Sentenza n. 174 del 2021

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SENTENZA N. 174

ANNO 2021

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giancarlo CORAGGIO

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 26 ottobre 2010, n. 204 (Attuazione della direttiva 2008/51/CE, che modifica la direttiva 91/477/CEE relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi), nella parte in cui – nel riformulare l’art. 35 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) – prevede al comma 8 la pena dell’arresto da sei mesi a due anni e dell’ammenda da 4.000 euro a 20.000 euro per la contravvenzione che punisce la violazione degli obblighi posti a carico dell’armaiolo dallo stesso art. 35, promosso dal Tribunale ordinario di Savona, sezione penale, con ordinanza del 15 settembre 2020, iscritta al n. 16 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 7 luglio 2021 il Giudice relatore Augusto Antonio Barbera;

deliberato nella camera di consiglio del 7 luglio 2021.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 15 settembre 2020 (r.o. n. 16 del 2021), il Tribunale ordinario di Savona, sezione penale, ha sollevato, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 26 ottobre 2010, n. 204 (Attuazione della direttiva 2008/51/CE, che modifica la direttiva 91/477/CEE relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi).

La norma è censurata nella parte in cui – nel riformulare l’art. 35 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) – prevede al comma 8 la pena dell’arresto da sei mesi a due anni e dell’ammenda da 4.000 euro a 20.000 euro per la contravvenzione che punisce la violazione degli obblighi posti a carico dell’armaiolo dai commi da 1 a 5 dello stesso art. 35 TULPS, in precedenza sanzionata con la pena dell’arresto da tre mesi a un anno e dell’ammenda non inferiore a lire cinquantamila.

2.– Il giudizio principale è volto ad accertare la responsabilità penale di S. G., imputato del reato previsto dall’art. 35, commi 1 e 8, TULPS per avere, in qualità di legale rappresentante dell’omonima armeria, titolare di licenza per la vendita e il deposito per fini di commercio di armi comuni da sparo, raccolto trentacinque armi lunghe senza annotarle nel registro delle operazioni giornaliere.

Nel corso del dibattimento, il difensore dell’imputato ha eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 204 del 2010, che modifica l’art. 35 TULPS, in quanto emanato in violazione dei limiti stabiliti dalla delega approvata con legge 7 luglio 2009, n. 88 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 2008).

2.1.– In ordine alla rilevanza della questione, il rimettente deduce che dagli esiti dell’istruttoria è emerso che l’imputato ricade nella definizione normativa di «armaiolo» prevista dall’art. 1-bis, comma 1, lettera g), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 527 (Attuazione della direttiva 91/477/CEE relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi) e che lo stesso ha effettivamente omesso di annotare nel registro richiamato dall’art. 35, comma 1, TULPS, la detenzione di trentacinque armi da sparo, senza che possano al riguardo ravvisarsi ragioni per pronunciare una sentenza di proscioglimento.

Risalendo la condotta contestata al 18 aprile 2017, la sussunzione del fatto nella fattispecie contravvenzionale in esame comporterebbe l’applicazione della sanzione di cui al comma 8 dell’art. 35 TULPS, nella versione introdotta dalla norma censurata, entrata in vigore il 1° luglio 2011 ex art. 8, comma 1 del d.lgs. n. 204 del 2010.

Nella prospettazione del rimettente la rilevanza della questione discende, quindi, dal fatto che l’invocata dichiarazione di illegittimità costituzionale comporterebbe l’immediata reviviscenza dell’art. 35 TULPS, nella sua formulazione precedente, con conseguente applicazione di un trattamento sanzionatorio più mite.

2.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente deduce che l’art. 3, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 204 del 2010 – nella parte in cui interviene sull’art. 35 TULPS, aggravando il trattamento sanzionatorio della contravvenzione in esame (con l’introduzione, al contempo, di modifiche solo marginali al precetto) – appare in contrasto con l’art. 76 Cost., avendo il legislatore delegato superato i limiti di oggetto o, comunque, violato i principi e criteri direttivi, generali e speciali, dettati in materia di sanzioni rispettivamente dagli artt. 2, comma 1, lettera c), e 36, comma 1, lettera n), della legge n. 88 del 2009.

