Sentenza n. 155 del 2002

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SENTENZA N. 155

ANNO 2002

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare RUPERTO, Presidente

- Massimo VARI

- Riccardo CHIEPPA

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

- Francesco AMIRANTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2, 3, 4, 5 e 7 della legge 22 febbraio 2000, n. 28 (Disposizioni per la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie e per la comunicazione politica), promosso con ordinanza emessa il 20 dicembre 2000 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio sui ricorsi riuniti proposti dalla Federazione Radio Televisione ed altri contro l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ed altri, iscritta al n. 235 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2001.

Visti gli atti di costituzione della Federazione Radio Televisione ed altri, della R.T.S. Radio Televisione Senese s.r.l. ed altre, del Coordinamento AER-ANTI-CORALLO ed altra nonchè l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 29 gennaio 2002 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti;

uditi gli avvocati Claudio Chiola per la Federazione Radio Televisione ed altri, Felice Vaccaro per la R.T.S. Radio Televisione Senese s.r.l. ed altre, Eugenio Porta per il Coordinamento AER-ANTI-CORALLO ed altra e l’Avvocato dello Stato Gian Paolo Polizzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza del 20 dicembre 2000 - nel corso di un giudizio promosso dalla Federazione Radio Televisione e da alcune emittenti radiotelevisive avente ad oggetto l'annullamento della deliberazione n. 29 del 1° marzo 2000 in tema di "Disposizioni di attuazione della disciplina in materia di comunicazione politica e di parità di accesso ai mezzi di informazione relative alla campagna per le elezioni regionali, provinciali e comunali fissate per il giorno 16 aprile 2000" e della successiva deliberazione n. 200 del 22 giugno 2000 in tema di "Disposizioni di attuazione della disciplina in materia di comunicazione politica e di parità di accesso ai mezzi di informazione nei periodi non elettorali" adottate dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni in attuazione della legge 22 febbraio 2000, n. 28 - il Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2, 3, 4, 5 e 7 della legge 22 febbraio 2000, n. 28 (Disposizioni per la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie e per la comunicazione politica) per contrasto con gli artt. 3, 21 e 42 della Costituzione.

2. Il giudice rimettente premette che le deliberazioni impugnate costituiscono mera attuazione, e per alcuni aspetti mera riproduzione, delle norme della legge n. 28 del 2000 sicchè la questione é rilevante.

3. Nel merito, il Tar ritiene che la disciplina della "comunicazione politica" radiotelevisiva - come delineata agli artt. 2 e 4 della legge n. 28 del 2000 - non fisserebbe "limiti" all'esercizio di specifiche attività, ma renderebbe il mezzo radiotelevisivo funzionale all'interesse per il quale é stato posto il limite, e ciò in contrasto con il riconoscimento della libertà dei mezzi di diffusione garantita dall'art. 21 della Costituzione. Inoltre, le disposizioni impugnate non terrebbero conto che l'emittente privata, in quanto "impresa di opinione", sarebbe titolare di un'autonoma posizione soggettiva tutelata dall'art.21 della Costituzione, e, nonostante abbia la "paternità" del programma trasmesso, la esproprierebbero del diritto di "manifestare una propria identità politica".

Secondo il giudice rimettente, sottrarre ad imprese di opinione la libertà di cronaca politica e la relativa capacità di valutazione avrebbe il significato di vanificare l'importanza di quel regime pluralistico c.d. "esterno" dell'informazione radiotelevisiva, esplicazione del più generale principio del pluralismo al quale la Corte costituzionale, con la sentenza n. 826 del 1988, ha riconosciuto valore centrale in un ordinamento democratico. Così come privare le singole emittenti della libertà di esprimere le proprie opinioni politiche, da un lato, svuoterebbe di contenuti la liberalizzazione del settore radiotelevisivo e, dall'altro, realizzerebbe un livellamento "funzionale" di tutte le emittenti radiotelevisive, sia della RAI - che non é pubblica ma svolge servizio pubblico - che di quelle private, rendendo in tal modo irragionevole l'esistenza stessa di un regime radiotelevisivo misto pubblico-privato.

3.1. L'art.7 della legge n. 28 del 2000, ad avviso del Tar, violerebbe invece l'art. 3 della Costituzione, in quanto, diversamente da quanto previsto per la stampa periodica, stabilisce limitazioni alla propaganda elettorale per le imprese del settore radiotelevisivo realizzando un'ingiustificata disparità di trattamento, in violazione del canone di eguaglianza.

