Sentenza n. 235 del 2005

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SENTENZA N. 235

ANNO 2005

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Piero Alberto             CAPOTOSTI             Presidente

-  Fernanda                   CONTRI                       Giudice

-  Guido                        NEPPI MODONA            “

-  Annibale                    MARINI                            “

-  Giovanni Maria         FLICK                               “

-  Francesco                  AMIRANTE                      “

-  Ugo                           DE SIERVO                      “

-  Romano                     VACCARELLA                “

-  Paolo                         MADDALENA                 “

-  Alfio                          FINOCCHIARO              “

-  Alfonso                     QUARANTA                    “

-  Franco                       GALLO                             “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati del 29 settembre 1998 relativa all’insindacabilità, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dall’on. Roberto Maroni nei confronti di Roberto Napoli, promosso con ricorso della Corte di appello di Roma – sezione I civile, notificato il 24 luglio 2004, depositato in Cancelleria il 4 agosto 2003 ed iscritto al n. 29 del registro conflitti 2003.

  Visto l’atto di costituzione della Camera dei deputati;

  udito nell’udienza pubblica del 5 aprile 2005 il Giudice relatore Franco Gallo;

  udito l’avvocato Paolo Saitta per la Camera dei deputati.

Ritenuto in fatto

1. – Nel corso di un procedimento civile per risarcimento danni, instaurato da Roberto Napoli contro il deputato Roberto Maroni a causa di dichiarazioni asseritamente diffamatorie pronunciate da quest’ultimo nei riguardi del primo, la Corte d’appello di Roma, sezione I civile, con atto depositato il 17 dicembre 2002, ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati, in relazione alla delibera adottata nella seduta del 29 settembre 1998, con la quale l’Assemblea, approvando la proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere in giudizio, ha dichiarato che i fatti per i quali è in corso il procedimento civile concernono opinioni espresse da un membro del Parlamento, con conseguente insindacabilità, a norma dell’art. 68, primo comma, della Costituzione.

La ricorrente premette di essere stata investita dell’appello avverso la decisione di primo grado del Tribunale di Roma, che aveva ritenuto improcedibile la domanda di risarcimento in forza della richiamata delibera dell’Assemblea, ed espone che i fatti oggetto del giudizio di merito sono costituiti da dichiarazioni rese dal deputato nel corso di interviste a diversi quotidiani, nel contesto delle quali il parlamentare, commentando una precedente intervista resa da Roberto Napoli (il quale aveva fatto riferimento ad «un incontro dell’ex Ministro dell’interno Maroni presso la sede del SISDE nel Natale 1995 con il capo del SISDE generale Marino in un roof garden costato sette miliardi»), aveva affermato:

-  che i giudici «avrebbero dovuto fare attenzione alle stupidaggini di questo mediocre cialtrone Napoli» e che lo stesso «stava spargendo fesserie, spazzatura, forse per rientrare al SISDE, forse per rastrellare qualche soldo» (intervista a “Il Messaggero” del 5 gennaio 1996);

-  «quel Napoli è un cialtrone, racconta frottole»; «state attenti all’attendibilità delle notizie che questo mediocre cialtrone propina su di me e su Di Pietro» (intervista a “Il Giornale” del 5 gennaio 1996);

-  «non vedete che ha uno stile inconfondibile? Quello dei Malpica e dei Broccoletti», «il pattume dei vecchi servizi [...] il vero problema non mi pare il cialtrone Napoli» (intervista a “L’Indipendente” del 14 e 15 gennaio 1996);

Si trattava di frasi poi ripetute dal deputato nel corso di altri interventi effettuati presso varie reti televisive (RAI, Mediaset, TMC).