Al riguardo, il giudice a quo evidenzia che, in base all’indicato art. 36, comma 1, lettera n), il potere delegato attiene all’«introduzione di sanzioni penali, nei limiti di pena di cui alla legge 2 ottobre 1967, n. 895, ed alla legge 18 aprile 1975, n. 110» e che la previsione della sola introduzione di nuove sanzioni penali costituirebbe un preciso limite al potere conferito al legislatore delegato, che non avrebbe la possibilità di incidere sulle sanzioni già esistenti, né aggravando né mitigando il relativo trattamento.

Una tale lettura sarebbe confermata dal citato art. 2, comma 1, lettera c), che, nel dettare i criteri generali cui deve attenersi il legislatore delegato nell’introdurre nuove fattispecie penali o illeciti amministrativi, limita la delega «al di fuori dei casi previsti dalle norme penali vigenti».

Tale interpretazione della legge delega sarebbe ulteriormente avvalorata da un ulteriore criterio generale contenuto nella diposizione da ultimo richiamata, laddove prevede che «[e]ntro i limiti di pena indicati nella presente lettera [ammenda fino a 150.000 euro e arresto fino a tre anni] sono previste sanzioni identiche a quelle eventualmente già comminate dalle leggi vigenti per violazioni omogenee e di pari offensività rispetto alle infrazioni alle disposizioni dei decreti legislativi».

In sostanza, ad avviso del rimettente, la disposizione di cui all’art. 2, comma 1, lettera c), della legge n. 88 del 2009 si aprirebbe con una clausola di sussidiarietà in forza della quale è escluso il potere del legislatore delegato nei casi in cui la materia è già regolata da una norma penale ed aggiungerebbe il vincolo di prevedere, per le nuove fattispecie penali, sanzioni identiche a quelle esistenti per violazioni omogenee e di pari offensività.

Il giudice a quo osserva infine che, anche qualora si volesse, per assurdo, ritenere conferito al legislatore delegato il potere di incidere su sanzioni penali esistenti, il vincolo di cui all’art. 2, comma 1, lettera c), da ultimo indicato, avrebbe comunque imposto nel caso di specie di confermare il trattamento sanzionatorio originario, attesa la continuità e sostanziale sovrapponibilità tra le fattispecie penali previste dall’art. 35 TULPS nell’attuale versione e in quella previgente. In proposito, il rimettente sostiene infatti che il d.lgs. n. 204 del 2010 si sarebbe limitato a sostituire i riferimenti alle diverse figure professionali previste dalla disciplina in materia di armi con un richiamo alla nozione unitaria di armaiolo e ad aggiungere, rispetto ai precedenti obblighi, prescrizioni meramente accessorie che non modificano nella sostanza l’area centrale del precetto penale.

2.3.– Da ultimo, il rimettente esclude la possibilità di una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata mediante il ricorso ai criteri letterale, storico, sistematico e teleologico, prendendo in considerazione, a tale ultimo riguardo, anche l’art. 16 della direttiva 91/477/CEE del Consiglio del 18 giugno 1991 relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi, come modificato dalla direttiva 2008/51/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 maggio 2008, secondo cui «[g]li Stati membri stabiliscono le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle disposizioni nazionali adottate in attuazione della presente direttiva e adottano ogni misura necessaria per assicurarne l’esecuzione», fermo restando che «le sanzioni previste devono essere efficaci, proporzionate e dissuasive». Nemmeno tale disposizione consentirebbe invero un’interpretazione adeguatrice della norma censurata, in ragione dell’ampia discrezionalità che essa riconosce al legislatore interno nella definizione degli strumenti da adottare per dare effettività alla direttiva comunitaria.

3.– Con atto depositato il 9 marzo 2021 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata infondata.

L’interveniente rammenta anzitutto che, per costante giurisprudenza di questa Corte, al legislatore delegato deve essere riconosciuto un margine di discrezionalità nell’attuazione della delega, sempre che il suo intervento ne rispetti la ratio e si inserisca in modo coerente nel relativo quadro normativo. In relazione all’ipotesi di delega finalizzata all’attuazione di una direttiva europea, vengono inoltre richiamate le pronunce secondo cui i principi dettati dalle direttive si aggiungono a quelli indicati dal legislatore nazionale, assumendo valore di parametro interposto e potendo così autonomamente giustificare l’intervento del legislatore delegato.