3.2. Un’ultima censura di costituzionalità riguarda infine la disposizione in tema di "messaggi politici autogestiti". L'art. 4, comma 3, lettera b) stabilisce che, durante la campagna elettorale, i messaggi in questione - consistenti nell'esposizione di un programma o di un’opinione politica per un tempo tra uno e tre minuti - devono essere trasmessi "gratuitamente" dalle emittenti nazionali, mentre per le emittenti locali, a norma del successivo quinto comma dello stesso art. 4, é previsto un rimborso da parte dello Stato. Pertanto ad avviso del rimettente, tale disciplina arrecherebbe un arbitrario svantaggio alle emittenti nazionali, privo di ogni plausibile fondamento giuridico, e risulterebbe immotivatamente in contrasto con l'art. 42 della Costituzione perchè imporrebbe atti ablatori della proprietà privata senza la corresponsione di un indennizzo.

4. Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, é intervenuto nel giudizio, chiedendo che le questioni siano dichiarate infondate.

In via preliminare, rileva la genericità della denuncia di incostituzionalità, in quanto il rimettente non avrebbe individuato le specifiche norme della legge censurata contrastanti con le disposizioni costituzionali assunte a parametro.

Nel merito, deduce che la ricostruzione interpretativa effettuata dal giudice a quo non sarebbe conforme alla realtà normativa espressa negli artt. 2 e 4 della legge n. 28 del 2000, i quali si limiterebbero ad assicurare parità di condizioni nell'esposizione di opinioni e posizioni politiche nei programmi di comunicazione politica. Quest'ultima tipologia di programmi sarebbe, a norma del comma 2 dell'art. 2, distinta dai programmi di "informazione", ai quali non si applicherebbero le regole in tale disposizione contenute. Per tale ragione, all'emittente privata non sarebbe affatto negata la possibilità di manifestare la propria identità politica.

Infondato sarebbe, altresì, il dubbio di legittimità derivante dal raffronto con la disciplina prevista per la stampa. Al riguardo, la giurisprudenza costituzionale avrebbe riconosciuto la specificità dell'informazione radiotelevisiva dalla quale discende l'inapplicabilità dello stesso regime stabilito per le altre tipologie di comunicazione.

Infine, la difesa erariale deduce la manifesta infondatezza della censura di disparità di trattamento tra emittenti nazionali e locali con riferimento al regime del rimborso per i messaggi politici autogestiti, in quanto la legge avrebbe tenuto conto della diversa consistenza economica delle grandi emittenti nazionali rispetto alle locali e questo giustificherebbe il diverso regime.

4.1. Nella memoria depositata in prossimità dell'udienza pubblica, la difesa erariale ribadisce la genericità delle censure.

Inoltre, secondo l'interveniente, la funzione dei programmi di informazione non sarebbe privata del suo significato a causa dell'introduzione di "distinti" momenti di comunicazione politica, in quanto, mentre l'informazione costituisce espressione della libertà di opinione e quindi caratterizzerebbe la posizione dell'impresa radiotelevisiva, l'accesso paritario in trasmissioni televisive, quali le tribune politiche, non connoterebbe la posizione politica dell'emittente.

La difesa erariale richiama, infine, la sentenza n. 161 del 1995, per sostenere che la libertà tutelata dall'art.21 della Costituzione renderebbe necessario assicurare la pluralità di fonti, il libero accesso alle stesse e l'assenza di ingiustificati ostacoli legali, che sarebbero appunto garantiti dall'obbligo di consentire la parità di accesso.

5. Si sono costituite in giudizio le parti ricorrenti del giudizio principale chiedendo l'accoglimento delle questioni di costituzionalità sollevate e facendo proprie le argomentazioni del Tribunale.

In particolare, secondo le parti private, le disposizioni censurate realizzerebbero un assoluto livellamento "funzionale" di tutte le emittenti radiotelevisive, sia di quella che svolge il servizio pubblico che di quelle private, rendendo in tal modo irragionevole l'esistenza stessa di un regime radiotelevisivo "misto" pubblico-privato. Questo livellamento manifesterebbe profili di illegittimità nel periodo non elettorale, durante il quale non sarebbe giustificato dall'esigenza di tutelare il libero e consapevole formarsi della volontà degli elettori. In tale contesto, si osserva, appare evidente l'irragionevole discriminazione tra il regime imposto alle imprese emittenti e, quello, totalmente libero, assicurato alle imprese editoriali.

