretativa seguita dall’ente locale, sugli effetti estintivi del pagamento integrale della quota capitale disposto dall’organo straordinario di liquidazione nella fase di dissesto. Riferisce il Consiglio di Stato, infatti, che a tale interpretazione osterebbe non solo il tenore letterale della disposizione, ma la stessa giurisprudenza costituzionale resa, da ultimo, nella sentenza n. 269 del 1998, con cui la Corte avrebbe dichiarato non fondate le questioni di legittimità della previgente disposizione (art. 81, comma 4, del decreto legislativo 25 febbraio 1995, n. 77, recante «Ordinamento finanziario e contabile degli enti locali», come modificato dal decreto legislativo 11 giugno 1996, n. 336, recante «Disposizioni correttive del decreto legislativo 25 febbraio 1995, n. 77, in materia di ordinamento finanziario e contabile degli enti locali»), precisando che, in coerenza con le caratteristiche di una procedura concorsuale, la disposizione relativa agli accessori del credito ha la finalità di determinare esattamente la consistenza della massa passiva da ammettere al pagamento nell’ambito del dissesto dell’ente locale, ma essa «non implica la “estinzione” dei crediti non ammessi o residui, i quali, conclusa la procedura di liquidazione, potranno essere fatti valere nei confronti dell’ente risanato». Questo precedente avrebbe chiarito che la norma in questione stabilisce un regime di temporanea inesigibilità degli accessori del credito, strumentale alla liquidazione della massa passiva dell’ente locale, e destinato a cessare con la chiusura delle attività dell’organo straordinario di liquidazione (d’ora innanzi: OSL).

1.2.– In punto di non manifesta infondatezza, sostiene il Consiglio di Stato che il principio espresso dal precedente costituzionale ora richiamato debba essere rivalutato, sotto il profilo della sua perdurante conformità a Costituzione, alla luce della riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, intervenuta nel 2001, che avrebbe riconosciuto «in modo pieno» ai Comuni «la loro posizione di ente pubblico territoriale di base, esponenziale delle comunità locali, in attuazione del principio fondamentale del pluralismo autonomistico espresso dall’art. 5 Cost.».

La norma di cui all’art. 248, comma 4, t.u. enti locali sarebbe, dunque, anzitutto costituzionalmente illegittima per lesione del principio autonomista di cui all’art. 5 Cost., che postulerebbe l’esistenza necessaria dei comuni, in ragione dell’inesauribilità delle funzioni e dei servizi pubblici loro attribuiti, quale livello di governo di prossimità, e che renderebbe una «conseguenza costituzionalmente vincolata il loro ritorno in bonis».

La norma sull’inesigibilità solo temporanea degli accessori del credito per gli enti in dissesto, in quanto analoga alla normativa applicabile all’imprenditore insolvente (segnatamente, l’art. 154 del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, recante «Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155»), sarebbe altresì costituzionalmente illegittima per contrasto con il principio di uguaglianza, recato dall’art. 3 Cost., poiché sarebbero equiparate, sul piano normativo, situazioni ontologicamente diverse. Afferma il giudice rimettente, infatti, che mentre lo scopo della procedura di dissesto sarebbe la stabile rimozione degli squilibri di bilancio che hanno determinato il dissesto dell’ente locale, nelle regole di matrice civilistica che si applicano alla crisi dell’impresa, la sorte del soggetto debitore è indifferente. Come conseguenza di tale equiparazione «ingiustificata» e dell’applicazione, quindi, anche all’ente locale delle regole sul decorso degli interessi dei crediti commerciali nell’ambito della procedura concorsuale, l’obiettivo della stabile rimozione degli squilibri di bilancio che hanno determinato il dissesto dell’ente sarebbe compromesso, poiché all’ente tornato in bonis sarebbero ancora imputabili gli interessi maturati dopo la dichiarazione del dissesto, nonostante l’intervenuto pagamento della quota capitale del debito da parte dell’OSL. Tale norma, in ultima analisi, nell’imputare all’ente tornato in bonis gli interessi non liquidabili dall’OSL, potrebbe rendere necessario un nuovo intervento straordinario a carico della finanza pubblica e pertanto innescare una catena di dissesti, vanificando l’obiettivo di riequilibrio del bilancio.

Sarebbe altresì leso il principio di ragionevolezza, poiché la vigente disciplina sugli accessori del credito, attribuendo ai creditori degli enti locali in dissesto una tutela eccessiva rispetto a un equilibrato bilanciamento delle contrapposte esigenze a base dell’istituto, determinerebbe il rischio di dissesti in successione dell’ente locale, a scapito della collettività di cui l’ente locale è istituzione pubblica esponenziale.

