SENTENZA N. 131
ANNO 1979
REPUBBLICA ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta dai signori giudici:
Avv. Leonetto AMADEI ,
Presidente
Prof. Edoardo VOLTERRA
Prof. Guido ASTUTI
Dott. Michele ROSSANO
Prof. Antonino DE STEFANO
Prof. Leopoldo ELIA
Prof. Guglielmo ROEHRSSEN
Avv. Oronzo REALE
Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI
Avv. Alberto MALAGUGINI
Prof. Livio PALADIN
Dott. Arnaldo MACCARONE
Prof. Antonio
Prof. Virgilio ANDRIOLI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel
giudizio di legittimità costituzionale degli artt.
136 del codice penale e 586 del codice di procedura penale promosso con ordinanza
emessa il 1 marzo 1975 dal pretore di Napoli-Barra,
nel procedimento di esecuzione penale nei confronti di Sorrentino Vincenzo ed altri, iscritta al n. 724 del registro ordinanze 1976 e
pubblicata nella Gazzetta Ulliciale della Repubblica
n. 24 del 26 gennaio 1977.
Udito
nella camera di consiglio del 4 maggio 1979 il Giudice relatore Alberto Malagugini.
Ritenuto in fatto
Il
pretore di Napoli-Barra, dovendo provvedere alla
conversione ex art. 136 cod. pen. per
accertata insolvibilità dei condannati, di numerose pene pecuniarie (da un
minimo di L.2.000 di ammenda ad un massimo di L.150.000 di multa) con ordinanza in data 1 marzo
La
conversione della pena pecuniaria in detentiva, per insolvibilità del
condannato, determinerebbe secondo il giudice a quo una arbitraria
situazione di diseguaglianza in danno del non
possidente, in quanto dalla sua condizione economica - e solo da essa - si fa
derivare un aggravamento sostanziale della pena già irrogatagli, stante la
maggior gravità della pena detentiva rispetto alla pena pecuniaria, per l'incidenza
sulla libertà personale e su tutti i rapporti di vita del cittadino. Di qui il
ritenuto contrasto dell'art. 136 cod. pen. con l'art. 3 Cost., nella parte in
cui afferma l'eguaglianza davanti alla legge senza distinzione di condizioni
personali e sociali.
Il
pretore prende atto che analoga questione é stata respinta dalla Corte
costituzionale con sentenza n. 29/62,
sulla base della rilevanza costituzionale del principio di inderogabilità della
pena. Ritiene tuttavia che tale posizione vada riesaminata, sopratutto dopo
che, con la sentenza n. 149 del 1971, il principio d'inderogabilità ha ricevuto
una sia pur limitata deroga nei confronti del fallito, condannato a pena
pecuniaria per reati commessi in epoca anteriore alla dichiarazione di
fallimento (la citata sentenza ha dichiarato l'illegittimità costituzionale
dello stesso art. 136, primo comma, cod. pen., nella parte in cui, nell'ipotesi sopraindicata, ammette
la conversione della pena pecuniaria in pena detentiva prima della chiusura
della procedura fallimentare). Ad avviso del pretore, l'inderogabilità della
pena non sarebbe fra i "cardini costituzionali" del sistema punitivo,
ma solo una scelta discrezionale del legislatore, come tale modificabile.
D'altra parte, con riferimento alle pene pecuniarie, la conversione in pena
detentiva per insolvibilità non sarebbe l'unico modo per tenere ferma la
funzione preventiva e repressiva della minaccia penale: già il codice Zanardelli, ed alcune legislazioni straniere, prevedono
meccanismi diversi (rateazioni, limiti alla conversione, prestazioni d'opera
sostitutive).
