Sentenza n. 289 del 1992

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SENTENZA N. 289

ANNO 1992

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-                       Dott. Aldo CORASANITI, Presidente

 

-                       Prof. Giuseppe BORZELLINO

 

-                       Dott. Francesco GRECO

 

-                       Prof. Gabriele PESCATORE

 

-                       Avv. Ugo SPAGNOLI

 

-                       Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

-                       Prof. Antonio BALDASSARRE

 

-                       Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

-                       Avv. Mauro FERRI

 

-                       Prof. Luigi MENGONI

 

-                       Prof. Enzo CHELI

 

-                       Dott. Renato GRANATA

 

-                       Prof. Giuliano VASSALLI

 

-                       Prof. Francesco GUIZZI

 

-                       Prof. Cesare MIRABELLI

 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto formato dall'art. 87 del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n.3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato) e dall'art. 276 del regio decreto 30 gennaio 1941, n.12 (Ordinamento giudiziario) promosso con ordinanza emessa il 24 maggio 1991 dalla Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, nel procedimento disciplinare a carico di Giuseppe Renato Croce iscritta al n.661 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell'anno 1991.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 5 febbraio 1992 il Giudice relatore Antonio Baldassarre.

Ritenuto in fatto

 

1.- Nel corso di un procedimento disciplinare, instaurato a seguito di un annullamento con rinvio operato dalla Corte di cassazione - Sezione unite civili nei confronti di una pronunzia di inammissibilità di un'istanza presentata dal magistrato d'appello Giuseppe Renato Croce per ottenere la riabilitazione, ai sensi dell'art. 178 c.p. o dell'art.87 del d.P.R. n. 3 del 1957, rispetto a una decisione di condanna inflittiva della sanzione della censura, la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ha sollevato questione di legittimità costituzionale - in riferimento agli artt. 3, 101, secondo comma, 104, primo comma, e 105 della Costituzione - avverso il combinato disposto formato dall'art. 87 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo Statuto degli impiegati civili dello Stato), e dall'art. 276 del regio- decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), nell'interpretazione datane dalla Corte di cassazione nella formulazione del principio di diritto espresso in sede di rinvio.

Più precisamente, secondo quanto riferisce il giudice a quo, la Corte di cassazione ha affermato che "poichè, ai sensi del terzo comma dell'art. 276 del R.D.L. 31 maggio 1946, n. 511 (recte: R.D. 30 gennaio 1941, n. 12), sono applicabili ai magistrati le disposizioni generali relative agli impiegati dello Stato, che non siano contrarie ai regolamenti dell'Ordinamento giudiziario, la riabilitazione, prevista dall'art.87 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 è applicabile ai magistrati, costituendo un istituto di carattere generale che non si pone in contrasto nè con le norme dell'Ordinamento giudiziario, nè con lo status riconosciuto ai giudici". Su questa base, continua il giudice rimettente, la stessa Corte di cassazione ha operato una "interpretazione adeguatrice", volta a dare una "concreta portata giuridica" alle disposizioni impugnate, a seguito della quale la Sezione disciplinare del C.S.M. dovrebbe eventualmente dichiarare la riabilitazione del magistrato dopo aver chiesto il parere del Consiglio giudiziario, in luogo della qualifica di "ottimo" richiesta dal ricordato art. 87 per gli impiegati statali.

Il giudice a quo - tenuto conto della vincolatività del principio di diritto per il giudice di rinvio e tenuto conto del fatto che, in ragione della consolidata estensione ai magistrati di norme di favore dettate dal legislatore per i procedimenti disciplinari degli impiegati civili dello Stato (ad es., le norme sulla revisione, sul condono), si è di fronte a un vero e proprio "diritto vivente" - dubita che, tra i possibili significati riferibili al combinato disposto impugnato, quello accolto dalla Corte di cassazione possa essere viziato d'incostituzionalità: a) "per contrasto con gli artt. 101, comma secondo, 104, comma primo, e 105 della Costituzione, nella parte in cui, mediante adattamenti procedimentali, attribuisce competenza al Consiglio giudiziario ad emettere un parere vincolante per un organo, quale la Sezione disciplinare, avente natura giurisdizionale"; b) "per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui la predetta interpretazione equipara irragionevolmente situazioni profondamente diverse".

