SENTENZA N. 222
ANNO 2013
Commento alla decisione di
Davide Monego
La
“dimensione regionale” nell’accesso alle provvidenze sociali
per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO
”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli
articoli 2, 3, 5, 6, comma 1, 7, 8, comma 2, e 9 della legge della Regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia 30 novembre 2011, n. 16 (Disposizioni di
modifica della normativa regionale in materia di accesso alle prestazioni
sociali e di personale), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con
ricorso, notificato il 7-10 febbraio 2012, depositato in cancelleria il 14
febbraio 2012 ed iscritto al n. 25 del registro ricorsi 2012.
Visto l’atto di costituzione della Regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia;
udito nell’udienza pubblica del 6 novembre 2012 il Giudice
relatore Giuseppe Frigo, sostituito per la redazione della sentenza dal Giudice
Giorgio Lattanzi;
uditi l’avvocato dello Stato Attilio Barbieri per il
Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Giandomenico Falcon per la
Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia.
Ritenuto in fatto
1.– Con il ricorso spedito a mezzo posta per la notificazione il 7
febbraio 2012 e depositato il successivo 14 febbraio, il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, ha promosso, in riferimento agli articoli 3 e 117, secondo comma,
lettera m), della Costituzione,
questioni di legittimità costituzionale degli articoli 2, 3, 5, 6, comma l, 7,
8, comma 2, e 9 della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 30
novembre 2011, n. 16 (Disposizioni di modifica della normativa regionale in
materia di accesso alle prestazioni sociali e di personale), pubblicata nel Bollettino ufficiale della Regione n. 49
del 7 dicembre 2011.
1.1.– Il ricorrente, in premessa, richiama il contenuto delle disposizioni
impugnate.
In particolare, l’art. 2, che sostituisce il comma 6 dell’art. 9 della
legge regionale 14 agosto 2008, n. 9 (Assestamento del bilancio 2008 e del
bilancio p1uriennale per gli anni 2008-2010 ai sensi dell’articolo 34 della
legge regionale 8 agosto 2007, n. 21), prevede contributi economici
straordinari in relazione a temporanee situazioni di emergenza individuali o
familiari, a condizione che i beneficiari risiedano in territorio regionale da
almeno ventiquattro mesi, in favore di: a) cittadini italiani; b) cittadini di
Stati appartenenti all’Unione europea regolarmente soggiornanti in Italia e
loro familiari, ai sensi del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30
(Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini
dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel
territorio degli Stati membri); c) titolari di permesso di soggiorno CE per
soggiornanti di lungo periodo, ai sensi del decreto legislativo 8 gennaio 2007,
n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo);
d) titolari dello status di rifugiato
e dello status di protezione
sussidiaria, ai sensi del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251
(Attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione,
a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di
persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime
sul contenuto della protezione riconosciuta).
L’art. 3, che sostituisce il comma l dell’art. 8-bis della legge regionale 7 luglio 2006, n. 11
(Interventi regionali a sostegno della famiglia e della genitorialità), dispone
l’attribuzione di assegni una tantum, a sostegno della natalità e delle adozioni di minori, a favore
dei nuclei familiari in cui almeno uno dei genitori risieda nel territorio
regionale da almeno ventiquattro mesi e che appartenga ad una delle categorie
di soggetti elencati nell’art. 12-bis
della medesima legge regionale n. 11 del 2006.
Ai sensi del citato art. 12-bis
della legge regionale n. 11 del 2006, sostituito dall’impugnato art. 5,
gli interventi finanziari a favore delle famiglie e della genitorialità di cui
agli artt. 8-bis, 8-ter,
9, 10 e 11 della medesima legge regionale n. 11 del 2006 – recanti,
rispettivamente, interventi a sostegno delle nascite, soluzioni abitative per
nuove famiglie, sostegno alla funzione educativa, istituzione della Carta
Famiglia – sono attuati a favore dei nuclei familiari in cui almeno uno dei
genitori risiede nel territorio regionale da almeno ventiquattro mesi e
appartiene ad una delle medesime categorie di soggetti indicate nell’art. 2.
L’art. 6, comma l, che sostituisce il comma l.l. dell’art. 12 della legge
regionale 7 marzo 2003, n. 6 (Riordino degli interventi regionali in materia di
edilizia residenziale pubblica), stabilisce che possono essere destinatari
degli interventi di edilizia convenzionata, agevolata e di sostegno alle locazioni,
purché residenti da almeno ventiquattro mesi in territorio regionale, i
cittadini italiani, i cittadini di Stati appartenenti all’Unione europea
regolarmente soggiornanti in Italia e i loro familiari, ai sensi del decreto
legislativo n. 30 del 2007, e i titolari di permesso di soggiorno CE per
soggiornanti di lungo periodo ai sensi del medesimo decreto legislativo n. 30
del 2007.
Sempre in materia di edilizia residenziale pubblica, l’art. 7, che
sostituisce l’art. 18 della predetta legge regionale n. 6 del 2003, prevede che
i medesimi soggetti indicati nel precedente art. 6 possano essere assegnatari
di alloggi di edilizia sovvenzionata, a condizione di essere residenti da
almeno ventiquattro mesi in territorio regionale.