Rispetto
a simili discipline, l'indiscriminata conversione in pena detentiva appare
anche contraria alla finalità rieducativa della pena,
prevista dall'art. 27 Cost. La soggezione a una pena detentiva,
qualitativamente diversa e più grave di quella irrogata con la sentenza di
condanna, con l'esclusione del condannato dalla società tende a ingenerare in
costui l'opinione, tutt'altro che "rieducativa", che il non abbiente, oltre a non avere
adeguata difesa nel processo, paga con una carcerazione non meritata ciò che
altri soddisfano col denaro. In tal caso la pena, lungi dall'assolvere ad una
funzione rieducativa. si
presenta come affermazione fine a se stessa della autorità dello Stato, in
contrasto con la stessa scelta del giudicante, e con prevedibili conseguenze criminogene.
Costituzionalmente
illegittima, infine, appare al giudice a quo la procedura prevista per la
"conversione" della pena dall'art. 586 cod. proc.
pen.. La conversione della
pena pecuniaria in detentiva, una volta accertata l'insolvibilità del
condannato, é fatta dal P.M. o dal pretore competente per l'esecuzione al di
fuori di qualsiasi contraddittorio con il condannato. Di qui la violazione del
diritto di difesa, garantito dall'art. 24 Cost. "in ogni stato e grado del
procedimento". Non sarebbe infatti adeguata
tutela, secondo il giudice a quo, la possibilità di sollevare incidente di
esecuzione, posto che esso non ha effetto sospensivo, ed il suo esito (a fronte
della minima durata delle pene da espiare, nella maggior parte dei casi di
conversione) rischierebbe di essere tardivo.
L'ordinanza
é stata ritualmente notificata, comunicata e
pubblicata.
Nel
procedimento avanti alla Corte costituzionale non vi é stata costituzione di
parti.
Considerato in diritto
1.
- Il giudice a quo ha sottoposto all'esame della Corte un duplice ordine di
questioni.
a)
In primo luogo, egli dubita che la disposizione dell'art. 136, primo comma, del
codice penale, per cui "le pene della multa e
dell'ammenda, non eseguite per insolvibilità del condannato, si convertono
rispettivamente nella reclusione per non oltre tre anni e nell'arresto per non
oltre due anni", contrasti:
-
con l'art. 3 Cost., in
quanto determina una disparità di trattamento fondata sulle sole condizioni
economiche del condannato;
-
con l'art. 27, terzo comma, Cost.,
in quanto prevede per il condannato a pena pecuniaria, che risulti insolvibile,
un trattamento incompatibile con la funzione rieducativa
della pena.
b)
In secondo luogo, il pretore di Napoli-Barra dubita
che l'art. 586, ultimo comma, del codice di procedura penale, contrasti con
l'art. 24, secondo comma, Cost.,
perché non prevede, per la conversione delle pene pecuniarie in pene detentive,
un procedimento in contraddittorio con il condannato.
2.
- La questione di legittimità costituzionale dell'art. 136 (nonché dell'art.
135) del codice penale, sollevata con riferimento agli artt.
2, 3 e 13, primo comma, Cost.,
é stata dichiarata non fondata da questa Corte con la sentenza n. 29 del
22 marzo 1962, alla quale hanno fatto seguito le ordinanze di manifesta
infondatezza n.
59 del 1962 e n.
127 del 1971.
Con
successiva sentenza
n. 149 del 1971, la medesima Corte ha dichiarato la illegittimità
costituzionale, per contrasto con l'art. 3 Cost.,
dello stesso art. 136 del codice penale, nella parte in cui ammette per i reati
commessi dal fallito in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento la
conversione della pena pecuniaria in pena detentiva prima della chiusura della
procedura fallimentare.
Dalle
sopra citate sentenze di questa Corte (nonché da altre sempre in tema di pene
pecuniarie: sent. n. 12 del 1966 e n. 104 del 1968),
tenuto conto della innovazione introdotta con la legge 26 luglio 1975, n. 354 (sull'ordinamento
penitenziario, che ha reso obbligatorio il regime di semilibertà per
l'espiazione delle pene detentive derivanti dalla conversione di pene
pecuniarie), occorre prendere le mosse per riconsiderare la questione ora
nuovamente proposta.