Il confronto tra così differenti discipline, rispettivamente per la stampa e per la radiodiffusione, si caratterizzerebbe per i suoi effetti pesantemente discriminatori del regime imposto all'emittenza privata, a fronte dell'assenza di ogni benchè minimo vincolo per la stampa.

5.1. Nelle memorie difensive, depositate in prossimità dell'udienza pubblica, le parti private ribadiscono che le prescrizioni imposte ad una "impresa di opinione" sarebbero incompatibili con la libertà di espressione sancita dall'art. 21 della Costituzione e con gli indirizzi oramai uniformi della giurisprudenza costituzionale sulla netta distinzione tra pluralismo "esterno" riguardante le emittenti private e pluralismo "interno" che interessa il servizio pubblico. Inoltre, si pone l'accento sulla mancanza di precise modalità relative alla partecipazione di soggetti politici ai programmi di informazione; programmi che l'ultima proposizione del comma 2 dell'art. 2 della legge n. 28 del 2000 esclude dal novero di quelli che sono soggetti alla disciplina de qua.

Si sottolinea, ancora, la disparità di trattamento che la legge n. 28 del 2000 determinerebbe tra l'emittenza radiotelevisiva e la stampa periodica. Quest'ultima sarebbe soggetta ad un disciplina fondata sulla libera concorrenza nel mercato tra le diverse imprese editoriali, mentre le emittenti radiotelevisive private sarebbero sottoposte ad una rigida regolamentazione.

6. All'udienza pubblica, l'Avvocatura dello Stato e le parti private hanno insistito per l'accoglimento delle conclusioni rassegnate nelle difese scritte.

Considerato in diritto

1. Le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con l'ordinanza indicata in epigrafe, riguardano gli artt. 1, 2, 3, 4, 5 e 7 della legge 22 febbraio 2000, n. 28 (Disposizioni per la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie e per la comunicazione politica), in riferimento agli artt. 3, 21 e 42 della Costituzione.

Il giudice a quo dubita in particolare della legittimità costituzionale degli artt. 1, 2, 3 e 5 della predetta legge nelle parti in cui, imponendo alle emittenti radiotelevisive di assicurare la "parità" tra le varie forze politiche nei programmi di "comunicazione politica" durante le campagne elettorali e nei periodi non elettorali, impedirebbero alle emittenti stesse, in violazione degli artt. 3 e 21 della Costituzione, di qualificarsi attraverso l'affermazione di propri orientamenti, "espropriando" così il loro diritto a manifestare una propria identità politica.

Inoltre l'art. 7 della stessa legge si porrebbe in contrasto, secondo il giudice a quo, con l'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo che stabilendo limitazioni alla propaganda elettorale, le quali invece non sono previste per la stampa periodica, introdurrebbe un'irragionevole discriminazione in danno delle imprese radiotelevisive.

Infine, il Tar censura l'art. 4, commi 3 lettera b) e 5, della medesima legge nella parte in cui, prevedendo che durante la campagna elettorale i messaggi politici autogestiti debbono essere trasmessi gratuitamente dalle emittenti nazionali, mentre alle emittenti locali é riconosciuto un rimborso da parte dello Stato, violerebbe l'art. 42 della Costituzione.

2. Le questioni prospettate non sono fondate.

Il nucleo argomentativo dell'ordinanza di rimessione é che la disciplina della comunicazione politica radiotelevisiva, delineata dagli artt. 2 e 4 della legge 22 febbraio 2000, n. 28, implica la "piena funzionalizzazione" del mezzo radiotelevisivo, dal momento che all'emittente privata é negata, in ragione della necessaria parità tra le varie forze politiche, la possibilità di manifestare una propria identità politica, in contrasto con il riconoscimento della libertà dei mezzi di diffusione garantita dall'art. 21 della Costituzione.

Tale ordine argomentativo non appare però condivisibile. In proposito va innanzi tutto rilevato che l'art. 1 della legge 6 agosto 1990, n. 223 (Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato), ispirandosi peraltro alla precedente legge 14 aprile 1975, n. 103 (Nuove norme in materia di diffusione radiofonica e televisiva), dopo aver ribadito che "la diffusione di programmi radiofonici e televisivi, realizzata con qualsiasi mezzo tecnico, ha carattere di preminente interesse generale", espressamente dispone che il pluralismo, l'obiettività, la completezza e l'imparzialità della informazione, l'apertura alle diverse opinioni, tendenze politiche, sociali, culturali e religiose "rappresentano i principi fondamentali del sistema radiotelevisivo, che si realizza con il concorso di soggetti pubblici e privati". Principi alla cui osservanza sono dunque tenuti, alla luce delle pronunce di questa Corte, anche gli imprenditori privati, che operano nel settore, proprio in quanto "soggetti in grado di concorrere insieme al servizio pubblico nella realizzazione dei valori costituzionali posti a presidio dell'informazione radiotelevisiva (v. artt. 1 e 2 della legge n. 223 del 1990)" (sentenza n. 112 del 1993).