La ricorrente, non condividendo l’orientamento seguito dal primo giudice di merito, solleva conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati, in relazione alla citata delibera, ritenendo che l’Assemblea, mal esercitando il potere a essa conferito dall’art. 68, primo comma, della Costituzione, abbia leso le prerogative costituzionali dell’autorità giudiziaria, previste e garantite dall’art. 102 della Costituzione, in quanto le dichiarazioni in questione, rese a organi di stampa e a strutture televisive al di fuori della sede parlamentare, non sarebbero in alcun modo collegate allo svolgimento dell’attività parlamentare del deputato, non risultando che «della questione il deputato Maroni abbia mai trattato nella sede parlamentare, neanche a livello di mero argomento».

La Corte d’appello sottolinea come non possa dirsi sussistente, nel caso di specie, alcun collegamento funzionale tra le dichiarazioni rese dall’on. Maroni e la sua attività di parlamentare, e osserva che tali frasi costituiscono, piuttosto, l’esercizio della comune libertà di pensiero, nel quadro di una «polemica diretta e personale con il Napoli», e non «svolgimento, anche generico, di attività politica».

Ritenendo arbitrario, in conclusione, il riconoscimento della prerogativa dell’insindacabilità, la Corte d’appello ricorrente, «vertendosi in materia di interferenza dell’esercizio del potere conferito alla Camera dei deputati dall’art. 68, primo comma, della Costituzione, nelle attribuzioni dell’autorità giudiziaria previste e garantite dall’art. 102 della Costituzione», solleva conflitto di attribuzione, chiedendo l’annullamento della delibera sopra richiamata.

2. – Con ordinanza 30 giugno – 15 luglio 2003, n. 252, la Corte costituzionale ha dichiarato ammissibile il conflitto.

3. – Con atto depositato il 4 agosto 2003, si è costituita la Camera dei deputati, eccependo preliminarmente l’inammissibilità o improcedibilità del ricorso.

3.1. – In punto di inammissibilità, la Camera osserva che, poiché il giudice di primo grado «si è puntualmente conformato alla delibera camerale di insindacabilità, addivenendo per conseguenza ad una sentenza dichiarativa dell’improcedibilità della domanda risarcitoria avanzata nei confronti del parlamentare», si deve ritenere «che il potere di attivare un conflitto di attribuzione nei confronti della delibera menzionata non sia più esercitabile da parte dell’autorità giurisdizionale. In altre parole, si deve ritenere che il potere di elevare il conflitto si sia definitivamente consumato a seguito della decisione del giudice di primo grado di conformarsi alla delibera d’insindacabilità intervenuta nelle more di tale giudizio».

La Camera sottolinea che, anche se non esistono termini di decadenza per il promuovimento del conflitto fra poteri, «è altresì vero che nella raffigurazione della giurisprudenza di questa Corte il potere giurisdizionale si delinea quale potere “diffuso”, almeno ai fini del riconoscimento a ciascun giudice della legittimazione attiva e passiva nei .giudizi per conflitto d’attribuzioni». Ne consegue che il potere di sollevare il conflitto «si concentra in capo al giudice che abbia subito ab initio la (pretesa) lesione e che la sua determinazione di soprassedere comunque all’elevazione del conflitto, incarnando la volontà dell’intero potere di appartenenza, si riverberi con effetto preclusivo in tutti i successivi gradi di giudizio».

A sostegno di tale prospettazione, la Camera precisa che «nel nostro ordinamento costituzionale sussiste un principio che impone di “favorire al massimo”, attraverso la cooperazione tra gli organi interessati al conflitto, la composizione extragiudiziaria delle relative controversie; con la conseguenza che ove la situazione di conflittualità sia “oramai palesata”, sorge la necessità che il contrasto si concluda entro limiti temporali certi». Ne deriva, sempre ad avviso della Camera che, poiché il principio affermato dalla giurisprudenza costituzionale, per cui è inammissibile la riproposizione di un medesimo conflitto già dichiarato inammissibile dalla Corte, è ispirato ad un’esigenza di tempestiva definizione del conflitto tra poteri, anche nel caso di specie «non è […] pensabile che la facoltà di reazione nei confronti dell’atto parlamentare da parte degli organi giudiziari possa tranquillamente protrarsi per tutti i gradi di giudizio (sino all’ipotesi estrema, ma potenzialmente operativa, della revocazione), mantenendo aperta così per un lungo arco di tempo, pressoché imponderabile, la situazione di incertezza».