Fatta questa premessa generale, l’Avvocatura esclude tanto la violazione dei principi e criteri generali previsti dall’art. 2, comma l, lettera c), della legge n. 88 del 2009 quanto di quelli specifici indicati nel successivo art. 36, comma 1, lettera. n). La norma censurata rispetterebbe infatti entrambe le disposizioni, avendo modificato la struttura e il trattamento sanzionatorio del reato previsto dall’art. 35 TULPS senza superare i limiti di pena previsti dalla legge delega e senza sovrapporsi ad altra fattispecie criminosa.

Inoltre, l’interpretazione dell’espressione «introduzione di sanzioni penali» di cui all’art. 36, comma 1, lettera n), comprenderebbe certamente anche la modifica di sanzioni relative a reati preesistenti, considerato che, altrimenti, sarebbe stata usata un’espressione letterale diversa, dichiaratamente diretta a limitare l’intervento del legislatore delegato alla sola introduzione di nuove figure di illecito.

Allo stesso riguardo, l’Avvocatura evidenzia che la lettura del giudice a quo sarebbe, in ogni caso, non coerente con la ratio della legge delega per come individuata dalla direttiva comunitaria oggetto di attuazione. Invero, proprio l’art. 16 della direttiva 91/477/CEE invocato dal rimettente, riconoscendo agli Stati membri la più ampia libertà di scelta nello stabilire sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive da irrogare in caso di violazione delle disposizioni nazionali adottate in attuazione della direttiva, garantirebbe al legislatore delegato anche il potere di modificare i trattamenti sanzionatori di ipotesi di reato già esistenti.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 15 settembre 2020 (r.o. n. 16 del 2021), il Tribunale ordinario di Savona, sezione penale, ha sollevato, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 26 ottobre 2010, n. 204 (Attuazione della direttiva 2008/51/CE, che modifica la direttiva 91/477/CEE relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi), nella parte in cui – nel riformulare l’art. 35 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) – prevede al comma 8 la pena dell’arresto da sei mesi a due anni e dell’ammenda da 4.000 euro a 20.000 euro per la contravvenzione inerente la violazione degli obblighi posti a carico dell’armaiolo dai commi da 1 a 5 dello stesso art. 35 TULPS, in precedenza sanzionata al comma 6 con la pena dell’arresto da tre mesi a un anno e dell’ammenda non inferiore a lire cinquantamila.

La norma censurata sarebbe in contrasto con l’art. 76 Cost. perché incide sul trattamento sanzionatorio della contravvenzione indicata, laddove i principi e i criteri direttivi dettati in tema di sanzioni dagli artt. 2, comma 1, lettera c), e 36, comma 1, lettera n), della legge delega 7 luglio 2009, n. 88 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 2008) avrebbero consentito la sola introduzione di nuove ipotesi di reato e non la modifica di sanzioni penali relative a incriminazioni già esistenti.

Il disposto aggravamento del trattamento sanzionatorio violerebbe, in primo luogo, il criterio specifico – stabilito per l’attuazione della «direttiva 2008/51/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 maggio 2008 che modifica la direttiva 91/477/CEE del Consiglio, relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi» – che imponeva al Governo di «prevedere l’introduzione di sanzioni penali, nei limiti di pena di cui alla legge 2 ottobre 1967, n. 895, ed alla legge 18 aprile 1975, n. 110» (art. 36, comma 1, lettera n), in quanto per sanzioni “nuove” dovrebbero intendersi esclusivamente quelle relative ad incriminazioni introdotte per la prima volta dal legislatore delegato.

Il medesimo aggravamento contrasterebbe, altresì, con il criterio generale della delega – valido per l’attuazione di tutte le direttive recepite dalla legge comunitaria 2008 – che ammetteva, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lettera c), l’introduzione di sanzioni «al di fuori dei casi previsti dalle norme penali vigenti», espressione che precluderebbe la modifica del trattamento sanzionatorio di reati preesistenti.