In linea generale, il giudice a quo precisa che l'interpretazione formulata dalla Corte di cassazione muove dalla premessa che la lacuna derivante dalla mancata previsione della riabilitazione nell'ordinamento giudiziario possa essere colmata, non già dalle omonime figure speciali previste dal codice penale (artt. 178 e 179), dal codice civile (art. 466) e dalla legge fallimentare (artt. 142- 145 del r.d. n. 267 del 1942), ma dalla riabilitazione delineata dall'impugnato art. 87 del d.P.R. n.3 del 1957, che, ad avviso di quella Corte, è un "istituto di carattere generale". Ed è sulla base di tale presupposto che, in sede di rinvio, la predetta lacuna è stata considerata colmabile in via interpretativa, anzichè essere ritenuta, anche nelle particolari forme di valutazione implicate (giudizi relativi alla qualifica annuale), la logica conseguenza della strutturazione dell'ordinamento giudiziario in relazione ai particolari valori costituzionali rispetto ai quali deve esser improntato lo status del magistrato.

2.- Venendo alle singole questioni di costituzionalità, il giudice a quo osserva che, per quanto possa spingersi in avanti l'applicazione dell'analogia e della interpretazione adeguatrice, non è comunque possibile oltrepassare la linea che separa la giurisdizione dalla normazione: l'art.101 della Costituzione, infatti, nel disporre la "riserva di giurisdizione", mentre, per un verso, impedisce di invadere lo spazio idealmente riservato alla giurisdizione, per altro verso, vieta a quest'ultima di assumere i connotati sostanziali della normazione e di eludere, in tal modo, i principi della soggezione del giudice alla legge e della funzione meramente applicativa della giurisprudenza. E, continua il giudice a quo, sebbene tali principi, a seconda del settore in cui operano, oscillino da una "stretta legalità" (es. campo penale) a una posizione che attribuisce al giudice un ruolo di ricerca dell'equilibrio tra gli interessi in gioco (es. diritto sindacale o di famiglia), non va dimenticato che in materia di ordinamento giudiziario e di status dei giudici l'art. 108 della Costituzione prevede una riserva di legge.

Sicchè, quando la Corte di cassazione interpreta gli articoli impugnati affermando che alla qualifica annuale di "ottimo" (ed evidentemente anche al parere del Consiglio di amministrazione e a quello della Commissione di disciplina), prevista come elemento procedimentale per l'applicazione della riabilitazione agli impiegati civili dello Stato, debba essere equiparato, con riferimento ai giudici, un parere del Consiglio giudiziario, richiesto dalla Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura su istanza di parte o d'ufficio, si sarebbe realizzata, ad avviso del giudice a quo, un'indebita integrazione normativa in una materia la cui disciplina è riservata al legislatore.

Questa invasione del campo riservato al legislatore comporta, sempre secondo il giudice a quo, una serie di incongruenze. Innanzitutto, l'interpretazione della Corte di cassazione verrebbe a conferire una competenza in materia disciplinare ai Consigli giudiziari, che sono organi ausiliari del Consiglio superiore nella sua veste di organo investito di funzioni amministrative, organo rispetto al quale, come ha riconosciuto codesta Corte, la Sezione disciplinare gode di una sua propria autonomia.