Il regime normativo degli accessori del credito nei confronti dell’ente dissestato contrasterebbe, poi, con gli artt. 81 e 97, primo comma, Cost., per il rischio di generare dissesti in successione, così compromettendo il percorso dell’ente locale verso l’obiettivo primario dell’equilibrio di bilancio, con la rimozione degli squilibri finanziari che ne avevano determinato il dissesto, rendendo irrealizzabile «qualsiasi ragionevole progetto di risanamento, in tal modo entrando in collisione sia con il principio di equità intragenerazionale che intergenerazionale» (è citata la sentenza di questa Corte n. 18 del 2019).

Il Consiglio di Stato ravvisa altresì un contrasto della disciplina censurata con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all’art. 97, secondo comma, Cost., poiché, nonostante l’avvenuta liquidazione dei debiti accumulati in precedenza, sarebbe ostacolato il ripristino della piena funzionalità dell’ente locale, il quale rimarrebbe sempre esposto alle azioni dei creditori privati a tutela dei propri diritti. Verrebbe distorto, quindi, l’impianto complessivo della disciplina, non solo sul dissesto, ma anche sulla “lotta” contro i ritardi nei pagamenti delle transazioni commerciali, che si fonderebbe, invece, sul «rischio di insolvenza del debitore privato e sulla conseguente esigenza di mercato di una sua maggiore remunerazione» (è citata la sentenza di questa Corte n. 78 del 2020).

Sarebbero, infine, lesi gli artt. 114 e 118 Cost. poiché il regime di inesigibilità solo temporanea degli accessori dei crediti commerciali, paventando per l’ente comunale il possibile succedersi “a catena” di dissesti finanziari, contrasterebbe con il ruolo assegnato dalla Costituzione al comune, quale ente di governo esponenziale delle comunità locali, «radicato nell’esperienza storico-istituzionale di queste ultime e, pertanto preposto all’esercizio delle funzioni amministrative e dei servizi rispondenti ai bisogni primari della persona».

Ritiene, pertanto, il Consiglio di Stato che la «soluzione costituzionalmente imposta» per rimuovere tale irragionevole equiparazione di situazioni fra loro antitetiche sia quella di «considerare inesigibili in via definitiva e non solo temporanea gli accessori del credito nei confronti dell’ente locale» e quindi assegnare carattere estintivo al pagamento del credito per quota capitale ed interessi – maturati fino al momento dell’apertura del dissesto – disposto dall’OSL.

2.– Si è costituita in giudizio la Ingegneria & Appalti srl chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e, comunque, manifestamente infondate.

2.1.– Secondo la resistente nel giudizio a quo, per costante giurisprudenza ordinaria e amministrativa, la norma di cui all’art. 248, comma 4, t.u. enti locali avrebbe carattere meramente sospensivo e non precluderebbe all’interessato – una volta esaurita la gestione straordinaria con la fine della procedura di dissesto – di riattivarsi per la corresponsione delle stesse poste nei confronti dell’ente risanato (sono citate numerose sentenze fra cui, TAR Calabria, sezione di Reggio Calabria, 12 febbraio 2021, n. 131; TAR Sicilia, sezione di Catania, 30 luglio 2021, n. 2603; Consiglio di Stato, sezione quinta, 19 settembre 2007, n. 4878 e sezione quarta, 17 maggio 2005, n. 2469; nonché Corte di cassazione, sezione terza civile, 29 gennaio 2003, n. 1265).

Riporta la difesa della società che la giurisprudenza della stessa sezione cui appartiene il giudice rimettente, fino a poco tempo fa, risultava allineata a tale interpretazione dell’art. 248, comma 4, t.u. enti locali, tanto da giudicare manifestamente infondata una analoga questione di legittimità costituzionale prospettatale, ritenendo che non ci fosse alcun contrasto della disciplina sul dissesto, né con l’art. 41 Cost., «né con la tutela del diritto di credito, ai sensi dell’art. 3 della Costituzione letto in combinato disposto con l’art. 1 del Protocollo» della Convenzione europea per i diritti dell’uomo (è citata la sentenza del Consiglio di Stato, sezione quinta, 26 maggio 2020, n. 3338).

Rammenta la difesa della parte privata che, in passato, la norma censurata dall’odierno rimettente sarebbe stata sottoposta per ben quattro volte al giudizio di questa Corte, benché i precedenti costituzionali abbiano riguardato disposizioni normative contenute in fonti antecedenti al d. lgs. n. 267 del 2000, nel quale sono poi confluite, e abbiano affrontato censure per certi versi opposte a quelle odierne, relative alla lesione di prerogative costituzionali attribuite ai creditori degli enti locali. Tali precedenti giurisprudenziali imporrebbero di respingere, con «insuperabili argomenti», i dubbi di legittimità costituzionale ipotizzati in quelle occasioni e precluderebbero pertanto l’accoglimento delle odierne questioni.

