Sentenza n. 119 del 1995

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SENTENZA N. 119

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-        Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente

-        Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-        Avv. Mauro FERRI

-        Prof. Luigi MENGONI

-        Prof. Enzo CHELI

-        Dott. Renato GRANATA

-        Prof. Giuliano VASSALLI

-        Prof. Francesco GUIZZI

-        Prof. Cesare MIRABELLI

-        Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-        Avv. Massimo VARI

-        Dott. Cesare RUPERTO

-        Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 34, secondo comma, del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), promossi con 5 ordinanze emesse il 16 settembre 1994 dal Consiglio Superiore della Magistratura, Sezione disciplinare, nei procedimenti disciplinari a carico di Giammarino Amalia, iscritti ai nn. 680, 681, 682, 683, 684 del registro ordinanze 1994 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell'anno 1994.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 22 marzo 1995 il Giudice relatore Cesare Ruperto.

Ritenuto in fatto

1. - Nel corso di cinque procedimenti disciplinari a carico dello stesso magistrato, il Consiglio Superiore della Magistratura, Sezione disciplinare, ha sollevato, con cinque identiche ordinanze emesse tutte il 16 settembre 1994, questione di legittimità costituzionale - in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione - dell'art. 34, secondo comma, del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), nella parte in cui non prevede - sempre o in casi determinati - l'obbligatorietà dell'assistenza dell'incolpato.

Premette il giudice a quo che la recente sentenza n. 220 del 1994 di questa Corte non ha direttamente affrontato il problema della legittimità costituzionale dell'autodifesa dell'incolpato, che dunque risulterebbe sostanzialmente nuovo.

Ritiene il remittente che l'effettività del diritto di difesa rischia di risultare lesa nel momento in cui si rimette all'esclusiva discrezionalità dell'incolpato se avvalersi o meno di un difensore.

La scelta nel senso dell'autodifesa precluderebbe infatti la possibilità di nomina di un difensore di ufficio, anche quando l'incolpato non sia in grado di "avere piena consapevolezza della scelta". Oltre alla prospettata violazione dell'art. 24 della Costituzione, la Sezione disciplinare ravvisa nella norma un duplice profilo di lesione dell'art. 3. Da un lato infatti la generale presunzione di adeguatezza dell'autodifesa - espressa dalla norma - non consentirebbe di trattare in modo differenziato situazioni che possono essere tra loro diverse.

Dall'altro lato, poi, risulterebbe vulnerato il principio di parità di trattamento con riguardo all'obbligatorietà della difesa tecnica prevista per il processo penale (a prescindere dalla scelta dell'imputato e dalla sua preparazione personale).

Tale asserita disparità di trattamento parrebbe tanto più irragionevole alla luce dei possibili esiti del procedimento disciplinare (ad es. la rimozione e la destituzione) in confronto alle conseguenze di un processo penale avente, in ipotesi, ad oggetto reati contravvenzionali: posto che in entrambi i casi il bagaglio di conoscenze tecniche del magistrato è, ovviamente, identico.

2. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, che ha concluso per l'infondatezza della questione, richiamando le affermazioni di questa Corte circa la possibilità che il diritto di difesa sia diversamente regolato e adattato alle esigenze dei singoli procedimenti; e sottolineando inoltre la differenza tra le situazioni poste a confronto dal giudice a quo nel richiamare il processo penale come tertium comparationis.

Considerato in diritto

1. - È denunciato l'art. 34, secondo comma, del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), nella parte in cui non prevede - sempre o in casi determinati - l'obbligatorietà dell'assistenza difensiva dell'incolpato nel procedimento disciplinare dinanzi al Consiglio Superiore della Magistratura.

La norma è sospettata d'illegittimità costituzionale in quanto, nel rimettere alla discrezionalità dell'interessato se avvalersi o meno del difensore anche quando egli non sia in grado di avere piena consapevolezza della scelta, comprometterebbe l'effettività del diritto di difesa, garantita dall'art. 24, secondo comma, della Costituzione.

Inoltre risulterebbe leso il principio di eguaglianza, sia perchè la norma non consentirebbe di trattare in modo difforme situazioni tra loro diverse per le caratteristiche soggettive dell'incolpato, sia perchè nel processo penale è invece esclusa l'autodifesa "indipendentemente da qualsiasi valutazione o scelta dell'imputato e dalle sue caratteristiche e preparazione personale".

2. - I giudizi vanno riuniti in considerazione dell'identità del problema sollevato con le cinque ordinanze di rimessione.

3. - La questione è infondata.