3.
- Le pene pecuniarie, della multa e dell'ammenda, nel nostro come in altri
ordinamenti, costituiscono una delle due specie di pene principali comminate da
sole, alternativamente o congiuntamente alla pena detentiva, per i delitti e
per le contravvenzioni (artt. 17 e 18, 24 e 26 del
codice penale).
Esse
consistono entrambe nel pagamento allo Stato di una somma di denaro, che può
essere fissa o proporzionale (art. 27 cod. pen.) entro i limiti minimo e massimo stabiliti
dalla legge, salva la facoltà del giudice, quando per le condizioni economiche
del reo la pena pecuniaria stabilita dalla legge può presumersi inefficace,
anche se applicata nel massimo, di aumentarla fino al triplo (artt. 24, ultimo comma, e 26,
ultimo comma, del codice penale). Inoltre, per i delitti determinati da motivi
di lucro, se la legge prevede soltanto la pena della reclusione, il giudice può
aggiungere la multa da lire duemila a lire ottocentomila (art. 24, secondo
comma, c.p.).
Alla
esecuzione della pena pecuniaria (cioé alla riscossione
della somma dovuta), quando il condannato o chi per esso
non abbia ottemperato all'ordine di pagamento, si procede mediante
espropriazione forzata dei di lui beni mobili e immobili.
Il
pagamento della pena pecuniaria può essere effettuato (per conto e
nell'interesse del condannato) anche da un terzo, non soltanto perché così
specificatamente prevede l'art. 221 del r.d. 23 dicembre 1865, n. 2701 (la
cosiddetta "Tariffa Penale"), ma in linea generale, per la natura di
prestazione pecuniaria propria di questa specie di pena.
Il
condannato può ottenere una dilazione o l'autorizzazione ad eseguire il
pagamento a rate da stabilirsi, ma soltanto se dimostri la propria
"solvibilità con certificati di catasto e d'ipoteche" ovvero presenti
"una persona garante e notoriamente conosciuta come solvibile e residente
nel mandamento" che si obbliga a "soddisfare in proprio al debito e
alle spese quando non fosse accordata dilazione, o che dal debitore principale
si lasciasse trascorrere il termine prefisso" (art. 237 Tariffa Penale).
Quando
esistono immobili ipotecati o mobili sequestrati di pertinenza del condannato,
ovvero somme versate a titolo di cauzione e non devolute alla cassa delle
ammende, l'ordine dei crediti con quei mezzi garantiti vede al sesto ed ultimo
posto "le pene pecuniarie ed ogni altra somma dovuta all'erario dello
Stato" (art. 191 c.p.).
Quando
sono accertate la mancanza di pagamento della pena pecuniaria e l'insolvibilità
del condannato - con i certificati delle autorità menzionate dall'art. 40 delle
disposizioni di attuazione del codice di procedura penale (r.d. 28 maggio 1931,
n. 602), ovvero per la notorietà del fatto (art. 115 d.p.r. 15 dicembre 1959,
n. 1229 - ordinamento degli ufficiali giudiziari e degli aiutanti ufficiali
giudiziari) - e, se ne é il caso, della persona civilmente obbligata per
l'ammenda, si procede alla conversione della pena pecuniaria in pena detentiva
art. 586, quarto comma, c.p.p.). A tale effetto, si
calcolano cinquemila lire o frazioni di cinquemila lire per ogni giorno di
detenzione (art. 135 c.p. nel testo modificato dalla legge 12 luglio 1961, n.
603).
La
pena detentiva risultante dalla conversione della pena pecuniaria non può
superare i quattro anni di reclusione ed i tre anni di arresto (artt. 136 e 78 c.p.) e anche in caso di pagamento parziale
della pena pecuniaria la conversione in pena detentiva si attua per il residuo
dovuto dal condannato, interamente nei limiti suindicati.
