Sentenza n. 15 del 2020

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SENTENZA N. 15

ANNO 2020

 

Commento alla decisione di

Francesco Lazzeri

Un nuovo monito dalla Corte costituzionale al legislatore per la riforma della disciplina in materia di pena pecuniaria

per g.c. di Sistema Penale

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Marta CARTABA;

Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 135 del codice penale, promosso dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione terza penale, nel procedimento penale a carico di S. E., con ordinanza del 27 novembre 2018, iscritta al n. 86 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2019.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 15 gennaio 2020 il Giudice relatore Francesco Viganò;

deliberato nella camera di consiglio del 16 gennaio 2020.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 27 novembre 2018, iscritta al n. 86 del registro ordinanze 2019, il Tribunale ordinario di Firenze, sezione terza penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 135 del codice penale, nella parte in cui stabilisce il tasso di ragguaglio tra pene pecuniarie e detentive in ragione di 250 euro, o frazione di 250 euro, per un giorno di pena detentiva, anziché il diverso tasso, previsto dall’art. 459, comma 1-bis, del codice di procedura penale, di 75 euro per un giorno di pena detentiva, aumentabili fino al triplo tenuto conto della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare.

1.1.– L’ordinanza di rimessione è stata pronunciata nel procedimento a carico di S. E. per il delitto di minaccia aggravata. Alla prima udienza, l’imputato aveva proposto richiesta di patteggiamento, chiedendo l’applicazione della pena di venti giorni di reclusione, sostituita nella multa di 1.500 euro, determinata al tasso di 75 euro per ogni giorno di pena detentiva.

Il rimettente sottolinea che, allo stato, l’istanza dell’imputato non potrebbe essere accolta, a essa ostando il disposto dell’art. 135 cod. pen., il quale prevede che quando, per ogni effetto giuridico, si deve eseguire un ragguaglio tra pene pecuniarie e pene detentive, il computo ha luogo calcolando 250 euro, o frazione di 250 euro, di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva. Tale criterio di ragguaglio è espressamente richiamato dall’art. 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), che consente al giudice di sostituire la pena detentiva di durata non superiore a sei mesi con la pena pecuniaria della specie corrispondente, a un tasso di ragguaglio per ogni giorno di pena detentiva di ammontare non inferiore alla somma indicata dall’art. 135 cod. pen. e non superiore a dieci volte tale ammontare.

1.2.– Il giudice a quo ritiene, tuttavia, che la disciplina dettata dall’art. 135 cod. pen. contrasti con gli artt. 3 e 27 Cost., nella parte in cui – per l’appunto – fissa il tasso di ragguaglio a 250 euro giornalieri e non già alla diversa e più favorevole misura stabilita – nell’ambito del procedimento per decreto – dall’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen., che l’imputato nel giudizio a quo vorrebbe si applicasse nei propri confronti.

1.3.– Quanto alla dedotta lesione dell’art. 3 Cost., il rimettente evidenzia anzitutto che, a seguito dell’introduzione dell’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen., per effetto dell’art. 1, comma 53, della legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), nell’ordinamento operano due diversi tassi di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria: da un lato, quello – più favorevole per l’imputato – che ragguaglia un giorno di pena detentiva a una somma compresa tra 75 e 225 euro, previsto dalla disposizione di nuovo conio e applicabile al solo procedimento per decreto; dall’altro lato, quello delineato dall’art. 135 cod. pen. e richiamato dall’art. 53 della legge n. 689 del 1981, che tuttora equipara un giorno di pena detentiva a una somma compresa tra 250 e 2500 euro, ed è applicabile a tutti gli altri procedimenti.

Poiché – prosegue il rimettente – la richiesta di emissione del decreto penale di condanna è rimessa alla discrezionalità del pubblico ministero, i soggetti imputati del medesimo reato subirebbero un’irragionevole disparità di trattamento, a seconda che il pubblico ministero decida o meno di esercitare l’azione penale mediante richiesta di emissione di decreto penale.

Tale disparità di trattamento sarebbe peraltro in contrasto con l’indicazione – fornita dall’art. 53 della legge n. 689 del 1981 attraverso il richiamo all’art. 133-bis cod. pen. – a tener conto, nella determinazione dell’ammontare della pena sostitutiva, delle condizioni economiche dell’imputato; indicazione che sarebbe frustrata dalla disposizione censurata, la quale condurrebbe all’irrogazione di pene pecuniarie non commisurate né commisurabili alle sue reali condizioni economiche.

1.4.– La «impossibilità di graduare la pena al caso concreto» contrasterebbe, altresì, con la funzione rieducativa della pena, imposta dall’art. 27 Cost. Ciò in quanto, ad avviso del giudice a quo, «una pena “eccessiva” rispetto alle reali condizioni economiche del reo non è di fatto ottemperabile, con la evidente conseguenza che non sarà possibile perseguire e raggiungere uno degli obiettivi primari affidati dal legislatore alla pena, che è la funzione rieducativa».