L’art. 8, comma 2, che aggiunge il comma l-bis all’art. 2 della legge regionale 2 aprile 1991, n. 14 (Norme
integrative in materia di diritto allo studio), prevede che possano accedere
agli interventi regionali in materia di diritto allo studio gli alunni nel cui
nucleo familiare almeno uno dei genitori risieda nel territorio regionale da
almeno ventiquattro mesi e che appartenga a una delle medesime categorie di
soggetti indicati al precedente art. 2.
L’art. 9, infine, dispone che gli interventi previsti dalle norme
regionali che sono state modificate dagli artt. 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 8 della
legge in esame siano attuati anche in favore dei soggetti di cui all’art. 41
del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero), vale a dire nei confronti degli stranieri titolari della carta di
soggiorno o di permesso non inferiore ad un anno, nonché dei minori iscritti
nella loro carta di soggiorno o nel loro permesso di soggiorno, a condizione
che tali soggetti siano residenti da non meno di cinque anni nel territorio
nazionale e da almeno ventiquattro mesi nel territorio regionale.
1.2.– Secondo il Presidente del
Consiglio dei ministri, le disposizioni in esame discriminerebbero i possibili
fruitori delle provvidenze sociali fornite dalla Regione, sia in ragione della
residenza regionale protratta da almeno ventiquattro mesi, sia, per gli
stranieri extracomunitari di cui all’art. 9, in ragione dell’ulteriore
requisito della residenza nazionale per non meno di cinque anni richiesto da
quest’ultima norma.
Le disposizioni impugnate eccederebbero,
quindi, i limiti della competenza legislativa regionale: sia con riferimento
alla materia di «assistenza sociale», attribuita alla potestà legislativa
integrativa della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia dall’art. 6, numero
2), dello statuto di autonomia (legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1),
sia con riferimento alla più ampia competenza residuale in materia di servizi
sociali riconosciuta alle Regioni ordinarie dall’art. 117, quarto comma, Cost.,
da estendersi alla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia in base alla clausola
di equiparazione di cui all’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001,
n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione).
La Regione, infatti, dovrebbe comunque
rispettare i limiti stabiliti dall’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., che riserva allo Stato la
competenza legislativa esclusiva in materia di «determinazione di livelli
essenziali di prestazioni», con la conseguenza che ogni disposizione che «crei
differenziazioni di trattamento si verrebbe a porre, a livello locale, in
contrasto con le garanzie di uniformità riservate alla legislazione statale».
Inoltre, le disposizioni impugnate
sarebbero lesive dell’art. 3 Cost., perché introdurrebbero nel tessuto
normativo un elemento di differenziazione arbitrario, non essendovi
corrispondenza tra la condizione di ammissibilità al beneficio e gli altri
requisiti, quali la situazione di bisogno e di disagio, che costituiscono il
presupposto di fruibilità di un beneficio assistenziale: verrebbero in tal modo
esclusi proprio coloro che sono maggiormente esposti alle condizioni di bisogno
e di disagio, che un siffatto sistema di prestazioni e servizi si proporrebbe
di superare.
Infine, per quanto concerne l’art. 9
impugnato, con particolare riferimento all’attribuzione delle prestazioni
assistenziali alle persone straniere regolarmente soggiornanti sul territorio
nazionale, la stessa giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 61 del
2011) avrebbe già evidenziato la contrarietà di analoghe disposizioni
all’art. 3 Cost.
L’art. 9, peraltro, sarebbe in contrasto
con l’art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998 e con l’art. 80, comma 19, della legge
23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001), che, ai fini della fruizione
delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale,
equiparano ai cittadini italiani gli stranieri titolari della carta di
soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno.
2.– Si è costituita la Regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia, la quale ha eccepito, in via preliminare,
l’inammissibilità del ricorso per tardività della notifica, effettuata il 7
febbraio 2012, oltre il sessantesimo giorno dalla pubblicazione nel B.U.R. del
7 dicembre 2011.
3.– Con successiva memoria la Regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia ha, preliminarmente, ribadito l’eccezione di
inammissibilità del ricorso, perché notificato oltre il termine perentorio
previsto dall’art. 127, primo comma, Cost.
4.– La difesa regionale ha poi svolto
ulteriori considerazioni difensive, rilevando anzitutto che l’art. 117, quarto
comma, Cost. le attribuisce, nella materia dell’assistenza sociale, una
competenza più ampia dell’art. 6, numero 2), dello statuto di autonomia.
5.– Inoltre, la censura relativa alla
violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. sarebbe inammissibile, in quanto priva della necessaria
indicazione delle norme statali che determinerebbero i livelli essenziali delle
prestazioni e che sarebbero state violate.
6.– Inammissibile sarebbe poi
l’impugnazione degli artt. 2, 5, 6, comma 1, e 7 della legge regionale n. 16
del 2011.
Secondo la Regione, tali disposizioni
avrebbero abrogato espressamente la pregressa normativa regionale concernente
la prestazione sociale in oggetto, la quale richiedeva condizioni più rigorose
di accesso, sicché, per effetto di un’eventuale dichiarazione di illegittimità
costituzionale, quest’ultima dovrebbe rivivere, reintroducendo requisiti di
godimento «ancora più irragionevoli e discriminatori di quelli recati dalla
legge impugnata».