In secondo luogo, il parere del Consiglio giudiziario prefigurato dalla Corte di cassazione si porrebbe in contrasto con il principio di completezza del sistema disciplinare previsto per i magistrati, in relazione al quale eventuali integrazioni sono possibili, in forza degli artt. 32 e 34 del R.D.L. 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), soltanto attraverso il rinvio alle norme del codice di procedura penale approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n.1398 (rinvio che, se mai, imporrebbe di chiedere solamente il parere del Procuratore generale). Infine, la Corte di cassazione, quando prende atto che non si possono riprodurre per i magistrati gli effetti previsti per la riabilitazione degli impiegati civili dello Stato (modifica dei giudizi riportati a seguito della sanzione, possibilità di ottenere le promozioni ritardate per effetto delle stesse, recupero degli scatti di anzianità perduti) e quando precisa che, essendo l'efficacia generale dell'istituto della riabilitazione quella di far cessare le conseguenze negative delle sanzioni disciplinari, dovrebbero venir meno nel caso di specie gli effetti della censura (quali l'ineleggibilità a componente del Consiglio Superiore della Magistratura e la valutazione della sanzione disciplinare in sede di progressione in carriera, di trasferimento e di conferimento degli incarichi direttivi), non procede, secondo il giudice a quo, ad esaminare quali siano gli effetti della riabilitazione prevista dall'art. 87 del d.P.R. n. 3 del 1957 al fine di verificare se questi siano compatibili, ai sensi dell'art.276 del r.d. n. 12 del 1941, con lo status di magistrato, ma introduce in realtà un diverso istituto, se pure recante lo stesso nome di riabilitazione, dotato di effetti suoi propri, non rinvenibili nel citato art. 87. Tali "adattamenti" normativi, conclude il giudice a quo, non sono consentiti alla Corte di cassazione (la quale non può oltrepassare i confini di un'interpretazione adeguatrice), ma possono rientrare, in certi casi, soltanto nei poteri della Corte costituzionale, le cui sentenze, secondo il giudice rimettente, entrano a pieno titolo tra le fonti del diritto sotto più profili.

3.- L'interpretazione delle norme impugnate da parte della Corte di cassazione comporta ulteriori profili di dubbia compatibilità con la Costituzione.

Sotto l'aspetto sostanziale, il giudice a quo osserva che la riabilitazione prevista dall'art. 87 del d.P.R. n. 3 del 1957 dovrebbe farsi rientrare fra i provvedimenti discrezionali appartenenti alla categoria della revoca per motivi di opportunità, comportanti una valutazione comparativa fra l'interesse del soggetto punito, la gravità della violazione rispetto al pubblico interesse perseguito dalla pubblica amministrazione e le conseguenze che la riabilitazione produrrebbe sull'ordine, la disciplina e la produttività del lavoro negli uffici. A tale valutazione, strettamente legata al principio del buon andamento dell'amministrazione (art. 97 della Costituzione), sono funzionali i criteri cui devono attenersi i pareri del Consiglio di amministrazione (massimo organo collegiale dell'ordinamento delle singole amministrazioni) e della Commissione di disciplina, nonchè la deliberazione del Ministro.

Tuttavia, in considerazione della natura giurisdizionale dei provvedimenti della Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, più volte riconosciuta dalla stessa Corte costituzionale, si deve ritenere che tale Sezione, dovendo applicare le regole proprie della giurisdizione, esercita poteri palesemente privi di discrezionalità, tanto che in materia disciplinare le regole del giudizio richiamate sono quelle previste nel codice di procedura penale, per le quali si è persino dubitato che possa parlarsi di vera e propria discrezionalità giudiziale.

Alla luce di queste considerazioni, secondo il giudice a quo, l'interpretazione fornita dalla Corte di cassazione sarebbe portatrice di ulteriori incongruenze. Innanzitutto, la Sezione disciplinare ritiene che, in caso di parere favorevole del Consiglio giudiziario, ad essa non resterebbe altro che concedere la riabilitazione, salvo il generale potere di rifiuto di applicazione per meri vizi di legittimità, dal momento che i contenuti del parere costituirebbero gli unici motivi da porre a base della susseguente decisione. In tal modo, la riabilitazione configurata dall'interpretazione della Corte di cassazione risulterebbe in realtà ben diversa da quella prevista dall'art. 87 del d.P.R. n. 3 del 1957, per divenire, piuttosto, un provvedimento il cui ottenimento, in analogia con quanto previsto dagli artt. 178 e 179 del codice penale, sarebbe il contenuto di un diritto soggettivo di chi abbia riportato la sanzione disciplinare. Inoltre, in considerazione del carattere amministrativo del Consiglio giudiziario, la Corte di cassazione, allo scopo di salvare la discrezionalità del provvedimento di riabilitazione, avrebbe dovuto riconoscere in materia la competenza del plenum del Consiglio Superiore della Magistratura. Ma, poichè ciò è sicuramente escluso dall'essere il "principio di diritto" indirizzato al giudice della deontologia dei magistrati e poichè, per le ragioni sopra indicate, quello del Consiglio giudiziario dev'esser configurato come un parere sul merito (in senso amministrativo) di tipo vincolante, ne risulterebbero lese sia le prerogative spettanti alla Sezione disciplinare, sia l'indipendenza della giurisdizione e dell'ordine giudiziario.