Da ultimo, il giudice a quo argomenta invocando il criterio generale delle sanzioni identiche, sancito dall’art. 2, comma 1, lettera c), della legge n. 88 del 2009, in base al quale «[e]ntro i limiti di pena indicati nella presente lettera [ammenda fino a 150.000 euro e arresto fino a tre anni] sono previste sanzioni identiche a quelle eventualmente già comminate dalle leggi vigenti per violazioni omogenee e di pari offensività rispetto alle infrazioni alle disposizioni dei decreti legislativi». Sul punto, il rimettente evidenzia che, se si volesse, per assurdo, ritenere conferito al legislatore delegato il potere di incidere sulle sanzioni penali esistenti, il vincolo da ultimo indicato avrebbe comunque imposto nel caso di specie di confermare il trattamento sanzionatorio originario, attesa la continuità e sostanziale sovrapponibilità tra le fattispecie penali previste dall’art. 35 TULPS nell’attuale versione e in quella previgente.

2.– La questione non è fondata.

2.1.– La giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che la delega legislativa non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato, la quale può essere più o meno ampia, in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella legge delega: pertanto, al fine di valutare se lo stesso legislatore delegato abbia ecceduto da tali margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia con questa coerente (ex plurimis, sentenze n. 142 del 2020, n. 96 del 2020 e n. 10 del 2018).

Al contempo, il contenuto della delega e dei relativi principi e criteri direttivi deve essere identificato accertando il complessivo contesto normativo e le finalità che la ispirano, tenendo conto che i principi posti dal legislatore delegante costituiscono non solo la base e il limite delle norme delegate, ma strumenti per l’interpretazione della loro portata. Queste vanno, quindi, lette nel significato compatibile con detti principi, i quali, a loro volta, vanno interpretati avendo riguardo alla ratio della delega ed al complessivo quadro di riferimento in cui si inscrivono (sentenze n. 170 del 2019, n. 10 del 2018 e n. 210 del 2015).

In punto di sanzioni, questa Corte ha altresì chiarito che il legislatore delegante deve adottare criteri direttivi configurati in modo assai preciso, sia definendo la specie e l’entità massima delle pene, sia dettando il criterio, in sé restrittivo, del ricorso alla sanzione penale solo per la tutela di determinati interessi rilevanti (sentenze n. 49 del 1999 e n. 53 del 1997, ordinanza n. 134 del 2003). Per la materia penale è infatti più elevato il grado di determinatezza richiesto per le regole fissate nella legge delega, questo perché il controllo sul rispetto dell’art. 76 Cost. da parte del Governo è anche strumento di garanzia del principio della riserva di legge (art. 25, secondo comma, Cost.), che attribuisce al Parlamento funzione centrale nella individuazione dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili (sentenze n. 127 del 2017 e n. 5 del 2014).

2.2.– Ciò premesso, occorre evidenziare che i criteri direttivi contenuti nella legge delega n. 88 del 2009 per l’attuazione della direttiva 2008/51/CE sono previsti sia nell’art. 2, sia nell’art. 36.

Nell’art. 2 sono enunciati i criteri che hanno carattere generale, in quanto riferiti all’insieme dei decreti legislativi che dovevano essere adottati dal Governo per dare attuazione alle numerose direttive comunitarie elencate negli allegati alla medesima legge.

I criteri specifici per il recepimento della suddetta direttiva risultano elencati all’art. 36. Tale disposizione sancisce espressamente che nell’attuazione della direttiva il Governo debba seguire detti criteri congiuntamente a quelli generali di cui all’art. 2. Nel caso di specie, quindi, poiché i criteri specifici non costituiscono deroga a quelli generali, entrambi sono egualmente posti a base della delega legislativa e – dovendosi integrare reciprocamente – vanno coordinati per essere interpretati in termini unitari (sentenza n. 49 del 1999).

2.3.– Esaminando per primo il criterio specifico di cui all’art. 36, comma 1, lettera n), in materia di sanzioni deve escludersi che la norma censurata lo violi.