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili o infondate.

2.1.– L’interveniente evidenzia anzitutto l’insufficienza della motivazione del giudice a quo in ordine alla rilevanza delle questioni. L’ordinanza di rimessione si limiterebbe a esporre che l’imputato ha chiesto l’applicazione, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., di una pena pecuniaria calcolata utilizzando un tasso di conversione inferiore a quello previsto dall’art. 135 cod. pen., senza chiarire né se l’imputato possa essere prosciolto ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., né se la pena così determinata sia congrua. Il rimettente non avrebbe dunque dimostrato di non poter definire il giudizio indipendentemente dalla soluzione delle questioni di legittimità costituzionale prospettate, sicché queste ultime sarebbero inammissibili.

2.2.– Le questioni sollevate sarebbero in ogni caso radicalmente infondate. Come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità (è citata Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 21 dicembre 2017-1° marzo 2018, n. 9400), la disposizione di cui all’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen., costituirebbe il frutto di una scelta discrezionale del legislatore, il quale, a evidenti fini deflattivi, ha introdotto, per il solo procedimento per decreto, un regime di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria più favorevole di quello previsto dall’art. 135 cod. pen., «in sintonia con la già prevista possibilità di diminuire la pena in misura maggiore rispetto agli altri riti semplificati».

La giurisprudenza costituzionale, del resto, sarebbe costante nel ritenere che le scelte legislative in materia di determinazione delle sanzioni penali sono insindacabili, salvo che trasmodino nell’irragionevolezza o nell’arbitrio (sono citate le sentenze n. 148 del 2017 [recte: n. 148 del 2016], n. 23 del 2016 e n. 81 del 2014).

In specie, la difformità del tasso di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria previsto dall’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen., rispetto a quello contemplato dall’art. 135 cod. pen, sarebbe riconducibile al corretto esercizio della discrezionalità legislativa, con conseguente insindacabilità della relativa scelta.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 135 del codice penale, nella parte in cui stabilisce il tasso di ragguaglio tra pene pecuniarie e detentive in ragione di 250 euro, o frazione di 250 euro, per un giorno di pena detentiva, anziché il diverso tasso, previsto dall’art. 459, comma 1-bis, del codice di procedura penale, di 75 euro per un giorno di pena detentiva, aumentabili fino al triplo tenuto conto della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare.

Il giudice a quo è investito di una richiesta di patteggiamento nella quale l’imputato chiede la sostituzione, ai sensi dell’art. 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), della pena della reclusione con quella della multa al tasso di conversione previsto dall’art. 459, comma 1-bis cod. proc. pen., introdotto dall’art. 1, comma 53, della legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario) con riferimento – però – al solo procedimento per decreto penale di condanna. L’istanza dovrebbe pertanto essere rigettata, dovendosi applicare alla sostituzione della pena detentiva in pena pecuniaria, in ogni altro procedimento, l’ordinario e meno favorevole criterio di conversione di cui all’art. 135 cod. pen.

Il rimettente ritiene, tuttavia, che la compresenza nel sistema – in seguito all’entrata in vigore, nel 2017, del menzionato art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen – di due diversi criteri di ragguaglio tra pena detentiva e pena pecuniaria determini una irragionevole disparità di trattamento tra imputati di fatti di reato identici, che consegue esclusivamente alla scelta discrezionale del pubblico ministero di esercitare l’azione penale nelle forme del rito ordinario ovvero con decreto penale di condanna.

L’applicazione del tasso di ragguaglio di cui all’art. 135 cod. pen. condurrebbe, d’altra parte, alla irrogazione di pene pecuniarie eccessive rispetto alle reali condizioni economiche del reo e, pertanto, in contrasto con la funzione rieducativa della pena.

2.– Le questioni sono inammissibili.

2.1.– Il problema che fa da sfondo alle questioni sollevate è, invero, reale.

L’art. 53, comma 2, della legge n. 689 del 1981, nel prevedere la possibilità di sostituzione della pena detentiva nel limite dei sei mesi con la pena pecuniaria, stabilisce, tra l’altro, che «[p]er determinare l’ammontare della pena pecuniaria il giudice individua il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva. Nella determinazione dell’ammontare di cui al precedente periodo il giudice tiene conto della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare. Il valore giornaliero non può essere inferiore alla somma indicata dall’art. 135 del codice penale e non può superare di dieci volte tale ammontare».

Ora, il tasso di ragguaglio previsto dall’art. 135 cod. pen. – già fissato dall’art. 1 della legge 5 ottobre 1993, n. 402 (Modifica dell’articolo 135 del codice penale: ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive), in 75.000 lire per ogni giorno di pena detentiva, poi convertite in 38 euro – è stato innalzato a 250 euro giornalieri per effetto della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica).