7.– Con riferimento all’asserita lesione
dell’art. 3 Cost., la Regione sostiene la legittimità costituzionale del
requisito della residenza continuativa nella Regione e della residenza
quinquennale nel territorio dello Stato per gli stranieri in possesso del
permesso di soggiorno.
La resistente precisa che, come risulta
dal testo della legge impugnata (art. 1, comma 1), il primo requisito è stato
introdotto allo scopo di valorizzare un collegamento non occasionale tra i
destinatari delle politiche sociali e la comunità regionale. E poiché la
Regione è ente esponenziale di detta comunità, la residenza sul territorio
regionale è il «più naturale indice sintomatico del radicamento e della
integrazione della persona all’interno della comunità locale».
Trattandosi di prestazioni che non fanno
parte dei livelli essenziali, la Regione potrebbe condizionarne l’erogazione
alle condizioni indicate dalla norma, a tutela dell’integrità del proprio
bilancio e per scoraggiare l’utilizzazione di «residenze occasionali e
meramente opportunistiche».
8.– In ordine all’ulteriore requisito
della residenza quinquennale nel territorio dello Stato per gli stranieri in
possesso del permesso di soggiorno, la Regione resistente evidenzia che la
previsione contenuta nell’art. 9 impugnato estende le prestazioni sociali di
cui alla legge oggetto di giudizio anche agli stranieri privi di carta di
soggiorno (condizione, invece, richiesta dalla normativa statale di
riferimento: art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000) purché
soggiornanti da almeno cinque anni nel territorio.
La disposizione impugnata sarebbe,
dunque, per un verso «oggettivamente progressiva» e per altro verso
ragionevole, in quanto, ai fini dell’equiparazione con gli stranieri in
possesso del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo,
considera il medesimo requisito della residenza quinquennale, che è anche il
presupposto per la concessione di tale speciale titolo di soggiorno.
9.– Con riferimento alle specifiche
censure, la resistente fa presente che l’art. 2 della legge n. 16 del 2011,
novellando l’art. 9, comma 6, della legge regionale n. 9 del 2008, amplia la
classe dei beneficiari degli interventi di contrasto dei fenomeni di povertà e
disagio sociale, previsti dal precedente comma 5 dello stesso art. 9, e
finanziati dalla Regione con un apposito fondo, riducendo a 24 mesi la durata
della residenza e riconoscendo quali beneficiari anche gli stranieri titolari
di permesso di soggiorno CE per i soggiornanti di lungo periodo e gli stranieri
titolari dello status di rifugiato e
dello status di protezione
sussidiaria, residenti in Regione da almeno ventiquattro mesi. Tali interventi
sono aggiuntivi rispetto agli ordinari interventi di assistenza sociale, i
quali restano regolati dalla legge regionale del 31 marzo 2006, n. 6 (Sistema
integrato di interventi e servizi per la promozione e la tutela dei diritti di
cittadinanza sociale), e sono assicurati a cittadini e stranieri
indipendentemente da requisiti di residenza qualificata.
Ne conseguirebbe che, nel momento in cui
la Regione finanzia con un fondo speciale interventi aggiuntivi rispetto a
quelli previsti in via ordinaria, finalizzati, secondo quanto espressamente
indicato nella legge regionale, al «contrasto dei fenomeni di povertà e disagio
sociale nel territorio regionale», sarebbe ragionevole concentrare le risorse
sui fenomeni più radicati, anche sotto l’aspetto temporale, entro i confini
della Regione.
10.– La censura relativa all’art. 3 della
legge regionale n. 16 del 2011 – che sostituisce l’art. 8-bis, comma 1, della legge regionale n. 11 del 2006 – sarebbe
inammissibile e infondata, perché priva di oggetto, dal momento che
l’individuazione dei soggetti beneficiari delle provvidenze, verso cui si
indirizzano le censure del ricorrente, sarebbe operata non dalla norma
impugnata, bensì mediante il rinvio all’art. 12-bis, comma 1, della predetta legge n. 11 del 2006 (anch’esso
novellato dalla legge impugnata ed oggetto di giudizio).
Il menzionato art. 12-bis risulta infatti modificato dall’art.
5 della legge regionale impugnata ed attualmente individua i destinatari di
alcune provvidenze a favore delle famiglie e a sostegno della genitorialità nei
nuclei familiari in cui almeno uno dei genitori risieda nel territorio
regionale da almeno ventiquattro mesi e sia cittadino italiano, cittadino di
Stati appartenenti all’Unione europea, oppure straniero titolare di permesso di
soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo o dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria. È stata
conseguentemente abrogata la norma secondo cui tali prestazioni erano disposte
prioritariamente a favore dei nuclei familiari in cui quantomeno uno dei
genitori risiedesse da almeno otto anni, anche non continuativi, in Italia, di
cui uno nella Regione.
Dette provvidenze, specificamente
previste agli artt. 8-bis, 9, 10 e 11
della legge regionale n. 11 del 2006, costituiscono benefici aggiuntivi
rispetto a quelli statali e alcuni di essi sono condizionati al mancato superamento
di limiti di reddito piuttosto elevati e tali, dunque, da attenuare la
socialità dell’intervento.