É, ovviamente, in facoltà del condannato stesso far cessare la pena sostitutiva
pagando la multa o l'ammenda, dedotta la somma corrispondente alla durata della
pena detentiva già sofferta (art. 136, ultimo comma,
c.p.).
Per
effetto della legge 26 luglio 1975, n. 354 (norme sull'ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della
libertà), le pene detentive derivanti dalla conversione di pene pecuniarie, sempreché il condannato non sia affidato in prova al
servizio sociale o non sia ammesso al lavoro alle dipendenze di enti pubblici,
sono espiate in regime di semilibertà (ivi, art. 49).
4.
- La normativa vigente in tema di conversione di pene pecuniarie in pene
detentive é stata oggetto di valutazioni, prevalentemente critiche, da parte
degli studiosi della materia, pur nella diffusa convinzione della bontà della
scelta di politica criminale che ha visto affermarsi la pena pecuniaria come
efficace alternativa alla pena detentiva di breve e anche media durata.
Non
sono mancate nello stesso Parlamento della Repubblica voci dubbiose della
legittimità costituzionale del sistema attuale di conversione, fin da quando, nell'ormai remoto 1961, discutendosi il disegno
di legge, poi divenuto la legge 12 luglio 1961, n. 603, che determina, tra
l'altro, il nuovo indice di ragguaglio tra pene pecuniarie e pene detentive, il
relatore al Senato ebbe ad affermare che "non può osservare il principio
fondamentale della" " legge uguale per tutti " "una norma
che faccia derivare la perdita della libertà dal possesso o meno di beni
sufficienti a pagare una pena pecuniaria".
Con
la legge 25 luglio 1975, n. 354, stabilendosi l'obbligatorietà del sistema di
semilibertà per l'espiazione delle pene detentive derivanti dalla conversione
delle pene pecuniarie, così da attenuare l'impatto con il sistema carcerario,
si é offerta dal legislatore una ulteriore prova di
sensibilità per un problema la cui soluzione normativa si avvertiva
inappagante. Di particolare rilievo, nella legge citata, é l'apertura alla
possibilità di sostituire, in sede di conversione, alla pena detentiva il lavoro
da prestarsi alle dipendenze di enti pubblici, anche se la disposizione, al
pari di quella di identico contenuto del codice del 1889 (art. 19) é rimasta
sin qui totalmente inattuata per mancanza dei
necessari supporti organizzativi.
Da
ultimo, con il disegno di legge n. 1799 (modifiche al sistema penale) approvato
dalla Camera dei deputati il 25 ottobre 1978 e poi decaduto per la fine
anticipata della settima legislatura, si era previsto (all'art. 49) il
pagamento rateale della multa e dell'ammenda da disporsi eventualmente dal
giudice con la sentenza di condanna, mentre, nei casi di mancato pagamento e di
insolvibilità del condannato, si attuava la conversione, per la pena convertita
non superiore a tre mesi, nella misura della libertà controllata, ferma, per la
pena convertita superiore a tre mesi, l'ammissione al regime di semilibertà.
Contestualmente si é venuto affermando il processo di depenalizzazione di
numerose fattispecie, con l'effetto di escludere la conversione della sanzione
(amministrativa) pecuniaria per categorie d'illeciti sempre più ampie e
certamente non di poca importanza. In tale prospettiva, vengono in rilievo
istituti diversi dalla conversione, che senza fuoriuscire dal terreno della
prestazione pecuniaria tendono a garantirne l'adempimento
imponendo un obbligo solidale (art. 4 del d.d.l. n. 1799) a carico delle
persone munite d'autorità, direzione o vigilanza sul trasgressore, o delle
persone giuridiche od enti nel cui "ambito il
trasgressore abbia agito; in ciò sviluppando una linea già presente nel codice
penale, con l'istituto del civilmente obbligato per l'ammenda (artt. 196 e 197 cod. pen.).