Un secondo motivo di inammissibilità o improcedibilità è insito, ad avviso della Camera, nel fatto che la Corte d’appello ricorrente abbia omesso di chiarire se sia stata o meno sospesa l’efficacia della sentenza di primo grado. Infatti, sempre secondo la Camera, «ove l’efficacia della predetta sentenza fosse tuttora perdurante, in punto di accertamento della esimente di cui all’art. 68, primo comma, Cost., ne risulterebbe preclusa la configurabilità di un interesse attuale e concreto alla elevazione del conflitto».

Sempre con riferimento all’eccepita inammissibilità del conflitto, la Camera richiama, infine, l’entrata in vigore, nelle more del giudizio, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), che dovrebbe ritenersi di immediata applicazione nel caso in esame «in quanto, a parte il suo profilo “più favorevole”, essa costituisce normativa di attuazione di disposizioni di rango costituzionale, introducendo inoltre nuovi fattori di valutazione in ordine alla estensione della garanzia dell’insindacabilità e alla ponderazione del collegamento tra dichiarazioni esterne ed attività parlamentare». Sussiste pertanto, ad avviso della Camera, la necessità che sia consentita al giudice una rivalutazione della perdurante sussistenza dei presupposti per l’elevazione del conflitto, alla luce della nuova normativa.

3.2. – In via subordinata, la Camera rileva l’infondatezza del ricorso nel merito, osservando, in primo luogo, che le dichiarazioni oggetto del giudizio civile non costituiscono, come sostenuto dalla Corte d’appello ricorrente, l’esplicazione di opinioni personali nell’ambito di una vicenda di carattere privato.

Secondo la Camera, «le dichiarazioni di cui si tratta vanno ricondotte, anche per calibrarne correttamente il “tenore”, ad un contesto che – come si ha cura di puntualizzare nella relazione della Giunta per le autorizzazioni – aveva riguardato il Napoli “un ex agente del SISDE il cui nome era venuto alla ribalta della cronaca con riferimento alla cosiddetta inchiesta segreta sull’attuale senatore Antonio Di Pietro e al cosiddetto dossier Achille, la cui esistenza sarebbe stata – secondo quanto affermato dall’attore – disconosciuta dal Viminale (e, tra gli altri, dal generale Gaetano Marino, allora direttore del SISDE, accusato dal Napoli di aver mentito su Di Pietro anche al Comitato parlamentare di controllo sui servizi)”». La Camera menziona, a tale proposito, l’interpellanza n. 2/00281 in data 5 novembre 1996, dell’on. Veltri, «dove si fa, appunto, esplicito riferimento al cosiddetto “dossier Achille”» e richiama la relazione della Giunta per le autorizzazioni a procedere in giudizio, secondo la quale le dichiarazioni dell’on. Maroni sono correlate «a una vicenda di forte attualità politica che aveva visto coinvolto l’onorevole Maroni nella sua precedente qualità di Ministro dell’interno».

A sostegno della riconducibilità delle affermazioni dell’on. Maroni alla funzione parlamentare, la Camera cita poi i resoconti delle sedute del Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato e «i numerosissimi atti ispettivi che hanno investito l’argomento, ma anche le specifiche fattispecie evocate dall’on. Maroni (cfr., tra i tanti, interrogazione, n. 4/08298 del 28.2.1996, presentatore on. Boso; interrogazione n. 4/15890 del 1°.7.1993, pres. on. Dosi; interpellanza, n. 2/01182, del 3.12.1993, pres. on. Tassi; interpellanza, n. 2/01232 del 13.1.1994, pres. on. Tassi; interrogazione, n. 3/00911 del 3.11.1993, pres. sen. Brutti; interrogazione, n. 3/01571 del 2.11.1993, pres. on. Crippa)».