11.– Per gli interventi relativi alla
materia dell’edilizia residenziale pubblica e dei servizi abitativi (art. 8-ter della legge n. 11 del 2006 e artt. 6,
comma 1, e 7 della legge n. 16 del 2011), attuati in favore dei residenti da
almeno 24 mesi nel territorio regionale, cittadini italiani o di Stati
appartenenti all’Unione europea, oppure stranieri titolari di permesso di
soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo o dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria, vi sarebbe il
precedente già richiamato, costituito dall’ordinanza di questa
Corte n. 32 del 2008. D’altro canto, la residenza protratta è richiesta
anche dalla legislazione statale in tema di diritto sociale all’abitazione
(artt. 11, comma 2, e 23 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, recante
«Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la
competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione
tributaria», convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133).
Non sarebbe pertanto irragionevole la
previsione del requisito di residenza di soli 24 mesi, applicato
indistintamente a cittadini e stranieri per un beneficio la cui concreta
fruizione richiede comunque tempi lunghi di attesa.
12.– Infine, per quanto concerne
l’attribuzione degli assegni di studio a favore delle famiglie degli alunni di
scuole dell’obbligo e secondarie non statali, parificate o paritarie o
riconosciute con titolo di studio avente valore legale, istituite senza fine di
lucro, regolato dall’art. 8, comma 2, della legge impugnata, la Regione
evidenzia, da un canto, la portata ampliativa del riconoscimento di tale
provvidenza; dall’altro, la compatibilità con il diritto dell’Unione. Essendo,
inoltre, detto beneficio previsto per gli alunni frequentanti scuole non
statali, il diritto fondamentale dell’istruzione, tutelato dall’art. 33 Cost.,
sarebbe comunque assicurato mediante la possibilità dell’accesso alla scuola
pubblica. Rileva, infine, che anche per questa prestazione i limiti economici
sono elevati.
La Regione ha, quindi, concluso per
l’inammissibilità o per la non fondatezza del ricorso.
Considerato
in diritto
1.– Il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha
promosso questioni di legittimità costituzionale degli articoli 2, 3, 5, 6,
comma 1, 7, 8, comma 2, e 9 della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia
Giulia 30 novembre 2011, n. 16 (Disposizioni di modifica della normativa
regionale in materia di accesso alle prestazioni sociali e di personale), in
riferimento agli articoli 3 e 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione.
2.– La Regione ha eccepito in via
preliminare l’inammissibilità del ricorso, che sarebbe stato notificato un
giorno dopo la scadenza del termine previsto dall’art. 127, primo comma, Cost.
L’eccezione non è fondata.
Il termine di sessanta giorni previsto
per la notificazione del ricorso dall’art. 127 Cost. e dall’art. 31, comma 2,
della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento
della Corte costituzionale), scadeva il 5 febbraio 2012 e, trattandosi di una
domenica, era prorogato al 6 febbraio 2012, mentre la notificazione è stata
effettuata il 7 febbraio 2012; ma ciò è avvenuto in presenza di una «proroga
dei termini per mancato funzionamento degli Uffici giudiziari di Roma Capitale
e dei Comuni della provincia di Roma compresa la Corte di Cassazione», disposta
dal Ministro della giustizia con decreto dell’8 febbraio 2012, in applicazione
degli artt. 1 e 2 del decreto legislativo 9 aprile 1948, n. 437 (Proroga dei
termini di decadenza in conseguenza del mancato funzionamento degli uffici
giudiziari).
Questi articoli stabiliscono che qualora
gli uffici giudiziari non siano in grado di funzionare regolarmente per eventi
di carattere eccezionale, riconosciuti con decreto del Ministro della
giustizia, «i termini di decadenza per il compimento di atti presso gli uffici
giudiziari, o a mezzo del personale addetto ai predetti uffici, scadenti
durante il periodo di mancato o irregolare funzionamento, o nei cinque giorni
successivi, sono prorogati di quindici giorni, a decorrere dal giorno in cui è
pubblicato» il decreto.
Nel caso di specie una precipitazione
nevosa aveva paralizzato la città di Roma e i Comuni della provincia, e il
Prefetto, con provvedimento del 4 febbraio 2012, aveva disposto la «chiusura di
tutti gli Uffici Pubblici di Roma Capitale e dei Comuni della provincia,
compresi gli Uffici Giudiziari e la Corte di Cassazione per il giorno 6
febbraio 2012». In tale periodo il ricorrente non era perciò in condizione di
valersi degli ufficiali giudiziari ai fini della notificazione.
Al provvedimento del Prefetto aveva
fatto seguito il decreto del Ministro della giustizia di cui si è detto, perciò
è da escludere che nel caso in esame si sia verificata l’eccepita
inammissibilità, dato che con il decreto ministeriale era stata disposta, a
decorrere dalla pubblicazione, la proroga di quindici giorni dei termini
scadenti nei giorni 3, 4 o 6, «o nei cinque giorni successivi».
In contrario non vale osservare che la
notificazione, anziché a mezzo dell’ufficiale giudiziario, avrebbe potuto
essere effettuata a mezzo del servizio postale, perché ciò che rileva, a norma
del d.lgs. n. 437 del 1948, è che era stata disposta la proroga: in materia di
termini esiste infatti un’esigenza di certezza che deve ricollegarsi al
provvedimento del Ministro, indipendentemente dalla possibilità di ovviare di
fatto all’impedimento che ha determinato la proroga.