Esso stabilisce che il legislatore delegato è tenuto a «prevedere l’introduzione di sanzioni penali, nei limiti di pena di cui alla legge 2 ottobre 1967, n. 895 ed alla legge 18 aprile 1975, n. 110, per le infrazioni alle disposizioni della legislazione nazionale di attuazione della direttiva 2008/51/CE».

Invero, se per un verso vengono correttamente osservati gli ampi limiti edittali previsti dalle leggi testé richiamate, al contempo non può essere condivisa l’interpretazione del giudice a quo secondo cui la previsione, in detta disposizione, della delega alla «introduzione di sanzioni penali» escluderebbe la possibilità di incidere su quelle già esistenti, ammettendo la previsione di trattamenti sanzionatori esclusivamente se attinenti a nuove ipotesi di reato.

Tale interpretazione non risulta suffragata dalla lettera della disposizione: per «introduzione di sanzioni» deve infatti intendersi la loro previsione in relazione sia a fattispecie previgenti, eventualmente modificate anche nel precetto, sia a ipotesi di reato inserite ex novo nell’ordinamento dal legislatore delegato.

La lettura del rimettente non è comunque coerente con la ratio della legge delega, rappresentata – secondo l’espressa intenzione del legislatore – dall’attuazione della direttiva 2008/51/CE, intesa come recepimento delle prescrizioni ivi contenute in uno con la finalità di conseguire il grado più elevato possibile di ottemperanza alle medesime.

2.4.– L’analisi dei lavori parlamentari, del resto, conferma questa conclusione.

Nel parere favorevole espresso il 30 settembre 2010 allo schema di decreto legislativo in esame, la I Commissione permanente presso la Camera dei deputati (Affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni) – con riguardo al trattamento sanzionatorio concernente i reati ivi disciplinati, inclusa la contravvenzione prevista a carico dell’armaiolo dall’art. 35 TULPS – ha riconosciuto espressamente in capo al legislatore delegato il potere di aggravare le sanzioni relative a fattispecie incriminatrici preesistenti. In particolare, nell’atto richiamato, si legge che il legislatore delegato ha inteso perseguire «la finalità pienamente condivisibile di conseguire il grado più elevato possibile di ottemperanza alle disposizioni di legge in materia di armi, prevede[ndo] un significativo inasprimento delle sanzioni penali, soprattutto pecuniarie, previste dall’ordinamento per alcuni reati connessi con le armi».

2.5.– Peraltro il criterio specifico in esame va letto alla luce dell’art. 16 della direttiva 91/477/CEE, come sostituito dall’art. 1, numero 11), della direttiva 2008/51/CE, che riconosce ampia discrezionalità al legislatore interno nella definizione degli strumenti da adottare per dare effettività al provvedimento europeo, compreso quindi quello di intervenire sui trattamenti sanzionatori previgenti. Agli Stati membri viene, infatti, conferita libertà di scelta nello stabilire le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle disposizioni nazionali adottate in attuazione della direttiva, purché siano «efficaci, proporzionate e dissuasive».

2.6.– Alla stregua di quanto evidenziato, deve concludersi che non era precluso al legislatore delegato, nell’ambito dei criteri di cui all’art. 36, comma 1, lettera n), della legge n. 88 del 2009, rivedere anche l’impianto sanzionatorio delle fattispecie incriminatrici rientranti nell’oggetto della delega. In particolare, nel dare attuazione alla direttiva 2008/51/CE, con la disposizione censurata il legislatore delegato ha proceduto alla riformulazione dell’art. 35 TULPS, ampliando l’area penalmente rilevante con la contestuale estensione dei soggetti attivi del reato (ricondotti alla nozione unitaria di armaiolo) e la previsione di obblighi aggiuntivi a carico dei medesimi, ed ha aggravato – proprio al fine di assicurare l’osservanza di tali obblighi – il precedente trattamento sanzionatorio mediante l’individuazione di una sanzione ritenuta più efficace, proporzionata e dissuasiva, nel rispetto in ogni caso dei limiti di pena di cui alla citata lettera n).