Più precisamente, con la sentenza n. 149 del 1994, questa Corte avrebbe affermato che, in mancanza (a quel tempo) di un diritto vivente, la norma allora vigente (art. 21, comma 3, del decreto-legge 18 gennaio 1993, n. 8, recante «Disposizioni urgenti in materia di finanza derivata e di contabilità pubblica», convertito, con modificazioni, in legge 19 marzo 1993, n. 68) doveva essere interpretata nel senso di lasciare «in ogni caso impregiudicate tutte le eventuali questioni (di merito) in ordine alla sussistenza della pretesa creditoria», anche durante lo stato di dissesto dell’ente locale.

Con la sentenza n. 155 del 1994, inoltre, questa Corte avrebbe affermato – avversando la tesi oggi propugnata dal rimettente – che, nelle more del dissesto, i debiti del comune verso i privati continuano a maturare accessori, ritenendo non in contrasto con la Costituzione il regime giuridico, allora vigente, dell’aiuto finanziario dello Stato che poneva il creditore di un’amministrazione territoriale in una posizione migliore rispetto al creditore di un privato.

Chiamata nuovamente a pronunciarsi sulla medesima norma, con la successiva sentenza n. 242 del 1994, questa Corte avrebbe, altresì, chiarito che «[q]uanto […] al profilo relativo alla ritenuta definitività della c.d. cristallizzazione del credito – la quale concreterebbe una ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla procedura fallimentare per essere in quest’ultima la cristallizzazione stessa soltanto temporanea posto che alla chiusura della procedura concorsuale i creditori riacquistano il libero esercizio della loro azione verso il debitore (ex art. 120 l. fall.) – deve escludersi che sussista tale denunziata violazione del principio di eguaglianza. La corretta lettura della norma censurata, compiuta tenendo presente il quadro normativo complessivo risultante anche dalle disposizioni regolamentari dettate dal d.P.R. n. 378 del 1993, conduce a ritenere errata l’opinione del giudice rimettente circa la pretesa definitività della lamentata cristallizzazione dei crediti».

Fugherebbe ogni dubbio, poi, la sentenza n. 269 del 1998, con cui questa Corte avrebbe ribadito che rivalutazione ed interessi maturano anche successivamente all’apertura della procedura, ma rimangono non opponibili ad essa ed esclusi dalla massa passiva, restando integra la facoltà del creditore di azionare tali diritti nei confronti del comune, esaurita la gestione straordinaria. La stessa pronuncia affermerebbe, poi, che tale interpretazione, «compatibile con il testo normativo e coerente con i principi delle procedure concorsuali, non si presta ai dubbi di legittimità costituzionale sollevati e deve dunque essere preferita dal giudice nell’individuare il contenuto normativo della legge della quale deve fare applicazione» (è citata la sentenza n. 269 del 1998).

Secondo la difesa della parte privata, dunque, gli approdi costituzionali testé richiamati fornirebbero l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 248, comma 4, t.u. enti locali, da considerarsi da tempo ormai diritto vivente, e renderebbero le odierne questioni manifestamente infondate.

2.2.– Ad adiuvandum, afferma ulteriormente che l’eventuale accoglimento dei dubbi prospettati dal Consiglio di Stato lederebbe «il principio ultramillenario ex art. 2740 c.c. secondo cui “il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri”, indipendentemente dal fatto che soggetto passivo dell’obbligazione sia un privato o un ente pubblico». Non sarebbe nemmeno chiaro dall’ordinanza di rimessione perché, fra tutti gli enti della pubblica amministrazione, solo il comune dovrebbe essere esentato dalla responsabilità patrimoniale universale.

Invero, la disciplina dell’art. 248, comma 4, t.u. enti locali trarrebbe origine proprio dalla norma civilistica sulla liquidazione giudiziale dell’imprenditore commerciale, come interpretata da costante giurisprudenza, ai sensi della quale «la sospensione del corso degli interessi sui crediti chirografari, di cui alla L. Fall., art. 55, comma 1, vale solo all’interno del concorso, mentre nei rapporti intercorrenti tra ciascun creditore e il fallito (l’imprenditore insolvente) gli interessi continuano a maturare […]. Ne consegue che, una volta chiuso il fallimento (la procedura concorsuale), i creditori possono richiedere al debitore tornato in bonis non solo il pagamento della residua somma (comprensiva degli interessi preconcorsuali) ammessa al passivo e non ricevuta nella ripartizione dell’attivo, ma anche gli interessi sul credito per sorte capitale ammesso, come normalmente e ordinariamente prodottisi durante il tempo della pendenza della procedura» (è riportata l’ordinanza della Corte di cassazione, sezione prima civile, 12 maggio 2021, n. 12559).

Tale schema sarebbe mutuato dal legislatore per la procedura sul dissesto, di cui all’art. 248, comma 4, t.u. enti locali, normativa già giudicata conforme a Costituzione dalla richiamata sentenza n. 269 del 1998, in cui la Corte avrebbe affermato che «[l]a norma, in coerenza con le caratteristiche di una procedura concorsuale, ha la finalità di determinare in maniera certa e definitiva, rispetto alla procedura, la massa passiva, in modo da consentire il pagamento, totale o parziale, dei debiti con la massa attiva. Ma questo non implica la “estinzione” dei crediti non ammessi o residui, i quali, conclusa la procedura di liquidazione, potranno essere fatti valere nei confronti dell’ente risanato».