È da aggiungere che in base al
provvedimento del Prefetto, che riguardava tutti gli uffici pubblici di Roma,
erano chiusi anche gli uffici dell’Avvocatura dello Stato e che sotto questo
aspetto si sarebbe potuto ravvisare nel caso di specie un grave impedimento di
fatto, che, a norma dell’art. 37 dell’allegato I al decreto legislativo 2
luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n.
69, recante delega al Governo per il riordino del processo amministrativo) –
applicabile in forza del «rinvio dinamico» contenuto nell’art. 22 della legge
n. 87 del 1953 (sentenza
n. 161 del 2012) – consente, anche d’ufficio, la rimessione in termini, in
applicazione del generale principio giuridico secondo cui ad impossibilia nemo tenetur (Consiglio di Stato, sezione quarta,
17 ottobre 2012, n. 5342).
3.– La legge impugnata reca modifiche
alla disciplina primaria concernente l’erogazione di prestazioni sociali,
contenuta in altri testi normativi della Regione, secondo un duplice criterio:
a tutti gli aspiranti viene richiesto di risiedere da almeno 24 mesi nel
territorio regionale (artt. 2, 3, 5, 6, 7, 8), mentre ai soli stranieri si
impone non solo tale requisito, ma anche di risiedere in Italia da non meno di
5 anni (art. 9), ove essi non siano cittadini dell’Unione, ovvero, per talune
provvidenze, ove non siano titolari dello status
di rifugiato e dello status di
protezione sussidiaria ai sensi del decreto legislativo 19 novembre 2007, n.
251 (Attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime
sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del
rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale,
nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta), ovvero
titolari di «permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo» (in
tali casi, le norme impugnate equiparano queste persone al cittadino italiano).
Il ricorrente reputa entrambi questi
criteri contrari all’art. 3 Cost., in quanto manifestamente irragionevoli, e
all’art. 117, secondo comma, lettera m),
Cost., in quanto lesivi dello standard di soddisfacimento dei livelli
essenziali delle prestazioni sociali assicurato dalla normativa dello Stato.
Sotto quest’ultimo profilo, in
particolare, le norme impugnate avrebbero ecceduto dalla competenza statutaria
in materia di «lavoro, previdenza e assistenza sociale» prevista dall’art. 6,
numero 2), della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto
speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), e comunque da quella residuale
in materia di assistenza sociale contenuta nell’art. 117, quarto comma, Cost.
4.–
Secondo la resistente tali disposizioni
avrebbero abrogato espressamente la pregressa normativa regionale concernente
la prestazione sociale in oggetto, la quale richiedeva condizioni più rigorose
di accesso, sicché per effetto di un’eventuale dichiarazione di illegittimità
costituzionale, quest’ultima dovrebbe rivivere, reintroducendo requisiti di
godimento «ancora più irragionevoli e discriminatori di quelli recati dalla
legge impugnata».
L’eccezione è palesemente infondata
perché, ove questa Corte dovesse reputare costituzionalmente illegittima
l’apposizione di taluni requisiti di accesso ad una prestazione sociale, per
effetto di tale pronuncia la prestazione diverrebbe accessibile in assenza di
essi, mentre ciò non comporterebbe alcuna reviviscenza di una normativa oramai
abrogata (sentenza
n. 13 del 2012).
5.– Le questioni di legittimità
costituzionale di tutte le norme impugnate, in riferimento alla violazione
dell’art. 117, secondo comma, lettera m),
Cost. sono inammissibili, come ha esattamente eccepito la difesa regionale.
Il ricorrente non contesta, come si è
appena precisato, che in termini astratti le disposizioni censurate ineriscano
alla competenza legislativa regionale in tema di assistenza sociale, ma ritiene
che, nel caso di specie, essa debba venire compressa in ragione dell’azione
trasversale della competenza esclusiva dello Stato a determinare i livelli
essenziali delle prestazioni sociali.
Questa Corte premette che la competenza
residuale di cui al quarto comma dell’art. 117 Cost. è senza dubbio più
favorevole per
Ciò detto, va rilevato che la censura
del ricorrente non è accompagnata dalla necessaria individuazione dello
specifico livello essenziale della prestazione, garantita dalla normativa dello
Stato, con il quale le norme impugnate colliderebbero. È giurisprudenza di
questa Corte che da tale individuazione il ricorrente non possa prescindere,
posto che essa vale a determinare il limite oltre il quale, cessata l’azione
trasversale della normativa dello Stato, si riespande la generale competenza
della Regione sulla materia, residuale, oggetto di disciplina (sentenze n. 8 del
2011 e n.
383 del 2005).
Ne segue che le norme impugnate debbono
venire valutate, una volta divenuta inammissibile la questione sul riparto di
competenza legislativa, solo con riguardo al carattere manifestamente
irragionevole che il ricorrente loro attribuisce, deducendone la violazione
dell’art. 3 Cost.
6.– La questione di legittimità
costituzionale dell’art. 9 della legge impugnata, nella parte in cui per il
solo straniero subordina l’accesso ai benefici al requisito della residenza in
Italia da non meno di cinque anni, è fondata, in riferimento all’art. 3 Cost.