Sotto i profili indicati, le norme impugnate, nel significato loro attribuito dalla Corte di cassazione, sembrano al giudice a quo contrastanti con: a) l'art. 101, secondo comma, della Costituzione, che garantisce l'indipendenza dei giudici come contenuto essenziale della soggezione degli stessi alla sola legge; b) l'art. 104, primo comma, della Costituzione, che tutela l'indipendenza ordinamentale della magistratura; c) l'art. 105 della Costituzione, che attribuisce in via esclusiva al Consiglio Superiore della Magistratura, attraverso la Sezione competente, i provvedimenti in materia disciplinare, i quali, pertanto, non possono essere vanificati ad opera di un organo amministrativo.

4. Infine, l'interpretazione data dalla Corte di cassazione alle disposizioni impugnate si pone, in riferimento al principio di eguaglianza garantito dall'art. 3 della Costituzione, non già come la conseguenza dell'eliminazione di un'ingiustificata situazione di disparità, secondo quanto mostra di ritenere quella Corte, ma come il risultato di un'irragionevole equiparazione di posizioni profondamente diverse.

Tale assunto del giudice a quo è sorretto da un duplice ordine di argomentazioni.

Sotto un primo profilo, il procedimento disciplinare previsto per i magistrati appare sensibilmente differente rispetto a quello esistente per il pubblico impiego: come questo è di natura amministrativa ed è dotato di garanzie molto limitate, così quello è assistito da un rigido garantismo, tanto che, a tutela dell'indipendenza interna ed esterna del magistrato, è caratterizzato dalle forme e dai principi del processo penale, è concluso da una decisione denominata sentenza, che è soggetta ad impugnazione presso le Sezioni unite della Corte di cassazione e a un procedimento di revisione del tipo di quello disciplinato dal codice di procedura penale.

Profondamente diversi sono, inoltre, i due sistemi sanzionatori: mentre quello stabilito per gli impiegati civili dello Stato prevede varie sanzioni (riduzione dello stipendio, sospensione della qualifica, destituzione) come conseguenza di altrettante e determinate violazioni, quello predisposto per i magistrati è dato, invece, da un'unica norma (art. 18 della legge sulle guarentigie), per la quale, in dipendenza della gravità della violazione, possono seguire varie sanzioni.

Tali differenze, continua il giudice a quo, attengono a ragioni di fondo, che trovano espressione negli artt. 101, 107, 104 e 105 della Costituzione, concernenti la particolare configurazione del rapporto di impiego del magistrato. Sotto questo profilo, viene in evidenza la netta differenza tra il rapporto di servizio dei dipendenti pubblici e quello dei giudici, che si traduce nel diverso fondamento del relativo potere disciplinare. Il rapporto di pubblico impiego ha come norma costituzionale di riferimento l'art. 97 della Costituzione, il quale, oltre ad essere compatibile con un'organizzazione gerarchica diretta ad assicurare il buon andamento della pubblica amministrazione, richiede al funzionario amministrativo l'espletamento di una funzione di comparazione fra interessi diversi, che è normalmente esclusa nell'esercizio della giurisdizione e, nei rari casi in cui occorre, avviene pur sempre fra interessi dei quali il giudice non è in alcuna parte il portatore. Conseguentemente, continua il giudice a quo, mentre il potere disciplinare relativo agli impiegati pubblici è fondato sul rapporto di supremazia speciale spettante all'amministrazione di appartenenza, quello attinente ai magistrati non può avere lo stesso fondamento, poichè la giurisdizione, diversamente dall'amministrazione, non comporta affatto dipendenza e non afferma un fine suo proprio, ma tutela direttamente i valori dell'ordinamento giuridico generale.