La soluzione ipotizzata dal rimettente, per contro – sempre secondo la difesa della parte privata– sarebbe costituzionalmente illegittima, in quanto, prevedendo l’estinzione definitiva dei debiti residui, si porrebbe in netto contrasto con i principi di uguaglianza e di imparzialità di cui agli artt. 3 e 97 Cost. Si determinerebbe, infatti, un’ingiustificata asimmetria a danno del creditore privato, che subirebbe per intero l’inadempimento dell’ente locale, a differenza di quanto avverrebbe nei confronti di un soggetto privato debitore. Parimenti ingiustificata e costituzionalmente illegittima sarebbe la disuguaglianza che si creerebbe fra due creditori del medesimo comune, in ipotesi, con riferimento a obbligazioni di identica natura, ma sorte in momenti diversi, che vedrebbero trattato diversamente il proprio credito, a seconda che rientri o non nel periodo di competenza della procedura di dissesto.

Sarebbe, infine, privo di pregio il richiamo al precedente costituzionale di cui alla sentenza n. 18 del 2019, perché la fattispecie decisa in quell’occasione sarebbe del tutto diversa da quella odierna, trattandosi in quel caso di una norma che, consentendo l’allungamento dei tempi di rientro dei piani di riequilibrio degli enti locali in dissesto, alterava l’equilibrio di bilancio per un lunghissimo periodo e consentiva «di destinare, per un trentennio, in ciascun esercizio relativo a tale periodo, alla spesa di parte corrente somme necessarie al rientro dal disavanzo».

3.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che venga dichiarata anzitutto l’inammissibilità delle questioni, per omesso tentativo di interpretazione costituzionalmente orientata della norma.

Premesso che, per costante giurisprudenza costituzionale, l’illegittimità costituzionale viene dichiarata non quando sia possibile dare alle leggi interpretazioni incostituzionali, ma quando sia impossibile dare alle leggi interpretazioni costituzionali (è citata la sentenza n. 49 del 2011), secondo la difesa erariale non può comprendersi come il rimettente possa al contempo affermare che «l’interpretazione dell’art. 248, comma 4, T.u.e.l. data dalla Corte costituzionale nel precedente più volte richiamato non consente […] di ritenere, sul distinto piano dell’ammissibilità delle questioni di costituzionalità, che i possibili profili di contrasto della disposizione di legge applicabile nel presente giudizio siano superabili in via interpretativa» e chiedere, poi, che il principio affermato dalla Corte venga rivalutato, «quanto meno sotto il profilo della sua perdurante conformità alla Carta fondamentale, alla luce della successiva riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione». Ritiene, pertanto, l’Avvocatura generale dello Stato che il rimettente avrebbe dovuto cercare di dare alla normativa censurata una interpretazione costituzionalmente orientata, anche alla luce del mutato quadro costituzionale e legislativo all’interno del quale si inserisce la norma.

Le questioni sarebbero in ogni caso non fondate, poiché la scelta di equiparare – ai fini della sospensione degli interessi – la situazione sul dissesto degli enti locali a quella della procedura di liquidazione giudiziale, costituirebbe espressione dell’esercizio della discrezionalità del legislatore, sindacabile esclusivamente sotto il profilo della palese irragionevolezza, che non ricorrerebbe nel caso in esame.

4.– Si è costituito in giudizio anche il Comune di Santa Venerina, e ha chiesto che vengano accolte le censure formulate dal rimettente, proponendo le medesime argomentazioni prospettate dal Consiglio di Stato in ordine alla lesione degli artt. 3, 5, 81, 97, 114 e 118 Cost.

5.– Con memoria depositata nei termini, la difesa di Ingegneria & Appalti srl ha ribadito la manifesta infondatezza delle questioni sollevate dal Consiglio di Stato, poiché quest’ultimo avrebbe dato un’interpretazione atomistica della disposizione di cui all’art. 248, comma 4, t.u. enti locali, senza tener conto del sistema normativo in cui la norma si colloca. L’erronea prospettiva ermeneutica da cui avrebbe preso le mosse l’ordinanza di rimessione avrebbe indotto il Consiglio di Stato a postulare come contrarie a costituzione conseguenze applicative che però non sarebbero frutto dell’irragionevolezza della norma in discussione, né dell’intero sistema normativo, ma esclusivamente della «condizione deficitaria estrema in cui, di fatto, un’amministrazione locale si può venire a trovare».