Fin dalle prime decisioni di questa Corte emerge che é giustificato l'intervento del legislatore diretto a regolare, durante la campagna elettorale, la concomitante e più intensa partecipazione di partiti e cittadini alla propaganda politica (cfr. sentenza n. 48 del 1964). E nella successiva giurisprudenza costituzionale si é ripetutamente affermato che, fermo restando che i mezzi di informazione di massa sono tenuti alla parità di trattamento nei confronti dei soggetti politici (sentenza n. 161 del 1995), i principi fondanti del nostro Stato "esigono che la nostra democrazia sia basata su una libera opinione pubblica e sia in grado di svilupparsi attraverso la pari concorrenza di tutti alla formazione della volontà generale" (sentenza n. 112 del 1993). Proprio da qui deriva "l'imperativo costituzionale" che "il diritto all'informazione", garantito dall'art. 21 della Costituzione, venga qualificato e caratterizzato, tra l'altro, sia dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie -così da porre il cittadino in condizione di compiere le proprie valutazioni avendo presenti punti di vista e orientamenti culturali e politici differenti- sia dall'obiettività e dall'imparzialità dei dati forniti, sia infine dalla completezza, dalla correttezza e dalla continuità dell'attività di informazione erogata (sentenza n. 112 del 1993).

Il diritto alla completa ed obiettiva informazione del cittadino appare dunque, alla luce delle ricordate pronunce, tutelato in via prioritaria soprattutto in riferimento a valori costituzionali primari, che non sono tanto quelli -come sostiene la difesa delle parti private- alla "pari visibilità dei partiti", quanto piuttosto quelli connessi al corretto svolgimento del confronto politico su cui in permanenza si fonda, indipendentemente dai periodi di competizione elettorale, il sistema democratico. E' in questa prospettiva di necessaria democraticità del processo continuo di informazione e formazione dell'opinione pubblica, che occorre dunque valutare la congruità del bilanciamento tra principi ed interessi diversi attuato dalla disciplina censurata mediante la previsione di modalità e forme della "comunicazione politica". Attraverso di esse infatti, proprio al fine specifico di consentire -in ogni tempo e non solo nei periodi elettorali- la più ampia informazione del cittadino per formare la sua consapevolezza politica, si esplica la libertà di espressione delle singole emittenti private.

Ed é in questa stessa prospettiva che deve essere valutato se il c.d. pluralismo "esterno" dell'emittenza privata sia sufficiente a garantire, in ogni caso, la completezza e l'obiettività della comunicazione politica, o se invece debbano concorrere ulteriori misure sostanzialmente ispirate al principio della parità di accesso delle forze politiche e dei rispettivi candidati, tenendo presente che nei principali Paesi europei la disciplina della comunicazione politica, in questi ultimi anni, si é orientata, pur nell'inevitabile diversità dei criteri ispiratori, su modelli di regolazione degli spazi radiotelevisivi caratterizzati in generale dalla regola della parità di chances.

2.1. In questo quadro, il primo dubbio di costituzionalità che l'ordinanza di rimessione solleva riguarda l'obbligo imposto dall'art. 2, comma 2, della legge censurata alle singole emittenti di predisporre appositi programmi di "opinioni e valutazioni politiche", da organizzare in forma particolare, e nei quali deve essere appunto assicurata la parità di accesso tra i diversi soggetti partecipanti.