Tale aumento ha fatto sì che – in forza del richiamo all’art. 135 cod. pen. contenuto nell’art. 53 della legge n. 689 del 1981, pacificamente considerato quale rinvio “mobile” – il valore giornaliero minimo della pena pecuniaria sostituita alla pena detentiva sia attualmente pari a 250 euro. Il risultato è stato quello di rendere eccessivamente onerosa, per molti condannati, la sostituzione della pena pecuniaria, sol che si pensi che – ad esempio – il minimo legale della reclusione, fissato dall’art. 23 cod. pen. in quindici giorni, deve oggi essere sostituito in una multa di almeno 3.750 euro, mentre la sostituzione di sei mesi di reclusione (pari al limite massimo entro il quale può operare il meccanismo previsto dall’art. 53, comma 2, della legge n. 689 del 1981) dà a luogo a una multa non inferiore a 45.000 euro.

Ciò ha determinato, nella prassi, una drastica compressione del ricorso alla sostituzione della pena pecuniaria, che pure era stata concepita dal legislatore del 1981 – in piena sintonia con la logica dell’art. 27, terzo comma, Cost. – come prezioso strumento destinato a evitare a chi sia stato ritenuto responsabile di reati di modesta gravità di scontare pene detentive troppo brevi perché possa essere impostato un reale percorso trattamentale, ma già sufficienti a produrre i gravi effetti di lacerazione del tessuto familiare, sociale e lavorativo, che il solo ingresso in carcere solitamente produce. Con il conseguente rischio di trasformare la sostituzione della pena pecuniaria in un privilegio per i soli condannati abbienti: ciò che appare di problematica compatibilità con l’art. 3, secondo comma, Cost., il cui centrale rilievo nella commisurazione della pena pecuniaria è stato da tempo sottolineato dalla giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 131 del 1979).

2.2.– Tuttavia, le questioni oggi all’esame, aventi a oggetto l’art. 135 cod. pen., sono viziate da aberratio ictus; vizio che ha carattere assorbente rispetto ai diversi profili di inammissibilità denunciati dall’Avvocatura generale dello Stato.

Il rimettente è, come rilevato, investito di una istanza di patteggiamento, con la quale l’imputato chiede la sostituzione di una pena detentiva con una pena pecuniaria ai sensi dell’art. 53 della legge n. 689 del 1981.

Ora, l’art. 53 della legge n. 689 del 1981 fa rinvio all’art. 135 cod. pen., assumendo quale base del calcolo della pena da sostituire la somma ivi stabilita per ogni ipotesi in cui – evidentemente in difetto di altra più specifica disciplina – si debba eseguire un ragguaglio tra pene pecuniarie e pene detentive. Ma lo stesso art. 53 della legge n. 689 del 1981 detta per l’appunto una disciplina speciale rispetto a quella dell’art. 135 cod. pen., stabilendo che la somma indicata in quest’ultima disposizione – attualmente pari a 250 euro, o frazione di 250 euro, per ogni giorno di pena detentiva – possa essere aumentata sino a dieci volte, tenendo conto, nella determinazione dell’ammontare della pena pecuniaria, della condizione economica complessiva dell’imputato o del suo nucleo familiare.

Formulando questioni di legittimità costituzionale aventi a oggetto, invece, il solo art. 135 cod. pen., il giudice a quo da un lato censura una disposizione destinata ad operare in una pluralità di ipotesi – dalla conversione della pena detentiva in pena pecuniaria nel caso previsto dall’art. 2, comma 3, cod. pen., alla determinazione del limite massimo di pena che consente i benefici della sospensione condizionale e della non menzione della condanna ai sensi, rispettivamente, degli artt. 163, comma 1, e 175, comma 2, cod. pen. – del tutto distinte rispetto alla sostituzione della pena detentiva in pena pecuniaria, che viene in considerazione nel procedimento a quo; e dall’altro omette di censurare proprio la disposizione di cui all’art. 53 della legge n. 689 del 1981, che detta lo speciale criterio di ragguaglio applicabile nel caso concreto.

Dal che l’inammissibilità delle questioni sollevate.

3.– Le considerazioni poc’anzi svolte inducono, comunque, questa Corte a formulare l’auspicio che il legislatore intervenga a porre rimedio alle incongruenze evidenziate (supra, 2.1.), nel quadro di un complessivo intervento – la cui stringente opportunità è stata anche di recente segnalata (sentenza n. 279 del 2019) – volto a restituire effettività alla pena pecuniaria, anche attraverso una revisione degli attuali, farraginosi meccanismi di esecuzione forzata e di conversione in pene limitative della libertà personale. E ciò nella consapevolezza che soltanto una disciplina della pena pecuniaria in grado di garantirne una commisurazione da parte del giudice proporzionata tanto alla gravità del reato quanto alle condizioni economiche del reo, e assieme di assicurarne poi l’effettiva riscossione, può costituire una seria alternativa alla pena detentiva, così come di fatto accade in molti altri ordinamenti contemporanei.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 135 del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione terza penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 gennaio 2020.

F.to:

Marta CARTABIA, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 febbraio 2020.