6.– Il Comune di Santa Venerina ha depositato ulteriore memoria in cui sostiene che, alla luce delle modifiche costituzionali intervenute nel 2001 al Titolo V della Parte II della Costituzione e nel 2012 (con l’introduzione del principio dell’equilibrio di bilancio per tutte le pubbliche amministrazioni e per gli enti territoriali), il dubbio di legittimità costituzionale sollevato dal Consiglio di Stato debba ritenersi fondato, poiché sarebbero prevalenti e assorbenti esigenze di stabilità di bilancio, rispetto alle esigenze «di natura “organizzativa”», collegate all’andamento della procedura liquidatoria, che avevano giustificato la sentenza di questa Corte n. 269 del 1998, secondo una lettura sistematica delle norme, raffrontate alla Costituzione allora vigente.

Infine, la difesa del Comune di Santa Venerina afferma che la norma censurata sarebbe irragionevolmente equiparata alla disciplina sul fallimento privatistico, per due ordini di motivi, indicativi della non assimilabilità del dissesto degli enti locali alle procedure liquidatorie di natura commerciale. Il primo consiste nella previsione dell’intervento statale quale «pagatore di ultima istanza», per la copertura del disavanzo dell’ente locale e per il suo risanamento, norma assente nelle procedure fallimentari privatistiche. Il secondo motivo «di natura teleologica» – sarebbe collegato e derivante dai nuovi principi sanciti dagli artt. 97, 114 e 118 Cost. – si rinverrebbe nel fatto che la sopravvivenza dell’ente locale e dell’esercizio delle funzioni pubbliche affidategli è un elemento essenziale, mentre nelle procedure concorsuali la sorte dell’imprenditore sarebbe «del tutto irrilevante».

Ritiene pertanto il Comune che, trattandosi di posizioni ontologicamente e funzionalmente diseguali, il mantenimento della norma censurata sia irragionevole e lesivo del principio di uguaglianza.

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 177 del 2021), il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, sezione quinta, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 248, comma 4, t.u. enti locali, ai sensi del quale «[d]alla data della deliberazione di dissesto e sino all’approvazione del rendiconto di cui all’articolo 256 i debiti insoluti a tale data e le somme dovute per anticipazioni di cassa già erogate non producono più interessi né sono soggetti a rivalutazione monetaria. Uguale disciplina si applica ai crediti nei confronti dell’ente che rientrano nella competenza dell’organo straordinario di liquidazione a decorrere dal momento della loro liquidità ed esigibilità».

Secondo il rimettente, la disposizione, nell’omologare la disciplina sugli accessori del credito a quella dell’impresa in stato di insolvenza – anziché prevedere che il pagamento della quota capitale del debito, eseguito dall’organo straordinario di liquidazione (d’ora innanzi: OSL), abbia natura estintiva – sarebbe lesiva degli artt. 3, 5, 81, 97, 114 e 118 Cost.

1.1.– Più precisamente, il giudice a quo assume che l’inesigibilità solo temporanea degli accessori del credito per gli enti in dissesto, analogamente a quanto previsto per l’imprenditore insolvente sottoposto a procedura concorsuale (art. 154 del d.lgs. n. 14 del 2019), sarebbe costituzionalmente illegittima per contrasto con il principio di uguaglianza, poiché equipara, sul piano normativo, situazioni ontologicamente diverse, essendo i comuni enti esponenziali della collettività amministrata, non assimilabili ai privati.

Sarebbe altresì leso il principio di ragionevolezza, poiché la vigente disciplina sugli accessori del credito attribuirebbe ai creditori degli enti locali in dissesto una tutela eccessiva, a scapito della collettività di cui il comune è espressione.

Il regime normativo degli accessori del credito nei confronti dell’ente dissestato contrasterebbe, poi, con gli artt. 81 e 97, primo comma, Cost., per il rischio di generare dissesti in successione, così compromettendo il percorso dell’ente locale verso l’obiettivo primario dell’equilibrio di bilancio, rendendo irrealizzabile, «qualsiasi ragionevole progetto di risanamento, in tal modo entrando in collisione sia con il principio di equità intragenerazionale che intergenerazionale».

Il Consiglio di Stato ravvisa, altresì, un contrasto della norma censurata con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all’art. 97, secondo comma, Cost., poiché, nonostante la liquidazione dei debiti precedentemente accumulati, sarebbe ostacolato il ripristino della piena funzionalità dell’ente locale, il quale rimarrebbe esposto alle azioni dei creditori privati.

Sarebbero, infine, violati gli artt. 5, 114 e 118 Cost., poiché il regime di inesigibilità solo temporanea degli accessori dei crediti commerciali, consentendo una successione di dissesti finanziari “a catena”, sarebbe incompatibile con il ruolo assegnato dalla Costituzione al comune, quale ente di governo esponenziale delle comunità locali, «radicato nell’esperienza storico-istituzionale di queste ultime e, pertanto preposto all’esercizio delle funzioni amministrative e dei servizi rispondenti ai bisogni primari della persona».