Come si è visto, l’art. 9 esige un
requisito generale in capo allo straniero per accedere alle prestazioni
sociali, ovvero che egli risieda nel territorio nazionale da non meno di cinque
anni. Tale condizione si cumula, per mezzo di un rinvio disposto dalla stessa
norma impugnata, a quella stabilita dall’art. 41 del decreto legislativo 25
luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), vale a dire alla
titolarità, quanto meno, del permesso di soggiorno di durata non inferiore ad
un anno.
Non vi è dubbio che, entro i limiti
consentiti dall’art. 11 della direttiva 25 novembre 2003, n. 2003/109/CE
(Direttiva del Consiglio relativa allo status
di cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo), cui ha
conferito attuazione il decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione
della direttiva 2003/109/CE relativa allo status
di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo), e comunque nel
rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo assicurati dalla Costituzione
e dalla normativa internazionale, il legislatore possa riservare talune
prestazioni assistenziali ai soli cittadini e alle persone ad essi equiparate
soggiornanti in Italia, il cui status
vale di per sé a generare un adeguato nesso tra la partecipazione alla
organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica, e l’erogazione
della provvidenza. Tuttavia, non è detto che un nesso a propria volta
meritevole di protezione non possa emergere con riguardo alla posizione di chi,
pur privo dello status, abbia
tuttavia legittimamente radicato un forte legame con la comunità presso la
quale risiede e di cui sia divenuto parte, per avervi insediato una prospettiva
stabile di vita lavorativa, familiare ed affettiva, la cui tutela non è
certamente anomala alla luce dell’ordinamento giuridico vigente (art. 8 della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva
con legge 4 agosto 1955, n. 848; art. 13, comma 2-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998).
In tali casi, a fronte del pregiudizio
che può derivare dall’esclusione indiscriminata dello straniero dalla
prestazione sociale, occorre particolare cura nella identificazione del legame che
congiunge la provvidenza allo status
di cittadino, anziché al contributo offerto dall’individuo alla società in cui
si è inserito.
Il legislatore, quindi, per sottrarre
eventuali restrizioni nell’accesso alle prestazioni sociali ad un giudizio di
ineguaglianza e di manifesta irragionevolezza, è tenuto a rivolgere lo sguardo
non soltanto, per il passato, alla durata della residenza sul territorio
nazionale o locale oltre una soglia temporale minima, ma anche, in prospettiva,
alla presenza o all’assenza di indici idonei a testimoniare il legame
tendenzialmente stabile tra la persona e la comunità.
La norma impugnata, attraverso una
previsione generale che accomuna prestazioni di natura assai diversa, si limita
viceversa ad esigere una residenza almeno quinquennale in Italia, nonostante il
rinvio all’art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998, il quale già prevede una soglia
minima di legale permanenza sul territorio nazionale della durata di un anno
soltanto.
Combinando la natura indiscriminata
della restrizione, che non viene apprezzata nelle sue ragioni giustificatrici,
provvidenza per provvidenza, con lo sproporzionato rilievo attribuito al
requisito della residenza, per un periodo di tempo significativo e comunque
largamente superiore a quello indicato dall’art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998,
il legislatore regionale è incorso nel dedotto vizio di violazione dell’art. 3
Cost.
In tema di accesso degli stranieri alle
prestazioni di assistenza sociale, questa Corte ha infatti già affermato (sentenze n. 133,
n. 4 e n. 2 del 2013)
che, mentre la residenza costituisce, rispetto a una provvidenza regionale, «un
criterio non irragionevole per l’attribuzione del beneficio» (sentenza n. 432 del
2005), non altrettanto può dirsi quanto alla residenza protratta per un
predeterminato e significativo periodo minimo di tempo (nella specie,
quinquennale). La previsione di un simile requisito, infatti, ove di carattere
generale e dirimente, non risulta rispettosa dei principi di ragionevolezza e
di uguaglianza, in quanto «introduce nel tessuto normativo elementi di
distinzione arbitrari», non essendovi alcuna ragionevole correlazione tra la
durata prolungata della residenza e le situazioni di bisogno o di disagio,
riferibili direttamente alla persona in quanto tale, che in linea astratta ben
possono connotare la domanda di accesso al sistema di protezione sociale (sentenza n. 40 del
2011).
Non rileva, in senso contrario, la
circostanza su cui pone l’accento la difesa della Regione che il requisito in
questione risponda ad esigenze di risparmio, correlate al decremento delle
disponibilità finanziarie conseguente alle misure statali di contenimento della
spesa pubblica. Essa non esclude, infatti, «che le scelte connesse alla
individuazione dei beneficiari – necessariamente da circoscrivere in ragione
della limitatezza delle risorse disponibili – debbano essere operate sempre e
comunque in ossequio al principio di ragionevolezza» (sentenze n. 4 del
2013; n. 40
del 2011; n.
432 del 2005).
L’art. 9 impugnato va, perciò,
dichiarato costituzionalmente illegittimo, limitatamente alle parole «nel
territorio nazionale da non meno di cinque anni e».