2.7.– Non risultano nemmeno violati i criteri generali contenuti nell’art. 2, comma 1, lettera c), che riguardano l’attuazione di tutte le numerose direttive cui il Governo è tenuto a dare attuazione.

In questo quadro, l’inciso «al di fuori dei casi previsti dalle norme penali vigenti», con cui si apre la lettera in questione, non può intendersi – come ritiene il rimettente – nel senso che dette norme fossero tutte intangibili con preclusione per il legislatore delegato di incidere sulla legislazione esistente, laddove la medesima disposizione anzi consentiva, «ove necessario per assicurare l’osservanza delle disposizioni contenute nei decreti legislativi», la previsione di sanzioni penali oltre che amministrative, entro definiti limiti qualitativi e quantitativi. Ciò sarebbe incongruo – come già statuito da questa Corte con riguardo ad un criterio direttivo analogo a quello in esame – «poiché la delega conferita per l’attuazione di numerose direttive comunitarie nei campi più diversi comportava necessariamente il potere-dovere del Governo di dettare discipline sostanziali suscettibili di integrarsi con la normativa preesistente nella materia, innovandola anche profondamente ove ciò fosse richiesto dalle esigenze di attuazione delle norme comunitarie, e quindi anche adattando le previsioni sanzionatorie alla nuova disciplina sostanziale» (sentenza n. 456 del 1998).

La clausola in questione deve quindi interpretarsi, «in senso più restrittivo, come intesa a precludere al Governo la possibilità di incidere […] sulla disciplina penale più generale, di fonte codicistica o comunque afferente ad ambiti e ad interessi che, per quanto implicati anche nella nuova normativa, in essa non si esauriscano» (sentenza n. 456 del 1998).

Ciò è confermato dall’ultimo inciso della medesima lettera c) secondo cui, «entro i limiti di pena indicati nella presente lettera» (ammenda fino a 150.000 euro e arresto fino a tre anni), «sono previste sanzioni identiche a quelle eventualmente già comminate dalle leggi vigenti per violazioni che siano omogenee e di pari offensività rispetto alle infrazioni alle disposizioni dei decreti legislativi» disciplinate dalla legislazione delegata. Il riferimento è, invero, a sanzioni «previste dalla legislazione previgente riguardo ad oggetti diversi da quelli cui la delega si riferisce e destinate a rimanere immutate appunto perché estranee all’ambito della delega» (sentenza n. 456 del 1998).

Inoltre, posto che il criterio generale delle sanzioni identiche non si applica ai rapporti tra norme incriminatrici preesistenti rientranti nell’oggetto della delega e norme modificative delle medesime, ma solo ai rapporti tra incriminazioni attinenti ad oggetti diversi, si rivela del tutto erroneo un ulteriore argomento del giudice rimettente: quello secondo cui – anche ad ammettere, per assurdo, che al legislatore delegato fosse conferito il potere di modificare norme incriminatrici – il criterio indicato avrebbe imposto di confermare per la nuova fattispecie di cui all’art. 35 TULPS l’originario trattamento sanzionatorio. Ed infatti, assumendo rilievo nel caso di specie un’ipotesi di successione di leggi penali “modificativa”, il criterio delle sanzioni identiche è in tutta evidenza non pertinente.

2.8.– In conclusione qquesta Corte ritiene che il Governo non abbia travalicato i fisiologici margini di discrezionalità impliciti in qualsiasi legge di delegazione, essendosi mantenuto entro il perimetro sancito dal legittimo esercizio delle valutazioni che gli competono nella fase di attuazione della delega, «nel rispetto della ratio di quest’ultima e in coerenza con esigenze sistematiche proprie della materia penale» (sentenza n. 127 del 2017). Dal che discende la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale di Savona, sezione penale, dell’art. 3, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 204 del 2010, nella parte in cui modifica l’art. 35, comma 8, TULPS.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 26 ottobre 2010, n. 204 (Attuazione della direttiva 2008/51/CE, che modifica la direttiva 91/477/CEE relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi), nella parte in cui modifica l’art. 35, comma 8, del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), sollevata, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Savona, sezione penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Augusto Antonio BARBERA, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 26 luglio 2021.