1.2.– Riferisce il Giudice rimettente di essere stato adito dal Comune di Santa Venerina per la riforma della sentenza del TAR Lazio, sede di Roma, sezione seconda-bis, 18 agosto 2020, n. 9250, resa fra il medesimo Comune e la società Ingegneria & Appalti srl, nel giudizio di ottemperanza del lodo arbitrale richiamato nel Ritenuto in fatto, con cui il Comune di Santa Venerina era stato condannato a risarcire alla società i danni conseguenti alla risoluzione di una convenzione trentennale per la progettazione, la costruzione e la gestione degli impianti di trattamento delle acque destinate al consumo umano e da tavola, e che aveva portato l’ente alla deliberazione di dissesto.

Una volta conclusa la gestione liquidatoria – durante la quale l’OSL aveva pagato il debito alla società Ingegneria & Appalti srl in quota capitale e interessi, maturati fino alla data di deliberazione del dissesto – la medesima società aveva chiesto al Comune tornato in bonis il pagamento degli interessi maturati successivamente alla dichiarazione di dissesto, ai sensi dell’art. 248, comma 4, t.u. enti locali. A fronte del rifiuto dell’amministrazione di pagare gli ulteriori interessi, la società ha proposto il richiamato giudizio di ottemperanza, che è stato accolto in primo grado dal TAR. Nel corso dell’appello, il Consiglio di Stato ha sollevato le presenti questioni di legittimità costituzionale.

1.3.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che sia dichiarata anzitutto l’inammissibilità delle questioni, per omesso tentativo di interpretazione costituzionalmente orientata della norma e, in subordine, che la questione sia dichiarata non fondata poiché la scelta di equiparare – ai fini della sospensione degli interessi – la situazione sul dissesto degli enti locali a quella dell’impresa sottoposta a procedura concorsuale costituirebbe espressione dell’esercizio della discrezionalità del legislatore, sindacabile esclusivamente sotto il profilo della palese irragionevolezza, che non ricorrerebbe nel caso in esame.

2.– In via preliminare, deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa dello Stato, secondo cui il rimettente non avrebbe esperito il doveroso tentativo di interpretare l’art. 248, comma 4, t.u. enti locali in senso conforme a Costituzione.

Il Consiglio di Stato ha, infatti, espressamente escluso la praticabilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, affermando di non poter percorrere l’opzione ermeneutica prospettata dall’ente locale, sugli asseriti effetti estintivi del pagamento integrale della quota capitale da parte dell’OSL. A tale interpretazione, secondo il rimettente, osterebbe non solo il tenore letterale della disposizione, ma anche l’orientamento espresso da questa Corte, e da ultimo con la sentenza n. 269 del 1998, che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità avente ad oggetto la medesima norma, contenuta però nella previgente disposizione (art. 81, comma 4, del d.lgs. n. 77 del 1995, come modificato dal d.lgs. n. 336 del 1996). Nel precedente richiamato, questa Corte ha precisato che la norma in questione detta un regime d’inesigibilità (solo) temporanea degli accessori del credito, strumentale alla liquidazione della massa passiva dell’ente locale nell’ambito della procedura di dissesto e destinato a cessare con la chiusura delle attività dell’OSL.

Come questa Corte afferma, con indirizzo ormai costante, «l’effettivo esperimento del tentativo di una interpretazione costituzionalmente orientata – ancorché risolto dal giudice a quo con esito negativo per l’ostacolo ravvisato nella lettera della disposizione denunciata – consente di superare il vaglio di ammissibilità della questione incidentale sollevata. La correttezza o meno dell’esegesi presupposta dal rimettente – e, più in particolare, la superabilità o non superabilità degli ostacoli addotti a un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata – attiene invece al merito, e cioè alla successiva verifica di fondatezza della questione stessa» (da ultimo, sentenza n. 204 del 2021).

3.– Al fine dell’esame del merito, onde valutare le censure formulate in riferimento all’art. 3 Cost., giova premettere l’esame della disciplina sugli accessori del credito nella liquidazione giudiziale dell’impresa privata, che funge da tertium comparationis, e, specificamente, la norma che impone la sospensione del corso degli interessi, contenuta nel comma 1 dell’art. 154 del d.lgs. n. 14 del 2019, ai sensi del quale «[l]a dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale sospende il corso degli interessi convenzionali o legali, agli effetti del concorso, fino alla chiusura della procedura ovvero fino all’archiviazione disposta ai sensi dell’articolo 234, comma 7, a meno che i crediti non siano garantiti da ipoteca, da pegno o privilegio, salvo quanto è disposto dall’articolo 153, comma 3».

Tale disposizione ricalca sostanzialmente la precedente disciplina recata dagli artt. 55, comma 1, e 120 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), prima che il d.lgs. n. 14 del 2019, in attuazione della legge di delega n. 155 del 2017, adottasse una revisione organica e sistematica del regime concorsuale, al fine di dare unitarietà a una materia già oggetto di molteplici interventi legislativi.