Osserva inoltre la Camera che Napoli aveva partecipato ad audizioni di fronte al Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato, su diversi aspetti dell’attività, dell’organizzazione e della gestione del SISDE, prima sotto la presidenza dell’on. Brutti in data 25 maggio 1995 e poi sotto la Presidenza dell’on. Frattini, in data 21 gennaio 1997, con interventi di chiarimento e informazione di alcuni componenti del Comitato stesso, tra cui alcuni appartenenti allo stesso partito dell’on. Maroni.

Il fatto che quest’ultimo non abbia direttamente partecipato alle attività del Comitato, non essendone componente, non esclude, ad avviso della Camera, la sussistenza di un collegamento tra le dichiarazioni oggetto del giudizio civile e l’attività parlamentare. Infatti, le funzioni parlamentari devono essere considerate unitariamente e non con esclusivo riferimento all’attività di singoli componenti, proprio in base alla «ratio di tutela di cui all’art. 68 primo comma Cost. inteso anche ad assicurare il libero esercizio della complessiva funzione parlamentare».

Da ultimo, la Camera ricorda che la «questione dei dossier riservati e comunque delle deviazioni da una corretta attività informativa è stata al centro delle dichiarazioni rese nelle sedi parlamentari dall’on. Maroni, nella qualità all’epoca rivestita di Ministro dell’interno (cfr. in particolare l’interpellanza n. 2/00116 del 14.7.1994, presentatore on. Dorigo, nella quale si dà atto, appunto, delle notizie fornite al riguardo dal Ministro agli organi parlamentari)».

4. – Con memoria per l’udienza depositata il 22 marzo 2005, la Camera dei deputati ribadisce le argomentazioni già svolte ed osserva che in ogni caso il tenore delle dichiarazioni rese dall’on. Maroni non può valere «quale criterio ai fini della ponderazione in ordine alla sussistenza o meno della garanzia costituzionale», poiché il sindacato sulla lesività delle stesse è rimesso al giudice di merito. Precisa inoltre la Camera che «la parte lessicalmente più aspra delle dichiarazioni in esame risulta inscindibile dalla complessiva argomentazione polemica proposta dal deputato» e che ciò porta ad escludere che si tratti di meri insulti personali.

Considerato in diritto

1. – La Corte d’appello di Roma ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati, in relazione alla delibera adottata nella seduta del 29 settembre 1998 (doc. IV-quater, n. 36), con la quale l’Assemblea, approvando la proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere in giudizio, ha dichiarato che le affermazioni rese dal deputato Roberto Maroni, per le quali Roberto Napoli aveva promosso nei confronti del parlamentare un procedimento civile per il risarcimento dei danni, costituiscono opinioni espresse in qualità di membro del Parlamento e ricadono, pertanto, nell’ipotesi di cui all’art. 68, primo comma, della Costituzione.