Ciò spiega, ad avviso del giudice a quo, le numerose particolarità degli aspetti, anche sanzionatori, concernenti il procedimento disciplinare previsto per i magistrati. Fra queste particolarità vanno sottolineate l'integrazione giurisprudenziale dell'unica fattispecie sostanziale, la relativa non sindacabilità del merito dei provvedimenti adottati dalla Sezione disciplinare, la rilevanza data al trasferimento d'ufficio, alla rimozione, alla destituzione senza colpa in funzione della credibilità della giurisdizione e, infine, alla sostanziale assenza di sanzioni economiche e di carriera. E, soprattutto, quelle particolarità si riflettono, per quanto riguarda specificamente la riabilitazione prevista dall'art. 87, nella (necessaria) assenza di qualifiche annuali per i dirigenti degli uffici (funzionale, per i magistrati, al valore dell'indipendenza interna), qualifiche che sono, invece, previste per gli altri impiegati come espressione del rapporto gerarchico.

Infine, riguardo alle diversità delle sanzioni disciplinari ritenute espressive delle diversità di status riferibili ai magistrati e agli impiegati pubblici, il giudice a quo individua il più rilevante sintomo dell'irragionevolezza dell'interpretazione data dalla Corte di cassazione alle norme impugnate nella considerazione degli effetti collegati all'estensione ai magistrati della riabilitazione prevista dall'art. 87 del d.P.R. n. 3 del 1957.

Sotto questo profilo, il giudice a quo sottolinea, innanzitutto, che stabilire, in via analogica, che la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura possa rimuovere, in sede di applicazione della suddetta riabilitazione, gli effetti della ritardata progressione in carriera significa produrre un'irragionevole interferenza sul procedimento di riesame per una nuova valutazione, previsto dall'art. 2 della legge n.570 del 1966 e dall'art. 6 della legge n. 831 del 1973, che è attribuito al plenum del Consiglio Superiore stesso, previo parere del Consiglio giudiziario (e non, come per gli impiegati pubblici, previo parere di organi gerarchicamente sovraordinati, come il Consiglio di amministrazione, o di carattere amministrativo disciplinare, come la Commissione di disciplina).

Ciò dimostra, secondo il giudice rimettente, che nel rapporto d'impiego dei magistrati sussistono strumenti analoghi a quello della riabilitazione più in armonia di quest'ultima con le particolarità del relativo rapporto di servizio, sicchè ove anche la riabilitazione fosse estesa ai giudici, si produrrebbe un trattamento di irrazionale maggior favore a vantaggio dei giudici stessi.

In secondo luogo, la riabilitazione, secondo una generica affermazione della Corte di cassazione, potrebbe incidere anche sul trasferimento di ufficio.

Ma, osserva il giudice a quo, poichè quest'ultimo consegue a una perdita di credibilità o di affidabilità che può essere connessa tanto alla violazione di regole di deontologia professionale, quanto ad altre cause non legate a comportamenti colpevoli, prevedere che la riabilitazione possa rendere inefficace il trasferimento d'ufficio solo se derivante da illecito disciplinare, e non negli altri casi, comporta una violazione del principio di eguaglianza, che preclude di trattare in modo più grave situazioni in cui il magistrato non versi in colpa.

Da ultimo, il giudice a quo nega che si possa rinvenire una eadem ratio anche in ordine alla cancellazione degli effetti conseguenti alla sanzione accessoria della ineleggibilità a componente del Consiglio Superiore della Magistratura e in ordine all'incidenza sul conferimento di incarichi direttivi. Infatti, mentre quest'ultimo è propriamente un munus che non rientra nel concetto di carriera o di status e che non ha riscontro nella pubblica amministrazione (tanto che l'incarico può cessare, di norma, solo per spontanea domanda di tramutamento), l'ineleggibilità, invece, non può essere paragonata agli effetti delle sanzioni relative al pubblico impiegato, poichè essa ha la sua razionale giustificazione nel mero fine di precludere al giudice che è stato censurato l'accesso a un organo di rilevanza costituzionale che ha tra i suoi compiti quello di riaffermare la correttezza deontologica dei magistrati.