A questo proposito va tenuto presente che l'attuale sistema radiotelevisivo misto pubblico-privato é governato dal cosiddetto "principio della concessione" (sentenza n. 112 del 1993), dal quale derivano, tra l'altro, obblighi incidenti sull'esercizio dell'attività radiotelevisiva, come quelli, ad esempio, che impongono alle emittenti private in ambito locale di dedicare un certo numero di ore settimanali all'informazione su problematiche sociali (art. 5 della legge 27 agosto 1993, n. 323), oppure quelli che impongono alle emittenti private nazionali di trasmettere quotidianamente i telegiornali e di mandare in onda programmi per non meno di dodici ore giornaliere (art. 20 della legge n. 223 del 1990). Si tratta di obblighi di facere, che gravano sugli imprenditori privati del settore, in quanto la concessione, per ciò che riguarda gli aspetti relativi ai controlli sull'attività erogata e sull'organizzazione dell'impresa, "costituisce uno strumento di ordinazione nei confronti di facoltà e di doveri connessi alla garanzia costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero e della libertà di iniziativa economica privata, nonchè ai correlativi limiti posti a tutela di beni d'interesse generale" (sentenza n. 112 del 1993).

In questa ottica, quindi, l'effettuazione di quelli che il giudice a quo definisce <<programmi politici "paritari">> si concretizza essenzialmente in un'attività che deve rispettare precisi limiti "modali", cioé inerenti alle modalità di svolgimento di queste trasmissioni; limiti i quali attengono specificamente ai profili organizzativo-imprenditoriali dell'iniziativa economica, anzichè a quelli contenutistici dell'attività di manifestazione del pensiero. Ed invero, le norme censurate prevedono l'obbligo di predisporre nel quadro della programmazione -in attuazione del dovere di assicurare, in condizioni di parità, a tutti i soggetti politici l'"accesso" all'informazione ed alla comunicazione politica- specifiche e assai limitate nel tempo tipologie di trasmissioni ("tribune politiche, dibattiti, tavole rotonde, presentazione in contraddittorio di candidati e di programmi politici, confronti, interviste e ogni altra forma nella quale assuma carattere rilevante l'esposizione di opinioni e valutazioni politiche"), nel cui ambito deve essere rigorosamente osservato il criterio della partecipazione in contraddittorio e del confronto dialettico tra i soggetti intervenienti, secondo il canone della pari opportunità. Ma é un obbligo che incide su modalità organizzative, che non toccano la libertà di espressione, se non sotto il profilo del dovere di osservanza di un comportamento neutrale ed imparziale.

Si tratta peraltro di doveri che discendono dal prospettato regime di concessione, ordinato appunto alla regolazione di facoltà e doveri a tutela di un interesse costituzionale generale -quale é appunto quello della informazione e formazione consapevole della volontà del cittadino-utente - in favore del quale il legislatore ha risolto non irragionevolmente il bilanciamento con la contrapposta libertà di opinione delle singole emittenti private.

2.2. In ogni caso non é esatto ritenere che in questo modo si pervenga -come sostiene l'ordinanza di rimessione- ad <<espropriare in toto di ogni manifestazione "politica" le emittenti private>>. Ed infatti l'art. 2, comma 2, della legge censurata, stabilendo espressamente che le disposizioni che regolano la comunicazione politica radiotelevisiva "non si applicano alla diffusione di notizie nei programmi di informazione", preclude che in questi programmi, che certamente costituiscono un momento ordinario, anche se tra i più caratterizzanti dell'attività radiotelevisiva, all'emittente possano essere imposti limiti, che derivino da motivi connessi alla comunicazione politica. L'espressione "diffusione di notizie" va pertanto intesa, del resto secondo un dato di comune esperienza, nella sua portata più ampia, comprensiva quindi della possibilità di trasmettere notizie in un contesto narrativo-argomentativo ovviamente risalente alla esclusiva responsabilità della testata.

Tanto é sufficiente, quindi, ad escludere ogni paventata forma di "funzionalizzazione" del mezzo radiotelevisivo o di "espropriazione" della identità politica delle singole emittenti private ed a consentire invece ad ognuna di esse di fare emergere, anche attraverso le proprie analisi e considerazioni di ordine politico, l'immagine propria di un'impresa di tendenza. Vero é, a questo proposito, che durante le campagne elettorali sono previsti, negli artt. 4 e 5, criteri limitativi sia in ordine alla comunicazione politica radiotelevisiva, sia in ordine ai programmi di informazione: si tratta peraltro di prescrizioni, che nella loro rigorosa previsione appaiono tutte ispirate dal ragionevole intento di prevenire in ogni modo qualsiasi influenza, anche "in forma surrettizia", sulle libere e consapevoli scelte degli elettori, in momenti particolarmente delicati della vita democratica del Paese.