La Corte d’appello premette che nelle dichiarazioni oggetto del giudizio risarcitorio – rese dal deputato al di fuori della sede parlamentare, in interviste rilasciate a diversi quotidiani (“Il Messaggero”; “Il Giornale”; “L’Indipendente”) e ripetute in interventi effettuati in varie trasmissioni televisive (presso le reti RAI, Mediaset e TMC) – l’on. Maroni, nel commentare una precedente intervista rilasciata da Roberto Napoli (il quale aveva fatto riferimento ad «un incontro dell’ex Ministro dell’interno Maroni presso la sede del SISDE nel Natale 1995 con il capo del SISDE generale Marino in un roof garden costato sette miliardi»), aveva testualmente affermato: a) i giudici «avrebbero dovuto fare attenzione alle stupidaggini di questo mediocre cialtrone Napoli»; questo «stava spargendo fesserie, spazzatura, forse per rientrare al SISDE, forse per rastrellare qualche soldo» (“Il Messaggero” del 5 gennaio 1996); b) «quel Napoli è un cialtrone, racconta frottole»; «state attenti all’attendibilità delle notizie che questo mediocre cialtrone propina su di me e su Di Pietro» (“Il Giornale” del 5 gennaio 1996); c) «non vedete che ha uno stile inconfondibile? Quello dei Malpica e dei Broccoletti», «il pattume dei vecchi servizi [...] il vero problema non mi pare il cialtrone Napoli» (“L’Indipendente” del 14 e 15 gennaio 1996). Ad avviso della Corte d’appello, tali affermazioni non sarebbero in alcun modo collegate allo svolgimento dell’attività parlamentare, non risultando che «della questione il deputato Maroni abbia mai trattato nella sede parlamentare, neanche a livello di mero argomento»; con la conseguenza che la Camera dei deputati, con la citata delibera di insindacabilità, avrebbe mal esercitato il potere a essa conferito dall’art. 68, primo comma, della Costituzione ed avrebbe leso le prerogative costituzionali dell’autorità giudiziaria, previste e garantite dall’art. 102 della Costituzione. Pertanto, il giudice di appello, non condividendo l’orientamento seguito in primo grado dal Tribunale di Roma (che, con l’impugnata sentenza,  aveva dichiarato improcedibile la domanda di risarcimento, in forza della richiamata delibera dell’Assemblea), ha proposto il menzionato conflitto di attribuzioni, chiedendo l’annullamento dell’indicata delibera di insindacabilità.

2. – Preliminarmente, devono essere dichiarate infondate le eccezioni di inammissibilità e improcedibilità del ricorso, proposte nell’atto di costituzione in giudizio dalla Camera dei deputati.

2.1. – In primo luogo, la Camera osserva che, poiché il giudice di primo grado «si è puntualmente conformato alla delibera camerale di insindacabilità, addivenendo per conseguenza ad una sentenza dichiarativa dell’improcedibilità della domanda risarcitoria avanzata nei confronti del parlamentare», si deve ritenere «che il potere di attivare un conflitto di attribuzione nei confronti della delibera menzionata non sia più esercitabile da parte dell’autorità giurisdizionale», perché «definitivamente consumato a seguito della decisione del giudice di primo grado di conformarsi alla delibera d’insindacabilità intervenuta nelle more di tale giudizio».

L’eccezione deve essere respinta perché muove dall’erroneo presupposto che il potere di sollevare il conflitto da parte del giudice, ove non esercitato, si consumi in primo grado. Questo assunto contrasta con il principio secondo cui il giudice d’appello, in forza dell’effetto devolutivo dell’impugnazione, ha rilevanti poteri di cognizione e di decisione e, quindi, ha il potere di porsi ogni questione non preclusa che ritenga rilevante ai fini del decidere. Da tale principio e dall’assenza, nella legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), di un termine decadenziale per la proposizione dei conflitti interorganici consegue che anche il giudice d’appello è competente a esprimere in via definitiva la volontà del potere cui appartiene (v., in generale, sulla legittimazione dei singoli organi giurisdizionali a sollevare conflitto, tra le molte, le sentenze n. 129 del 1981 e n. 231 del 1975 e le ordinanze n. 228 e n. 229 del 1975) ed è legittimato a proporre un conflitto non sollevato dal giudice di primo grado.

Né, a sostegno dell’eccezione, la Camera può addurre l’argomento secondo cui nel nostro ordinamento costituzionale sussisterebbe il principio «di “favorire al massimo”, attraverso la cooperazione tra gli organi interessati al conflitto, la composizione extragiudiziaria delle relative controversie; con la conseguenza che ove la situazione di conflittualità sia “oramai palesata”, sorge la necessità che il contrasto si concluda entro limiti temporali certi», così che non sarebbe «pensabile che la facoltà di reazione nei confronti dell’atto parlamentare da parte degli organi giudiziari possa tranquillamente protrarsi per tutti i gradi di giudizio».