In proposito, la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto la responsabilità del debitore insolvente, tornato in bonis, per gli interessi maturati nel corso della procedura concorsuale, pur essendo tutti i creditori già stati pagati integralmente per capitale e interessi nel corso della procedura (ex multis, Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 12 maggio 2021, n. 12559; sentenze 9 luglio 2020, n. 14527 e 19 giugno 2020, n. 11983), ed ha chiarito che la ratio di tale normativa risiede nel generale principio della responsabilità patrimoniale sancito dall’art. 2740 del codice civile, che si applica anche alle procedure concorsuali.

4.– Tanto premesso e passando all’esame del merito, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 248, comma 4, t.u. enti locali, sollevata in riferimento al principio di eguaglianza, non è fondata.

Il rimettente assume, quale tertium comparationis, l’art. 154 del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, che prevede la medesima sorte degli accessori del credito stabilita dalla disposizione censurata, consistente nell’asserita ingiustificata equiparazione, sul piano normativo, di situazioni ontologicamente diverse, posto che i comuni non sarebbero omologabili ai privati, essendo enti esponenziali della collettività amministrata.

4.1.– Questa Corte, nell’esaminare la disposizione – contenuta in una fonte previgente a quella oggetto dell’odierno scrutinio – relativa agli interessi sul debito degli enti locali, ha affermato che, in coerenza con le caratteristiche di una procedura concorsuale, la disposizione relativa agli accessori del credito ha la finalità di determinare esattamente la consistenza della massa passiva da ammettere al pagamento nell’ambito del dissesto dell’ente locale, ma essa «non implica la “estinzione” dei crediti non ammessi o residui, i quali, conclusa la procedura di liquidazione, potranno essere fatti valere nei confronti dell’ente risanato» (sentenza n. 269 del 1998). Ha altresì precisato, con riferimento al «blocco di rivalutazione ed interessi», in pendenza della procedura concorsuale, che tale meccanismo risulta finalizzato alla realizzazione della par condicio, oltre che a impedire un ulteriore deterioramento della condizione patrimoniale del debitore (sentenza n. 242 del 1994).

In sostanza, l’esigenza che le disposizioni poste a raffronto mirano a soddisfare afferisce specificamente alla condizione dei creditori – tanto dell’ente locale, quanto dell’imprenditore – di essere tutelati in modo analogo, ancorché l’ordinamento preveda misure atte ad assicurare la continuità delle funzioni dell’ente locale oltre il dissesto.

Emblematico, in proposito, è il disposto dell’art. 256, comma 12, t.u. enti locali, che prevede specificamente per l’ente locale in dissesto – in caso di incapienza della massa attiva, tale da comprometterne il risanamento – la possibilità per il Ministro dell’interno di stabilire misure straordinarie per il pagamento integrale della massa passiva della liquidazione, anche in deroga alle norme vigenti, senza oneri a carico dello Stato.

5.– Parimenti non è fondata la censura formulata in riferimento al principio di ragionevolezza.

L’assunto del giudice rimettente, secondo cui la vigente disciplina sugli accessori del credito attribuirebbe ai creditori degli enti locali in dissesto una tutela eccessiva a scapito della collettività di cui l’ente locale è esponenziale, non tiene conto del fatto che la disciplina sul dissesto (artt. 244 e seguenti t.u. enti locali) contiene una serie di misure volte a consentire, da un lato, che l’OSL gestisca il passivo pregresso (a tutela della massa dei creditori) e, dall’altro lato, che il comune continui a esistere e operare (in quanto ente necessario), con un bilancio autonomo e distinto da quello dell’OSL, finalizzato non solo a gestire gli affari correnti, connessi soprattutto ai servizi essenziali, ma pure ad accantonare risorse per il pagamento di eventuali debiti o accessori che dovessero generarsi in pendenza della gestione liquidatoria.

Le attuali norme sul dissesto sono dunque espressive di un bilanciamento non irragionevole tra l’esigenza, che è alla base della sicurezza dei traffici commerciali, che si correla all’art. 41 Cost., di tutelare i creditori e l’esigenza di ripristinare sia la continuità di esercizio dell’ente locale incapace di assolvere alle funzioni, sia i servizi indispensabili per la comunità locale.

Benché, dunque, con la separazione tra le attività finalizzate al risanamento e quelle di liquidazione della massa passiva, il dissesto abbia assunto una fisionomia che lo avvicina al fallimento dell’impresa, la normativa, complessivamente considerata, include anche dei correttivi, a tutela sia dell’ente locale – che deve continuare a esistere – sia dei creditori, che possono contare sul contributo a carico dello Stato (in tal senso, anche Consiglio di Stato, adunanza plenaria, 12 gennaio 2022, n. 1).

6.– Prive di fondamento sono anche le censure formulate in riferimento agli artt. 5, 81, 97, primo e secondo comma, 114 e 118 Cost.

Secondo il rimettente, la disposizione denunciata sarebbe idonea a innescare una serie di dissesti “a catena”, così da compromettere irrimediabilmente il raggiungimento dell’equilibrio di bilancio e della piena funzionalità dell’ente locale, ponendosi in contrasto con il ruolo assegnato al comune dalla Costituzione.