Dalle
esperienze di diritto comparato, riconosciuto che il successo della pena
pecuniaria dipende essenzialmente dalle condizioni economiche e sociali dei
singoli Paesi, in relazione ai livelli occupazionali ed al reddito medio dei
cittadini, si può desumere la tendenza ad un adeguamento delle pene pecuniarie
e delle loro modalità di pagamento alle condizioni economiche del condannato
verificate dal giudice al momento della condanna (ad esempio, adottando il
sistema dei tassi giornalieri), così da tendere ad una uguaglianza
sostanziale della pena pecuniaria perché proporzionale alle risorse del
condannato stesso e da configurarne il mancato pagamento (dal quale deriva la
conversione) come la conseguenza di un comportamento colpevole e non di una
impossibilità in cui senza colpa versi il condannato.
La
pena convertita é normalmente detentiva; non mancano però, suggerimenti
all'adozione di misure diverse, non limitative della libertà personale del condannato, ma dirette, invece, a creare od accrescere le
sue capacità di pagamento, mediante ad esempio l'ammissione al lavoro libero
presso enti pubblici, anche per le sole giornate o periodi festivi.
5.
- In effetti, il complesso normativo sopra riassunto al n. 3, disciplinante le
pene pecuniarie e la loro esecuzione, presenta una serie di disarmonie che
rendono arduo configurarne la piena aderenza alle norme costituzionali cui deve
conformarsi il diritto penale.
Anzitutto,
il contenuto stesso della pena pecuniaria consente l'adempimento della
obbligazione pecuniaria verso lo Stato, in che essa consiste, anche ad opera di un terzo, che può sostituirsi al condannato nel
pagamento ovvero fornirgliene i mezzi, e ciò in ogni caso, anche a prescindere
dalla esistenza di un soggetto civilmente responsabile per l'ammenda o dal
ricorrere della ipotesi prevista dall'art 237 della "Tariffa Penale".
Appare così scalfito il principio della personalità della responsabilità
penale.
6.
- In secondo luogo, nel momento in cui, esclusivamente per la
accertata insolvibilità del condannato, si deve procedere, in sede di
esecuzione, indifferibilmente ed in modo automatico, alla conversione della
pena pecuniaria in pena detentiva, viene a prospettarsi una lesione del
principio di eguaglianza in materia penale.
La
conversione comporta, infatti e senza dubbio, un
aggravamento della pena inflitta dal giudice ed altera, perciò, il rapporto di
proporzionalità tra la gravità del reato e la capacità a delinquere del
colpevole, da un lato, e la specie e quantità della pena irrogata, dall'altro,
quale determinato discrezionalmente, nei limiti e secondo i parametri di legge,
dal giudice stesso. Con il risultato di far derivare, per effetto delle
condizioni economiche del condannato, disuguali conseguenze sanzionatorie
da responsabilità ritenute di pari intensità nella violazione della medesima
norma incriminatrice, sino a far scontare al
condannato insolvibile, quando i fatti di reato siano
punibili con la sola pena pecuniaria, una pena di specie diversa e più grave di
quella comminata nella previsione generale ed astratta del legislatore.
Osservare
che la conversione della pena pecuniaria in pena detentiva, essendo prevista
dalla legge, é, perciò, da ritenersi implicita nella sentenza di condanna,
prospettabile, quindi, per questo aspetto, come condizionatamente alternativa,
non rileva - e giustamente lo afferma la sentenza n. 29 del 1962 - per la
soluzione della questione proposta, ma conduce soltanto ad una diversa
formulazione di essa.
7.
- Né a giustificare la disciplina vigente della conversione della pena
pecuniaria in pena detentiva vale richiamarsi alla inderogabilità della pena
che, in quanto sanzione criminale, deve poter essere eseguita a carico di tutti
i destinatari.
Sotto
il profilo qui considerato, occorre anzitutto evitare di confondere il concetto
di inderogabilità della pena con quelli della sua materiale ineseguibilità
ovvero della sua differibilità in
presenza di situazioni che appaiono meritevoli di considerazione.