Questa Corte ha più volte affermato il principio, secondo cui la garanzia assicurata dall'art. 24 della Costituzione non preclude che la disciplina legislativa del diritto di difesa si conformi alle speciali caratteristiche della struttura dei singoli procedimenti, purchè ne vengano garantiti lo scopo e la funzione, cioè il contraddittorio, in modo che sia escluso ogni ostacolo a far valere le ragioni delle parti (v., ex plurimis, sentenze n. 351 del 1989 e n. 202 del 1975).

Questa Corte ha inoltre in più occasioni rilevato come l'esercizio della funzione disciplinare nell'àmbito del pubblico impiego, della magistratura e delle libere professioni si esprima con modalità diverse, in conseguenza dell'ampia discrezionalità legislativa in materia (v., da ultimo, sentenza n. 71 del 1995). E, pur ravvisando una matrice comune nel procedimento a carico dei dipendenti pubblici e dei magistrati nell'esigenza di assicurare l'interesse pubblico al buon andamento e all'imparzialità delle funzioni statali in bilanciamento con i diritti costituzionalmente rilevanti dei singoli, ha sottolineato come per i magistrati i due termini del bilanciamento assumano una connotazione ulteriore. Da un lato, infatti, l'interesse pubblico in gioco riguarda il corretto svolgimento della funzione giurisdizionale (assistito dalla speciale garanzia di autonomia ed indipendenza ex art. 101, secondo comma, della Costituzione); mentre, dall'altro lato, la tutela del singolo va commisurata alla salvaguardia del dovere di imparzialità e della connessa esigenza di credibilità collegate all'esercizio della funzione giurisdizionale (sentenza n. 289 del 1992). Di talchè "l'intera vicenda disciplinare riflette il proprium dell'ordine giudiziario" (sentenza n. 220 del 1994), e nel suo quadro la possibilità di difendersi personalmente risulta coerente con il principio stesso di autogoverno della Magistratura, atteggiandosi come uno dei tanti modi di esercizio del diritto di difesa, che si adattano alle speciali esigenze del procedimento. La scelta nel senso della possibilità dell'autodifesa (ritenuta adeguata ad assicurare un effettivo contraddittorio) in àmbito disciplinare, si giustifica appunto in considerazione della riconosciuta attitudine di chi è professionalmente investito di funzione giurisdizionale, a far derivare esclusivamente dalla propria valutazione tecnica la linea difensiva circa i comportamenti che gli vengono contestati come illecito disciplinare.

La previsione di una difesa obbligatoriamente affidata ad altri, precludendo all'incolpato la possibilità di predisporre e gestire direttamente la propria difesa, accrediterebbe a priori la tesi secondo cui il coinvolgimento personale nella vicenda disciplinare toglie al magistrato l'idoneità a svolgere una congrua attività difensiva.

Laddove è appunto la descritta compenetrazione tra il bagaglio tecnico riconosciuto dal legislatore come proprio del magistrato, la sua posizione professionale e l'esercizio della giurisdizione, ad escludere in partenza che si possa qualificare la di lui difesa come più o meno "idonea", secondo logiche di mera convenienza processuale affidate ad un controvertibile giudizio della stessa sezione disciplinare.

Quest'ultima deve invece arrestare il proprio intervento sulla soglia dell'esercizio dell'opzione dell'incolpato tra l'avvalersi o il non avvalersi di un difensore; disponendo bensì la nomina d'ufficio in caso di scelta infruttuosa (v. sentenza n. 220 del 1994), ma astenendosi da ogni sindacato sulle attitudini difensive di colui che abbia optato per l'autodifesa.

4. - L'affermata sufficienza dell'autodifesa e l'esclusione di ogni possibilità di apprezzamenti preventivi sulle qualità soggettive dell'incolpato privano di fondamento la censura ex art. 24 ed il primo profilo della censura mossa a stregua dell'art. 3 della Costituzione.

Quanto poi al secondo profilo di quest'ultima censura, va osservato che le peculiarità del procedimento disciplinare e delle sue finalità non consentono la comparazione col processo penale, l'utilizzo dei cui moduli procedurali (d'altronde previsti solo in via integrativa dagli artt. 32 e 34 del r.d.lgs. n. 511 del 1946) non è affatto sintomatico di una coincidenza che abiliti ad assimilarne i presupposti e a confrontarne gli esiti, ma è soltanto funzionale ad una più rigorosa tutela del prestigio dell'ordine giudiziario (v. sentenza n. 145 del 1976).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi, dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, secondo comma, del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dalla Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, con le ordinanze di cui in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 03/04/95.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Cesare RUPERTO, Redattore

Depositata in cancelleria il 13/04/95.