In considerazione di tutto ciò, non é condivisibile l'affermazione del giudice a quo, secondo cui "l'esigenza di tutela del processo di formazione della consapevolezza politica dell'elettore" sarebbe soddisfatta più agevolmente, anzichè da una rigida disciplina di settore, dal "libero concorso di differenti voci informative". Questa tesi evidentemente evoca il c.d. pluralismo "esterno", che certamente costituisce uno degli "imperativi" elaborati dalla giurisprudenza costituzionale in materia; in proposito, peraltro, va ricordato che esso non può dirsi realizzato per il solo fatto che vi sia concorso fra un polo pubblico e un polo privato, il quale detenga una posizione dominante nel settore dell’emittenza privata (sentenza n. 826 del 1988), giacchè in questo modo non si verifica l’accesso al sistema radiotelevisivo del "massimo numero possibile di voci diverse" (sentenza n. 112 del 1993). Ma in ogni caso il pluralismo esterno può risultare insufficiente –in una situazione in cui perdura la sostanziale limitazione delle emittenti- a garantire la possibilità di espressione delle opinioni politiche attraverso il mezzo televisivo. Proprio a questo fine le norme censurate, imponendo un ragionevole bilanciamento dei contrapposti interessi, richiedono, nel caso di trasmissioni di comunicazione politica, modalità che assicurino il pluralismo sostanziale mediante la garanzia della parità di chances offerta ai soggetti intervenienti.

3. Un'ulteriore censura riguarda l'art. 7 della stessa legge, sotto il profilo della disparità di trattamento in danno del settore radiotelevisivo, poichè per la stampa periodica non sono previste limitazioni così incisive in ordine alla propaganda elettorale.

La prospettata violazione dell'art. 3 della Costituzione però non sussiste, in quanto emittenza radiotelevisiva e stampa periodica hanno regimi giuridici nettamente diversi -così da impedire l'individuazione di un tertium comparationis adeguato- in relazione alle loro differenti caratteristiche: "nel settore della stampa non c'é alcuna barriera all'accesso, mentre nel settore televisivo la non illimitatezza delle frequenze, insieme alla considerazione della particolare forza penetrativa di tale specifico strumento di comunicazione impone il ricorso al regime concessorio" (sentenza n. 420 del 1994). In ogni caso la disomogeneità dei mezzi in comparazione é tale da escludere qualsiasi disparità di trattamento, poichè é noto e costante, nella giurisprudenza di questa Corte, il riconoscimento della peculiare diffusività e pervasività del messaggio televisivo (sentenze n. 225 del 1974, n. 148 del 1981, n. 826 del 1988), così da giustificare l'adozione, soltanto nei confronti della emittenza radiotelevisiva, di una rigorosa disciplina capace di impedire qualsiasi improprio condizionamento nella formazione della volontà degli elettori.

4. L'ultima censura, infine, riguarda il diverso regime cui sono soggetti i "messaggi politici autogestiti", la cui trasmissione durante le campagne elettorali, mentre per le emittenti locali prevede un rimborso da parte dello Stato (cfr. art. 4, comma 5, della legge n. 28 del 2000), deve invece essere gratuita per le emittenti nazionali (cfr. art. 4, comma 3, lettera b della medesima legge), in violazione, secondo l'ordinanza di rimessione, dell'art. 42 della Costituzione, sotto il profilo che "gli atti ablatori della proprietà privata postulino la corresponsione di un indennizzo, il quale non potrebbe non interessare anche l'ipotesi dell'esproprio di spazi radiotelevisivi privati".

Al riguardo va osservato che é del tutto inesatto, in questo caso, il riferimento all'"esproprio" di spazi radiotelevisivi privati, giacchè per le emittenti nazionali, esclusa la concessionaria del pubblico servizio, la trasmissione dei predetti messaggi non rappresenta certo un obbligo, ma solo una scelta evidentemente dipendente da complessive valutazioni di carattere imprenditoriale intorno all'offerta dei programmi. D'altra parte, stante la rilevante differenza di ordine fattuale e giuridico tra emittenti ad ambito nazionale ed emittenti ad ambito locale ed in considerazione della limitatezza delle risorse finanziarie disponibili per queste ultime, appare del tutto giustificata la previsione di un rimborso da parte dello Stato delle loro spese per la trasmissione di messaggi autogestiti.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2, 3, 4, 5 e 7 della legge 22 febbraio 2000, n. 28 (Disposizioni per la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie e per la comunicazione politica), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 21 e 42 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 aprile 2002.

Cesare RUPERTO, Presidente

Piero Alberto CAPOTOSTI, Redattore

Depositata in Cancelleria il 7 maggio 2002.