È sufficiente al riguardo rilevare, da una parte, che la già evidenziata mancata previsione, nella legge  n. 87 del 1953, di un termine di decadenza per la proposizione dinanzi a questa Corte dei conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato è giustificata dalla natura “precipuamente politico-costituzionale della controversia da risolvere” (così la sentenza n. 116 del 2003) e, dall’altra, che anteriormente all’instaurazione del giudizio dinanzi alla Corte i tempi processuali sono solo quelli scanditi dalle regole proprie del processo nel quale il conflitto insorge.

2.2. – In secondo luogo, la Camera eccepisce che la Corte d’appello ricorrente ha omesso di chiarire se sia stata sospesa l’efficacia della sentenza di primo grado. Ciò avrebbe rilievo perché, «ove l’efficacia della predetta sentenza fosse tuttora perdurante, in punto di accertamento della esimente di cui all’art. 68, primo comma, Cost., ne risulterebbe preclusa la configurabilità di un interesse attuale e concreto alla elevazione del conflitto».

Anche tale eccezione è infondata, perché l’eventuale efficacia esecutiva interinale della sentenza appellata non incide sul giudizio di impugnazione (v. articoli 282, 283, 337, 351 cod. proc. civ.) e, di conseguenza, non preclude l’esame della controversia da parte del giudice d’appello.

2.3. – La Camera eccepisce, infine, l’immediata applicabilità della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), entrata in vigore in pendenza di giudizio e costituente, secondo la Camera, «normativa di attuazione di disposizioni di rango costituzionale». L’art. 3, comma 1, di tale legge introdurrebbe «nuovi fattori di valutazione in ordine alla estensione della garanzia dell’insindacabilità», con conseguente necessità della restituzione degli atti al giudice ricorrente per una rivalutazione della perdurante sussistenza dei presupposti per l’elevazione del conflitto.

L’eccezione è infondata.

Questa Corte ha già chiarito che la sopravvenienza, nelle more del giudizio, del citato art. 3, comma 1, non comporta la necessità di una rivalutazione da parte del giudice ricorrente della effettiva sussistenza dei presupposti per l’elevazione del conflitto, perché la norma sopravvenuta, nonostante la più ampia formulazione lessicale, non innova rispetto all’art. 68, primo comma, della Costituzione, ma si limita a rendere esplicito il contenuto di tale disposizione (sentenze nn. 120 e 246 del 2004; ordinanza n. 136 del 2005).

3. – Nel merito il ricorso è fondato.

Va qui ribadita la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, per l’esistenza di un nesso funzionale tra le dichiarazioni rese extra moenia da un parlamentare e l’espletamento delle sue funzioni di membro del Parlamento, è necessario che tali dichiarazioni possano essere identificate come espressione dell’esercizio di attività parlamentari (v., ex plurimis, sentenze numeri 164 e 28 del 2005, 298 e 120 del 2004, 521 e 79 del 2002, 321 del 2000). Indipendentemente dall’eventuale contenuto diffamatorio di tali dichiarazioni, il còmpito di questa Corte è limitato alla verifica se esse, ancorché rese al di fuori della sede istituzionale, siano collegate ad attività proprie del parlamentare; costituiscano cioè espressione della sua funzione o ne rappresentino il momento di divulgazione all’esterno (v., ex plurimis, sentenza n. 508 del 2002).

Nel caso in esame, neppure nella delibera di insindacabilità e nella proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere è possibile rinvenire un riferimento ad atti tipici del parlamentare. In particolare, la proposta della Giunta, a cui rinvia la delibera di insindacabilità, contiene solo un generico richiamo al collegamento fra le dichiarazioni dell’on. Maroni e una non meglio precisata «vicenda di forte attualità politica» che lo aveva visto coinvolto nella sua precedente qualità di Ministro dell’interno. La difesa della Camera, senza citare né produrre alcun atto dell’on. Maroni, si è limitata a sostenere che le dichiarazioni oggetto del giudizio civile «vanno ricondotte […] ad un contesto che […] aveva riguardato il Napoli un ex agente del SISDE il cui nome era venuto alla ribalta della cronaca con riferimento alla cosiddetta inchiesta segreta sull’attuale senatore Antonio Di Pietro e al cosiddetto dossier Achille».