Considerato in diritto

 

1.- Investita di un procedimento disciplinare a carico del magistrato d'appello Giuseppe Renato Croce a seguito di un annullamento con rinvio di una sua stessa pronunzia di inammissibilità operato dalla Corte di cassazione - Sezioni unite civili, la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ha sollevato questione di legittimità costituzionale del combinato disposto formato dall'art. 87 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato) e dell'art. 276 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), dal quale si desume, secondo la Corte di cassazione, il principio di diritto relativo all'estensione ai giudici dell'istituto della riabilitazione, come previsto in caso di condanna nei procedimenti disciplinari posti in essere a carico degli impiegati civili dello Stato. Più precisamente, ad avviso del giudice a quo, l'applicabilità ai magistrati della riabilitazione prevista dall'art.87 del d.P.R. n. 3 del 1957 - basata sul rilievo che, trattandosi di un istituto di carattere generale non contrastante con le norme dell'ordinamento giudiziario e con lo status riconosciuto ai giudici, rientrerebbe tra "le disposizioni generali relative agli impiegati civili dello Stato", estensibili ai giudici ai sensi dell'art. 276, terzo comma, del regio decreto n. 12 del 1941 - si porrebbe in conflitto con le seguenti disposizioni costituzionali: a) art. 101, secondo comma, della Costituzione, che, nello stabilire che i giudici sono soggetti soltanto alla legge, dispone una "riserva di giurisdizione", la quale precluderebbe ai magistrati, in sede di interpretazione e di applicazione delle leggi, di porre in essere attività sostanzialmente normative, contrariamente a quanto nel caso avrebbe compiuto la Corte di cassazione, allorchè ha attribuito ai Consigli giudiziari poteri nuovi e ha istituito sub-procedimenti non previsti dalle leggi; b) artt. 101 e 104 della Costituzione, che, nel garantire l'indipendenza della magistratura tanto come potere investito della funzione giurisdizionale quanto come ordine autonomo, vieterebbero di applicare ai magistrati un istituto, come la predetta riabilitazione, il quale avrebbe uno spiccato carattere discrezionale - finalizzato, per di più, all'interesse particolare del buon andamento della pubblica amministrazione - e comporterebbe, così come risulta delineato nell'interpretazione contestata, che un organo giurisdizionale, la Sezione disciplinare, sia sottoposto al parere praticamente vincolante di un organo amministrativo, il Consiglio giudiziario; c) art. 105 della Costituzione, il quale, nell'attribuire al Consiglio Superiore della Magistratura il potere disciplinare nei riguardi dei giudici, precluderebbe di riconoscere ai Consigli giudiziari un parere praticamente vincolante in relazione alle decisioni della Sezione disciplinare a pena della violazione della competenza in materia disciplinare attribuita alla Sezione stessa; d) art. 3 della Costituzione, che, nel vietare ingiustificate disparità di trattamento e irragionevoli parificazioni di posizioni obiettivamente differenziate, impedirebbe di equiparare, contrariamente a quanto sostenuto nell'interpretazione contestata, la posizione degli impiegati civili dello Stato e lo status dei magistrati, status che, ad avviso del giudice a quo, giustificherebbe, in ragione delle diversità attinenti alla configurazione del procedimento disciplinare e alla natura del rapporto di servizio relativi alle categorie considerate, la mancata previsione per i magistrati di un istituto del tipo della riabilitazione regolata dall'impugnato art.87.

2.- La questione va accolta in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal momento che la specificità costituzionale dello status del magistrato, che si riverbera sulla configurazione legislativa del procedimento disciplinare e, quindi, sul regime normativo degli atti incidenti sulle sanzioni irrogate con quel procedimento, impedisce di considerare le situazioni poste a confronto come omogenee e preclude, pertanto, la possibilità di un'automatica estensione ai giudici dell'istituto della riabilitazione previsto per gli impiegati civili dello Stato.

2.1.- Come questa Corte ha più volte affermato, non si può negare che la Costituzione, anche sotto profili attinenti alla materia sottoposta al presente giudizio, stabilisce principi comuni, valevoli tanto per il pubblico impiegato quanto per il magistrato. In tema di responsabilità dei pubblici funzionari, questa Corte, sin dalla sentenza n. 2 del 1968, ha affermato che l'art. 28 della Costituzione pone principi applicabili a tutti coloro che svolgono attività statali, inclusi i magistrati.