L'esecuzione
della pena detentiva, che non cessa per questo di essere inderogabile, non può
che arrestarsi tutte le volte che non si riesce a disporre del soggetto
chiamato ad espiarla, e il legislatore ha previsto ipotesi, negli artt. 146, 147 e 148 del codice penale, nelle quali si deve
o si può rinviarla o sospenderla.
Così
anche per la pena pecuniaria l'esecuzione può essere dilazionata (art. 237
della "Tariffa penale", ma questo sostanziale beneficio é
discrezionalmente concedibile, con provvedimento amministrativo dell'Intendente
di finanza o del superiore Ministro (cioé di soggetti
estranei alla giurisdizione penale e preposti invece alla tutela dell'interesse
finanziario dello Stato), soltanto a chi dimostri la propria solvibilità
"con certificati di catasto o di ipoteche" ovvero presenti un fidejussore.
Dalla
pratica equiparazione di inderogabilità e indifferibilità della pena deriva la
valutazione statica ed immutabile della insolvibilità, ancorata per di più ad
una prospettazione ottocentesca del patrimonio
personale, propriamente tale soltanto se consistente in beni immobili. In
questa ottica, dalla incapacità del condannato, verificata al momento
dell'esecuzione, di pagare per intero la multa o l'ammenda inflittagli sembra
dedursi non già l'esistenza di una situazione di fatto che arresta
temporaneamente l'esecuzione stessa (così come avviene nel caso di
irreperibilità del condannato anche a pena detentiva), ma addirittura una causa
di estinzione della pena, il che evidentemente non é.
8.
- Vero é che la doverosa salvaguardia del fondamentale interesse dello Stato ad
una uguale possibilità di funzionamento del sistema
penale nei confronti di tutti i destinatari presuppone una (tendenzialmente)
uguale possibilità di applicazione della sanzione prevista dalla legge a carico
di tutti gli autori del medesimo illecito, e, quindi, che la sanzione stessa
sia di tal contenuto da potersi attuare su di un bene sicuramente posseduto da
tutti i destinatari. Tale é la libertà personale, bene primario posseduto da
ogni essere vivente, a prescindere dalle diverse possibilità di godimento,
mentre il patrimonio (al pari del reddito) non inerisce
naturalmente alla persona umana, quanto meno in misura uguale. Perciò la adozione di pene pecuniarie, accanto ad indubbi vantaggi
- minore incidenza sulla posizione ed inserimento sociali del condannato -
comporta l'inconveniente di una disuguale afflittività
e al limite, dell'impossibilità di applicarla, in funzione delle diverse
condizioni economiche dei soggetti condannati. Di qui la ricerca di rimedi,
atti a salvaguardare l'efficacia e la concreta uguaglianza dell'effetto della
pena pecuniaria, mediante meccanismi d'adeguamento alle concrete condizioni
economiche dei condannati. Nel codice penale vigente, tale adeguamento é
limitato alla previsione (artt. 24,
ultimo comma, e 26, ultimo comma, cod. pen.)
dell'aumento fino al triplo, quando anche l'applicazione del massimo edittale "può presumersi inefficace" "per le
condizioni economiche del reo". Proprio la previsione che taluno dei
destinatari della pena possa (quale ne sia la causa)
versare in condizioni di insolvibilità, che lo rendono incapace della
prestazione pecuniaria il cui adempimento costituisce l'esecuzione della pena
stessa, ha suggerito la convertibilità della pena pecuniaria in pena detentiva
negli ordinamenti che, per una fascia più o meno estesa di reati hanno
introdotto, via via allargandone il campo di
applicazione, la prima in sostituzione o in alternativa alla seconda,
soprattutto per le pene detentive di breve durata. La minaccia di conversione
della pena pecuniaria in pena detentiva é stata, cioé,
ritenuta necessaria, in considerazione della efficacia comparativamente maggiore
della seconda rispetto alla prima, a fine di prevenzione generale e speciale ed
anche per impedire che il condannato possa essere indotto a precostituire
volontariamente una situazione di insolvenza.