In proposito, la Camera ha menzionato e prodotto solo i seguenti documenti: a) l’interpellanza n. 2/00281 in data 5 novembre 1996, presentatore on. Veltri; b) i resoconti del Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato del 25 maggio 1995, del 15 gennaio 1997, del 21 gennaio 1997; c) l’interrogazione n. 4/08298 del 28 febbraio 1996, presentatore sen. Boso; d) l’interrogazione n. 4/15890 del 1° luglio 1993, presentatore on. Dosi; e) l’interpellanza n. 2/01182 del 3 dicembre 1993, presentatore on. Tassi; f) l’interpellanza n. 2/01232 del 13 gennaio 1994, presentatore on. Tassi; g) l’interrogazione n. 3/00911 del 3 novembre 1993, presentatore sen. Brutti; h) l’interrogazione n. 3/01571 del 2 novembre 1993, presentatore on. Crippa; i) l’interpellanza n. 2/00116 del 14 luglio 1994, presentatore on. Dorigo.

Tuttavia, di tali atti, due non sono ascrivibili alla Camera dei deputati (doc. c, g); gli altri non hanno alcuna connessione con le dichiarazioni oggetto del giudizio civile, in quanto: non sono atti imputabili o indirizzati all’on. Maroni, neanche nella sua funzione di Ministro dell’interno; non contengono qualsivoglia apprezzamento critico a proposito del Napoli. Alcuni di essi (doc. a, d, e, f, h, i), tutt’al più, fanno generico riferimento al SISDE o a supposti illeciti commessi da suoi funzionari, fra i quali il Napoli non è menzionato.

Dai resoconti sub b), risulta poi che il Napoli aveva partecipato ad audizioni di fronte al Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato, su diversi aspetti dell’attività, dell’organizzazione e della gestione del SISDE e che, nel corso delle audizioni, c’erano stati interventi di componenti del Comitato stesso, tra cui alcuni appartenenti allo stesso partito dell’on. Maroni. Ad avviso della Camera, il fatto che l’on. Maroni non abbia direttamente partecipato alle attività del Comitato non escluderebbe la sussistenza di un collegamento tra le dichiarazioni oggetto del giudizio civile e l’attività parlamentare, perché le funzioni parlamentari dovrebbero essere considerate unitariamente e non con esclusivo riferimento all’attività di singoli componenti. La difesa della Camera prospetta cioè, in sostanza, la questione se un deputato possa giovarsi, ai fini della insindacabilità di sue dichiarazioni, dell’attività posta in essere da altri parlamentari. In ogni caso, la questione è del tutto irrilevante in questa sede, giacché i resoconti relativi a tali audizioni non riportano il contenuto degli interventi dei componenti del Comitato e, di conseguenza, non consentono di accertare se siano state rese dichiarazioni corrispondenti a quelle oggetto del giudizio risarcitorio (v. sentenze nn. 193 e 28 del 2005). Detti atti non sono pertanto idonei a giustificare l’insindacabilità.

4. – Deve quindi concludersi che la Camera dei deputati, nel deliberare l’insindacabilità delle dichiarazioni di cui si tratta, ha violato l’art. 68, primo comma, della Costituzione e ha leso in tal modo le attribuzioni dell’autorità giudiziaria ricorrente.

La delibera di insindacabilità deve essere, pertanto, annullata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara che non spetta alla Camera dei deputati deliberare che i fatti per i quali è in corso il procedimento civile promosso da Roberto Napoli nei confronti del deputato Roberto Maroni, di cui al ricorso in epigrafe, riguardano opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni parlamentari ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione;

annulla, per l’effetto, la deliberazione di insindacabilità adottata dalla Camera dei deputati nella seduta del 29 settembre 1998 (doc. IV-quater, n. 36).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8  giugno 2005.

Piero Alberto CAPOTOSTI, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Depositata in Cancelleria il 16 giugno 2005.