Tale valutazione non è condivisibile.

Deve invero osservarsi che la particolare fattispecie da cui origina il giudizio a quo riguarda un Comune di piccole dimensioni, che aveva però generato un debito ingente. Il dissesto “a catena”, che il rimettente imputa all’art. 248, comma 4, t.u. enti locali, non è la conseguenza diretta della norma, ma è attribuibile piuttosto a scelte amministrative dell’ente, il quale – nella pendenza della procedura di dissesto – avrebbe dovuto apprestare misure, anche contabili, idonee a garantire il più rapido ripristino dell’equilibrio finanziario (artt. 259 e seguenti t.u. enti locali).

In proposito, questa Corte ha già ribadito che il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione rappresenta un «“obiettivo prioritario […] non solo per la critica situazione economica che il ritardo ingenera nei soggetti creditori, ma anche per la stretta connessione con l’equilibrio finanziario dei bilanci pubblici, il quale viene intrinsecamente minato dalla presenza di situazioni debitorie non onorate tempestivamente” (sentenza n. 250 del 2013)» (sentenza n. 78 del 2020).

Nel caso oggetto del giudizio a quo, ad esempio, la possibile nuova dichiarazione di dissesto a cui – si assume – sarebbe esposto il Comune di Santa Venerina non è dunque imputabile alla norma censurata, ma rappresenta piuttosto un inconveniente di fatto, inidoneo, da solo, a fondare un profilo di legittimità costituzionale (ex multis, sentenze n. 220 del 2021, n. 115 del 2019, n. 225 del 2018).

Peraltro, come questa Corte ha già chiarito, il quadro normativo e quello costituzionale vigenti consentono di affrontare le situazioni patologiche della finanza locale, sia quando queste siano imputabili a caratteristiche socio-economiche della collettività e del territorio, mediante l’attivazione dei meccanismi di solidarietà previsti dall’art. 119, terzo e quinto comma, Cost. (quindi, in ipotesi di deficit strutturali); sia quando le disfunzioni sono dovute a patologie organizzative, per il rilievo e contrasto delle quali il decreto-legge 10 ottobre 2012, n. 174 (Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012), convertito, con modificazioni, nella legge 7 dicembre 2012, n. 213, ha previsto strumenti puntuali e coordinati per prevenire situazioni di degrado progressivo nella finanza locale (sentenza n. 115 del 2020).

Seppur con riferimento a leggi regionali, questa Corte ha altresì ribadito che le norme che comportino spese, quando non siano connesse a prestazioni riconducibili a diritti fondamentali, sono assoggettate al «principio della sostenibilità economica» (ex multis, sentenze n. 190 del 2022, n. 62 del 2020 e, nello stesso senso, n. 227 del 2019). In altri termini, un comune, nell’assumere un impegno di spesa pluridecennale, dovrebbe prestare idonea considerazione alla relativa sostenibilità finanziaria, con l’indicazione delle risorse effettivamente disponibili, con studi di fattibilità di natura tecnica e finanziaria e con l’articolazione delle singole coperture finanziarie (sentenza n. 227 del 2019), a presidio della sana gestione finanziaria.

Deve tuttavia osservarsi che, nel caso oggi all’esame di questa Corte, il profilo dell’esposizione debitoria per interessi passivi per ritardati pagamenti assume particolare rilievo, anche «in considerazione […] del loro specifico e oneroso criterio di calcolo, [che] riduce le effettive risorse da destinare alle finalità istituzionali» (sentenza n. 78 del 2020).

7.– Il tema dell’imputabilità all’ente risanato dei debiti non soddisfatti dall’OSL è stato peraltro segnalato di recente dall’Osservatorio sulla finanza e la contabilità degli enti locali istituito presso il Ministero dell’interno («Criticità finanziarie degli enti locali. Cause e spunti di riflessione per una riforma delle procedure di prevenzione e risanamento», pubblicato il 12 luglio 2019), il quale, nel valutare gli strumenti posti in essere dal legislatore per fronteggiare le situazioni di crisi degli enti locali – segnatamente, il dissesto, il dissesto guidato e la procedura di riequilibrio finanziario – ne ha messo in luce gli aspetti problematici, riferiti in particolare alla facoltà concessa ai creditori di rifiutare la proposta transattiva formulata dall’OSL, ovvero di chiedere all’ente tornato in bonis eventuali interessi maturati nel corso della procedura.

In questa prospettiva, il legislatore, nell’apprestarsi a riformare la normativa sulla crisi finanziaria degli enti locali, potrà prestare adeguata attenzione alle diverse esigenze che si contrappongono.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 248, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 5, 81, 97, 114 e 118 della Costituzione, dal Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, sezione quinta, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 ottobre 2022.

F.to:

Silvana SCIARRA, Presidente

Angelo BUSCEMA, Redattore

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 ottobre 2022.