SENTENZA N. 525
composta dai signori Giudici:
- Cesare
MIRABELLI, Presidente
- Fernando
SANTOSUOSSO
- Massimo
VARI
- Cesare
RUPERTO
- Riccardo
CHIEPPA
- Gustavo
ZAGREBELSKY
- Valerio
ONIDA
- Carlo
MEZZANOTTE
- Fernanda
CONTRI
- Guido
NEPPI MODONA
- Piero
Alberto CAPOTOSTI
- Annibale
MARINI
- Franco
BILE
- Giovanni
Maria FLICK
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio
di legittimità costituzionalità dell'art. 21, comma 1, della legge 13 maggio
1999, n. 133 (Disposizioni in materia di perequazione, razionalizzazione e
federalismo fiscale), promosso con ordinanza emessa il 4 novembre 1999 dalla
Corte di cassazione sul ricorso proposto dal Ministero delle finanze contro Perassi Sebastiano, iscritta al n. 76 del registro
ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell'anno 2000.
Visto l'atto di intervento del Presidente
del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell'11
ottobre 2000 il Giudice relatore Fernando Santosuosso.
Ritenuto in fatto
1.— Nell’ambito di un
giudizio promosso dall’Amministrazione finanziaria contro una sentenza della Commissione
tributaria regionale per il Piemonte, la Sezione tributaria della Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell’art. 21, comma 1, della legge 13 maggio 1999, n. 133
(Disposizioni in materia di perequazione, razionalizzazione e federalismo
fiscale), nella parte in cui stabilisce l’interpretazione autentica dell’art.
38, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo
tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della
legge 30 dicembre 1991, n. 413), in riferimento agli artt. 3, primo comma, e
24, secondo comma, della Costituzione.
La norma impugnata
stabilisce che “l’art. 38, comma 2, del d.lgs. 31
dicembre 1992, n. 546 si interpreta nel senso che le sentenze pronunciate dalle
commissioni tributarie regionali e dalle commissioni tributarie di secondo
grado delle Provincie autonome di Trento e di Bolzano, ai fini del decorso del
termine di cui all’art. 325, secondo comma, del codice di procedura civile,
vanno notificate all’Amministrazione finanziaria presso l’ufficio
dell’Avvocatura dello Stato competente ai sensi dell’art. 11, secondo comma,
del T.U. approvato con regio decreto 30 ottobre 1933, n.
Nel caso di specie un
contribuente aveva notificato la sentenza (a lui favorevole) emessa dalla
Commissione tributaria regionale per il Piemonte direttamente all’ufficio delle
imposte dirette di Rivoli (che era stato in giudizio senza patrocinio
dell’Avvocatura dello Stato), mediante consegna del plico nelle mani di una
dipendente incaricata della ricezione degli atti.
L’Amministrazione
finanziaria – che ha promosso il ricorso per cassazione oltre il termine breve di impugnazione (60 giorni) previsto dall’art. 51, primo
comma, del d.lgs. n. 546 del 1992 ma entro il termine lungo di un anno –
afferma che detta notificazione non è stata effettuata ritualmente poiché
doveva essere fatta, a pena di nullità, presso l’ufficio dell’Avvocatura dello
Stato di Torino, ai sensi del r.d. n. 1611 del 1933.
La Corte
di cassazione sostiene che la propria giurisprudenza è ormai ferma da
tempo nell’affermare che, nei giudizi di opposizione ad ordinanza–ingiunzione
ai sensi dell’art. 22 della legge 24 novembre 1981, n. 689, la notifica degli
atti giudiziari va operata presso l’ufficio della pubblica amministrazione che
ha emesso l’ordinanza – a meno che esso abbia affidato la propria
rappresentanza in giudizio all’Avvocatura dello Stato – in quanto l’art. 23 di
tale legge riconosce a tutte le autorità amministrative la capacità di stare in
giudizio personalmente.
Secondo il giudice a quo, la situazione che si determina
nel processo tributario in base al d.lgs. n. 546 del 1992 sarebbe identica,
essendo espressamente attribuita la qualità di parte all’ufficio del Ministero delle finanze che ha emanato l’atto impugnato (art. 10), in
deroga al principio che la rappresentanza processuale delle amministrazioni
statali spetta all’organo di vertice. Ed è pure previsto che detto ufficio stia
in giudizio “direttamente” dinanzi alle commissioni tributarie (art. 11, comma
2), pur avendo la facoltà, in secondo grado, di farsi assistere dall’Avvocatura
dello Stato (art. 12, comma 4).