L’art. 9 esige, altresì, da parte dello
straniero una residenza di almeno 24 mesi nel territorio regionale. Per tale
parte (così come per la parte in cui rinvia all’art. 41 del d.lgs. n. 286 del
1998), esso non è oggetto di autonoma censura volta a denunciare la disparità
di trattamento tra cittadino e straniero, ma viene investito dal ricorso,
unitamente agli artt. 2, 3, 5, 6, comma 1, 7 e 8, comma
Ne segue che tale censura va valutata
unitamente a quelle simili mosse contro le disposizioni appena elencate.
7.– Questa Corte, relativamente alla
analoga violazione del canone di ragionevolezza determinata dalla esclusione da
un beneficio per tutti coloro (italiani e stranieri) che non siano residenti da
un periodo protratto e continuativo nel territorio regionale, ha osservato che
la legittimità di una simile scelta non esclude che i canoni selettivi adottati
debbano comunque rispondere al principio di ragionevolezza, in quanto l’introduzione
di regimi differenziati è consentita solo in presenza di una causa normativa
non palesemente irrazionale o arbitraria, che sia cioè giustificata da una
ragionevole correlazione tra la condizione cui è subordinata l’attribuzione del
beneficio e gli altri peculiari requisiti che ne condizionano il riconoscimento
e ne definiscono la ratio (sentenza n. 172 del
2013).
Bisogna ora aggiungere che, diversamente
che nell’ipotesi di discriminazioni introdotte tra cittadino e straniero, un
elemento che qui caratterizza il giudizio di ragionevolezza è costituito dalla
rilevanza che assume la dimensione regionale nella concessione o nel diniego di
una prestazione sociale.
La Regione, in quanto ente esponenziale
della comunità operante sul territorio, ben può, infatti, favorire, entro i
limiti della non manifesta irragionevolezza, i propri residenti, anche in
rapporto al contributo che essi hanno apportato al progresso della comunità
operandovi per un non indifferente lasso di tempo, purché tale profilo non sia
destinato a soccombere, a fronte di provvidenze intrinsecamente legate ai
bisogni della persona, piuttosto che al sostegno dei membri della comunità.
Tale premessa conduce alla illegittimità
costituzionale degli artt. 2 e 8, comma 2, della legge impugnata, e dell’art. 9
della medesima legge, nella parte in cui tali disposizioni subordinano
l’accesso alle prestazioni sociali da esse regolate al requisito della
residenza nel territorio regionale da almeno 24 mesi, e non al solo requisito
della residenza nella Regione.
In particolare, è fondata la questione
di legittimità costituzionale degli artt. 2 e 9 della legge regionale n. 16 del
L’art. 2 indica le persone che possono
usufruire di un fondo regionale istituito dall’art. 9, comma 5, della legge
regionale 14 agosto 2008, n. 9 (Assestamento del bilancio 2008 e del bilancio
pluriennale per gli anni 2008-2010 ai sensi dell’articolo 34 della legge
regionale 8 agosto 2007, n. 21), per il «contrasto dei fenomeni di povertà e
disagio sociale».
Si tratta, perciò, di una provvidenza
che, alla luce della scarsità delle risorse destinabili alle politiche sociali
nell’attuale contesto storico, non potrà che venire riservata a casi di
indigenza. È perciò manifestamente irragionevole, ed incongruo, negare
l’erogazione della prestazione a chiunque abbia la (sola) residenza nella
Regione, posto che non vi è alcuna correlazione tra il soddisfacimento dei
bisogni primari dell’essere umano, insediatosi nel territorio regionale, e la
protrazione nel tempo di tale insediamento (sentenza n. 40 del
2011; sentenza
n. 187 del 2010).
È altresì fondata la questione di
legittimità costituzionale degli artt. 8, comma 2, e 9 della legge impugnata,
in riferimento all’art. 3 Cost.
L’art. 8, comma 2, definisce i titolari
del diritto a percepire assegni di studio ai sensi della legge regionale 24
aprile 1991, n. 14 (Norme integrative in materia di diritto allo studio),
tenendo conto delle condizioni economiche dei rispettivi nuclei familiari (art.
3, comma 2).
Questa Corte, a proposito di una norma
regionale che parimenti valorizzava il prolungamento della residenza nel
territorio dello studente oltre una certa soglia temporale, ha infatti già
rilevato che le misure di sostegno si ispirano ad una ragione giustificatrice,
connessa al diritto allo studio, che non ha alcun rapporto con «la durata della
residenza» (sentenza
n. 2 del 2013).
8.– La questione di legittimità
costituzionale degli artt. 3 e 9 della legge impugnata non è fondata, in riferimento
all’art. 3 Cost.
L’art.
Contrariamente a quanto eccepito dalla
difesa regionale, perciò, la disposizione censurata provvede in tal modo essa
stessa, e con precetto che sarebbe autonomamente lesivo, a selezionare i
beneficiari della provvidenza, e si rende per tale parte senza dubbio
impugnabile.
Gli assegni in questione sono misure
indirizzate a favorire lo sviluppo del nucleo famigliare, affinché esso
costituisca una cellula vitale della comunità. In tale caso, non è
manifestamente irragionevole che il legislatore si rivolga proprio a quelle
formazioni sociali che non solo sono presenti sul territorio, ma hanno già
manifestato, con il passare degli anni, l’attitudine ad agirvi stabilmente,
così da poter venire valorizzate nell’ambito della dimensione regionale.