Mentre
la previsione di un fatto diverso da quello per il quale é comminata ed é stata
irrogata la pena pecuniaria, potrebbe, se mai, dare luogo ad una figura
autonoma di reato (in analogia a quanto disposto dall'art. 388 del codice
penale - mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice) si deve
riconoscere che l'argomentazione generalmente addotta, confortata
dall'esperienza maturata in numerosi Paesi, sarebbe certamente stringente al
fine di orientare libere scelte di politica criminale, quando si discutesse
della sempre opinabile giustizia o ingiustizia di un complesso normativo, e
dell'opportunità di accettare quelle che il Beccaria
chiamava "utili ingiustizie". Quando però, in un ordinamento
vincolato alla osservanza dei parametri costituzionali, l'alternativa tra pena
pecuniaria e pena detentiva si pone e si scioglie esclusivamente in funzione
della insolvibilità del condannato, accertata al momento dell'esecuzione,
appare insanabilmente contraddittorio pretendere di
fondare la soddisfazione del principio di uguaglianza di fronte al reato e alla
pena, proprio sul sacrificio dell'uguaglianza stessa, introducendo una
discriminazione determinata unicamente dalle condizioni economiche del
condannato.
Nella
traslazione della pena dai beni alla persona del condannato insolvibile é
evidente il retaggio di concezioni arcaiche, basate sulla fungibilità tra
libertà e patrimonio personali.
Siffatte
concezioni, esplicitamente proclamate fino alla abrogazione della prigione per
debiti, contrastano però seccamente con la tavola dei valori costituzionali.
Ciò non soltanto per la posizione preminente ivi assicurata alla libertà
personale, compresa tra quei diritti inviolabili dell'uomo che
La
conversione della pena pecuniaria in detentiva alla stregua della normativa
vigente, finisce infatti per attuarsi soltanto a
carico dei nullatenenti, dei soggetti, cioé,
costretti alla solitudine di una miseria che preclude anche ogni solidarietà
economica, e reca, percio, l'impronta inconfondibile
di una discriminazione basata sulle condizioni personali e sociali, la cui
illegittimità é apertamente, letteralmente, proclamata dall'art. 3 della
Costituzione.
Con
ciò non si vuole certamente escludere la possibilità di garantire l'effettiva
uguaglianza dei cittadini di fronte alla sanzione penale, in particolare
pecuniaria. Spetterà al legislatore assicurarla, adottando, nella sua
discrezionalità, gli opportuni strumenti normativi, ad esempio secondo le linee
di tendenza sopra richiamate e che il legislatore stesso ha già dimostrato di
voler prendere in considerazione.
9.
- Dalla dichiarazione d'illegittimità costituzionale dell'art. 136 cod. pen. deriva logicamente analoga
dichiarazione, ex art. 27 della legge n. 87 del 1953, per l'art. 586, quarto
comma, cod. proc. pen., venendo in ciò assorbite le diverse censure di
illegittimità costituzionale prospettate dal giudice a quo. Il procedimento
disciplinato dal citato art. 586 c.p.p. serve infatti esclusivamente alla conversione della pena per
insolvibilità del condannato, il che lega, inscindibilmente, la disposizione
processuale all'istituto di diritto sostanziale.
PER QUESTI MOTIVI
a)
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 136 del codice penale;
b)
dichiara - in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 -,
l'illegittimità costituzionale dell'art. 586, quarto comma, del codice di
procedura penale.
Così
deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 16 novembre 1979.
Leonetto AMADEI
- Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO – Antonino DE STEFANO -
Leopoldo ELIA - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE -
Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Arnaldo
MACCARONE - Antonio
Giovanni VITALE - Cancelliere
Depositata
in cancelleria il 21 novembre 1979.