Sulla base
di quanto sopra, la Cassazione afferma che – dopo una prima
pronuncia che aveva ritenuto la necessità della notifica presso l’Avvocatura
generale dello Stato (sentenza n. 6034 del 1998) – il proprio orientamento si è
progressivamente consolidato nel senso opposto, di notifica all’ufficio
finanziario che ha emesso l’atto impugnato, salvo che questo si sia fatto assistere
dall’Avvocatura dello Stato (sentenze n. 9846 del 1998, n. 10420 del 1998, n.
10752 del 1998 e n. 4276 del 1999).
In materia è però
sopravvenuto l’art. 21, comma 1, della legge n. 133
del 1999, il quale sancisce l’obbligo di interpretare il predetto art. 38 del
d.lgs. n. 546 nel senso (diverso sia da quello consolidatosi nella
giurisprudenza di legittimità, sia da quello comunque fatto proprio
inizialmente dalla Cassazione) che la notifica va effettuata presso
l’Avvocatura distrettuale dello Stato e non presso l’Avvocatura generale, né
presso gli uffici finanziari che hanno emesso gli atti impugnati.
La Corte
di cassazione dubita della legittimità costituzionale della norma
interpretativa dettata dall’art. 21 della legge n. 133.
La questione si presenta rilevante,
poiché dalla sua soluzione dipende la possibilità di considerare valida la
notificazione per cui è causa, quindi idonea a determinare la decorrenza del
termine breve per la proposizione per ricorso per
cassazione.
Inoltre la questione non
sarebbe manifestamente infondata, in quanto la norma è
stata emanata quando le incertezze interpretative inizialmente manifestatesi
nella giurisprudenza della Cassazione erano ormai definitivamente superate,
tanto che il Presidente di tale Corte – al quale erano stati trasmessi gli atti
di causa perché valutasse l’opportunità dell’assegnazione di quest’ultima alle
sezioni unite al fine di risolvere il contrasto manifestatosi tra le sentenze
n. 6034/98 e n. 9846/98 – aveva restituito gli atti il 25 febbraio 1999, rilevando
che il contrasto doveva ritenersi ormai composto.
2.— E’ intervenuto in
giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità
costituzionale sia dichiarata infondata.
Secondo l’Avvocatura, considerato che il divieto di retroattività non è stato
elevato a dignità costituzionale se non in materia penale, la norma censurata
troverebbe adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si porrebbe
in contrasto con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti. Tanto
nella giurisprudenza della Cassazione quanto nella dottrina, infatti,
sussisteva a suo giudizio una significativa divergenza
di opinioni in ordine alle modalità di notifica della sentenza tributaria di
appello.
La difesa erariale nega,
infine, che la norma impugnata si ponga in conflitto con i valori
costituzionalmente garantiti della tutela dell’affidamento e della difesa in
giudizio.
Considerato in diritto
1.— La Corte
di cassazione dubita della legittimità costituzionale dell’art. 21,
comma 1, della legge 13 maggio 1999, n. 133 (Disposizioni in materia di
perequazione, razionalizzazione e federalismo fiscale), nella parte in cui
stabilisce l’interpretazione autentica dell’art. 38, comma 2, del d.lgs. 31
dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della
delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413),
in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 24, secondo comma, della
Costituzione.
Secondo il giudice a quo, la norma impugnata non troverebbe
giustificazione, poiché: a) quando è
stata emanata, non vi sarebbe stato più alcun contrasto interpretativo nella
giurisprudenza della Cassazione riguardo alla notifica delle sentenze delle
commissioni tributarie; b) il suo
contenuto precettivo sarebbe innovativo e, comunque, chiaramente estraneo alla
formulazione della norma originaria, imponendo – in
riferimento alla notifica delle sole sentenze emesse in secondo grado (mentre
prima la disciplina doveva ritenersi identica per entrambe le fasi di merito) e
con effetto retroattivo – un’interpretazione diversa sia da quella
consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità, sia da quella comunque fatta
propria inizialmente dalla Cassazione.
Da ciò deriverebbero seri
dubbi sulla ragionevolezza della nuova disciplina e sulla sua compatibilità con
i principi costituzionali della tutela del legittimo affidamento e della
certezza delle situazioni giuridiche.
2.— La questione è fondata
nei limiti di seguito precisati.
La giurisprudenza
costituzionale ha più volte affermato che il legislatore può adottare norme che
precisino il significato di altre disposizioni legislative non solo quando
sussista una situazione di incertezza
nell’applicazione del diritto o vi siano contrasti giurisprudenziali, ma anche
in presenza di un indirizzo omogeneo della Corte di cassazione, quando la
scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo
originario, con ciò vincolando un significato ascrivibile alla norma anteriore
(v., tra le altre, le sentenze n. 311 del
1995 e n.
397 del 1994 e l’ordinanza n. 480 del 1992).
Peraltro, l'effettivo problema da affrontare nella presente fattispecie non è
quello relativo alla natura di tali leggi, ma investe
sostanzialmente i limiti che esse incontrano quanto alla loro portata
retroattiva.