Il legislatore friulano, in altri
termini, non viene qui incontro ad un bisogno primario dell’individuo che non
tollera un distinguo correlato al radicamento territoriale, ma appronta misure
che eccedono il nucleo intangibile dei diritti fondamentali della persona
umana, e che premiano, non arbitrariamente, il contributo offerto dalla
famiglia al progresso morale e materiale della comunità costituita su base
regionale.
9.– La questione di legittimità costituzionale
degli artt. 5 e 9 della legge regionale impugnata non è fondata, in riferimento
all’art. 3 Cost.
L’art. 5, al pari dell’art. 3 appena
esaminato, circoscrive i destinatari di prestazioni economiche destinate alle
famiglie. Si tratta, in particolare, dell’accesso ad abitazioni in locazione
(art. 8-ter della legge regionale n.
11 del 2006), del sostegno in caso di contrazione del reddito familiare (art. 9
della legge regionale n. 11 del 2006), della fruizione di beni e servizi, e
dell’eventuale riduzione di imposte e tasse, per mezzo della “Carta Famiglia”
(art. 10 della legge regionale n. 11 del 2006), e per mezzo di vouchers volti a favorire il
reinserimento lavorativo dei genitori (art. 11 della legge regionale n. 11 del
2006). Anche in tali ipotesi, il legislatore ha lo scopo di valorizzare, con
misure eccedenti i livelli essenziali delle prestazioni, il contributo offerto
alla comunità dal nucleo famigliare, con adeguata costanza, sicché non è
manifestamente irragionevole indirizzare i propri sforzi a favore dei nuclei
già attivi da tempo apprezzabile, e perciò stesso parti vitali della comunità.
10.– Le questioni di legittimità
costituzionale degli artt. 6, comma 1, 7 e 9 della legge impugnata, in
riferimento all’art. 3 Cost., non sono fondate.
L’art. 6, comma 1, concerne interventi
di edilizia convenzionata ed agevolata, e di sostegno alle locazioni, mentre
l’art. 7 indica i beneficiari dell’assegnazione di alloggi di edilizia
convenzionata, in riferimento, rispettivamente, agli artt. 12 e 18 della legge
regionale 7 marzo 2003, n. 6 (Riordino degli interventi regionali in materia di
edilizia residenziale pubblica).
Questa Corte ha già ritenuto che «il
requisito della residenza continuativa, ai fini dell’assegnazione, risulta non
irragionevole (sentenza
n. 432 del 2005) quando si pone in coerenza con le finalità che il
legislatore intende perseguire» (ordinanza n. 32 del
2008), e ha escluso l’illegittimità costituzionale di una norma della
Regione Lombardia che prescrive, ai fini dell’accesso agli alloggi di edilizia
residenziale pubblica, il requisito della residenza o dello svolgimento di
attività lavorativa in Regione da almeno cinque anni.
In effetti, le politiche sociali delle
Regioni legate al soddisfacimento dei bisogni abitativi ben possono prendere in
considerazione un radicamento territoriale ulteriore rispetto alla sola
residenza, purché contenuto entro limiti non palesemente arbitrari ed
irragionevoli. L’accesso a un bene di primaria importanza e a godimento
tendenzialmente duraturo, come l’abitazione, per un verso si colloca a
conclusione del percorso di integrazione della persona presso la comunità locale
e, per altro verso, può richiedere garanzie di stabilità, che, nell’ambito
dell’assegnazione di alloggi pubblici in locazione, scongiurino avvicendamenti
troppo ravvicinati tra conduttori, aggravando l’azione amministrativa e
riducendone l’efficacia.
per
questi motivi
1) dichiara
l’illegittimità costituzionale degli
articoli 2 e 8, comma 2, della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia
Giulia 30 novembre 2011, n. 16 (Disposizioni di modifica della normativa
regionale in materia di accesso alle prestazioni sociali e di personale), nella
parte in cui subordinano l’accesso alle prestazioni ivi indicate al requisito
della residenza nel territorio regionale da almeno ventiquattro mesi, anziché
al solo requisito della residenza;
2) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’articolo
9 della legge regionale n. 16 del 2011, nella parte in cui, per gli stranieri
di cui all’art. 41 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico
delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero), subordina l’accesso alle prestazioni indicate dai
precedenti artt. 2 e 8, comma 2, al requisito della residenza nel territorio
regionale da almeno ventiquattro mesi;
3) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’articolo
9 della legge regionale n. 16 del 2011, limitatamente alle parole «nel
territorio nazionale da non meno di cinque anni e»;
4) dichiara
inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 2, 3,
5, 6, comma 1, 7, 8, comma 2, e 9 della legge regionale n. 16 del 2011,
promosse, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, dal Presidente
del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe;
5) dichiara
non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 3, 5, 6,
comma 1, e 7 della legge regionale n. 16 del 2011, promosse, in riferimento
all’articolo 3 della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri,
con il ricorso indicato in epigrafe;
6) dichiara
non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9 della
legge regionale n. 16 del 2011, nella parte in cui subordina al requisito della
residenza da almeno ventiquattro mesi nel territorio regionale l’accesso alle
prestazioni indicate dai precedenti artt. 3, 5, 6, comma 1, e 7, promossa, in
riferimento all’articolo 3 della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei
ministri, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 luglio
2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 19 luglio 2013.