In proposito questa Corte ha
individuato, oltre alla materia penale, altri limiti, che attengono alla salvaguardia di norme costituzionali (v., ex plurimis,
le citate sentenze
n. 311 del 1995 e n. 397 del 1994),
tra i quali i principi generali di ragionevolezza e di uguaglianza, quello
della tutela dell’affidamento legittimamente posto sulla certezza
dell’ordinamento giuridico, e quello del rispetto delle funzioni
costituzionalmente riservate al potere giudiziario (ciò che vieta di
intervenire per annullare gli effetti del giudicato o di incidere
intenzionalmente su concrete fattispecie sub
iudice).
In questa sede occorre in
particolare soffermarsi sull’affidamento del cittadino nella sicurezza
giuridica; principio che, quale elemento essenziale dello Stato di diritto, non
può essere leso da norme con effetti retroattivi che incidano irragionevolmente
su situazioni regolate da leggi precedenti (v. le sentenze n. 416 del
1999 e n. 211
del 1997).
Tale principio deve valere
anche in materia processuale, dove si traduce nell’esigenza che le parti
conoscano il momento in cui sorgono oneri con effetti per loro pregiudizievoli,
nonché nel legittimo affidamento delle parti stesse
nello svolgimento del giudizio secondo le regole vigenti all’epoca del
compimento degli atti processuali (cfr. la sentenza n. 111 del
1998).
3.— Nel caso di specie,
l’art. 38, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 stabilisce
che ciascuna parte ha l’onere di provvedere direttamente alla notifica alle
altre parti delle sentenze delle commissioni tributarie, ai sensi degli artt.
137 e seguenti del codice di procedura civile. Qualora l’Amministrazione
finanziaria sia stata in giudizio senza l'assistenza dell'Avvocatura dello
Stato, ed un privato voglia notificarle una pronuncia
di secondo grado, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha talora
affermato che egli deve effettuarla presso l’Avvocatura generale dello Stato, ma
sempre più frequentemente ha ritenuto che debba indirizzarla direttamente
all’ufficio finanziario che ha emesso l’atto oggetto del giudizio. Mentre più contrastato risulta l’orientamento della dottrina.
La norma impugnata dà una interpretazione del citato art. 38, comma 2, che non era
fra quelle accolte in sede giudiziale ed era nettamente minoritaria anche nella
dottrina: come rileva il giudice a quo,
anche il contribuente più scrupoloso difficilmente avrebbe potuto pensare che
la notifica delle sentenze tributarie di secondo grado, ricorribili per
cassazione, dovesse essere effettuata presso l’Avvocatura distrettuale dello
Stato, ma tutt’al più presso quella generale.
Sono state così rese
inefficaci, ai fini della decorrenza del termine breve di impugnazione,
le notifiche operate sia presso l’Avvocatura generale, sia presso i singoli
uffici finanziari, consentendo all’Amministrazione la possibilità di ricorrere
contro decisioni che, altrimenti, avrebbero dovuto essere ritenute coperte dal
giudicato.
La volontà di chiarire il
senso dell’anzidetto art. 38, comma 2, del d.lgs. n.
546 del 1992 e le eventuali, pur legittime, considerazioni di convenienza del
legislatore non avrebbero, quindi, dovuto portare a dichiarare applicabile
anche per il passato la nuova disciplina delle notifiche delle sentenze
tributarie, poiché in questo modo è stato frustrato l’affidamento dei soggetti
nella possibilità di operare sulla base delle condizioni normative presenti
nell’ordinamento in un dato periodo storico, senza che vi fosse una ragionevole
necessità di sacrificare tale affidamento nel bilanciamento con altri interessi
costituzionali (cfr. la sentenza n. 211 del
1997).
Detta fondamentale esigenza
di garanzia si arresta, peraltro, nel momento in cui la norma interpretativa è
entrata in vigore.
Deve, pertanto, dichiararsi
illegittima, per violazione dell’art. 3 della
Costituzione, la sola parte della norma impugnata che estende anche al passato
l’interpretazione autentica dell’art. 38, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992.
Resta assorbita la censura relativa all’art. 24 della Costituzione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art. 21, comma 1, della legge 13 maggio 1999, n. 133 (Disposizioni in
materia di perequazione, razionalizzazione e federalismo fiscale), nella parte
in cui estende anche al periodo anteriore alla sua entrata in vigore
l’efficacia dell’interpretazione autentica, da essa dettata, dell’art. 38,
comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo
tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della
legge 30 dicembre 1991, n. 413).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 15 novembre 2000.
Cesare MIRABELLI, Presidente
Fernando SANTOSUOSSO, Redattore
Depositata
in cancelleria il 22 novembre 2000.