E, con specifico riferimento al procedimento disciplinare, la stessa Corte (v. sent. n. 145 del 1976) ha affermato che, tanto per i funzionari statali quanto per i magistrati, quel procedimento dev'esser legislativamente determinato sulla base di una valutazione comparativa di due contrapposti interessi: il prestigio della funzione esercitata e una giusta tutela dei diritti dei singoli dipendenti pubblici.

Tuttavia, nel medesimo tempo, questa Corte ha precisato che il comune aspetto di fondo, dipendente dal fatto che ambedue le categorie interessate sono legate da un rapporto di servizio pubblico con lo Stato e svolgono attività in nome e per conto dello Stato medesimo, non impedisce e, anzi, impone al legislatore di considerare, nell'ambito di un esercizio non irragionevole della sua discrezionalità politica, le differenze e le peculiarità che debbono indurre a disciplinare diversamente, sotto vari aspetti, lo status e i compiti dei magistrati rispetto a quelli degli altri dipendenti pubblici. Un trattamento differenziato dei giudici è, infatti, imposto dalla stessa Costituzione, la quale, agli articoli da 101 a 113, prevede apposite disposizioni dirette ad assicurare, a garanzia dell'autonomia e dell'imparzialità di una funzione di vitale importanza per l'esistenza e l'attuazione di uno Stato di diritto, la più ampia tutela dell'indipendenza dei giudici, considerati sia come singoli soggetti sia come ordine giudiziario.

2.2.- A questi principi costituzionali, che comportano momenti di disciplina comune e momenti di differenziazione, il legislatore si è essenzialmente attenuto allorchè ha regolato il procedimento disciplinare per i dipendenti civili dello Stato e quello per i magistrati.

Il fondamento costituzionale di entrambi i procedimenti, come s'è già precisato, è il medesimo: assicurare, nel rispetto del principio di legalità, l'interesse pubblico, riconosciuto in via generale dall'art. 97 della Costituzione, al buon andamento e all'imparzialità delle funzioni statali (v. sentt. nn. 86 del 1982 e 18 del 1989) in bilanciamento con i diritti, costituzionalmente rilevanti, dei singoli dipendenti (v. sent. n.145 del 1976). Ma, in relazione ai magistrati, l'uno e l'altro termine del bilanciamento assumono una qualificazione ulteriore del tutto peculiare, dovuta al fatto che, per un verso, l'interesse pubblico sopra enunciato consiste in tal caso nell'assicurazione del regolare e corretto svolgimento della funzione giurisdizionale, vale a dire di una funzione che gode in Costituzione di una speciale garanzia di indipendenza e di autonomia rispetto a ogni altra funzione pubblica (art. 101, secondo comma: "I giudici sono soggetti soltanto alla legge"; art. 104, primo comma: "La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere"); e, per altro verso, l'interesse costituzionale alla tutela dei diritti dei singoli dipendenti pubblici dev'essere commisurato, nel caso dei giudici, alla salvaguardia più rigorosa del dovere di imparzialità e della connessa esigenza di credibilità che si collegano all'esercizio di una funzione essenziale, come quella che la Costituzione affida ai magistrati nel quadro dei principi dello Stato di diritto (v. spec. sent. n. 145 del 1976, nonchè sent. n. 100 del 1981).

Queste peculiarità costituzionali hanno avuto un'attuazione legislativa attraverso le norme che regolano il procedimento disciplinare per i magistrati, le quali sono sostanzialmente difformi da quelle che regolano il procedimento disciplinare per gli impiegati civili dello Stato.

Quest'ultimo, infatti, è configurato dalle leggi vigenti come un procedimento amministrativo, che, sebbene tenda a riconoscere uno spazio sempre maggiore a principi di razionalizzazione delle procedure ispirati ai modelli giurisdizionali (v. sentt. nn. 971 del 1988, nonchè sentt. nn. 40 e 158 del 1990),sfocia in un provvedimento di carattere non giurisdizionale, adottato da un'autorità amministrativa superiore e soggetto al regime delle impugnazioni proprio degli atti amministrativi. Il procedimento disciplinare legislativamente previsto per i magistrati, invece, consiste in "un giudizio che si svolge secondo moduli giurisdizionali", al quale sono applicabili, in quanto compatibili, le disposizioni sul processo penale relative all'istruzione e al dibattimento; la cui decisione è demandata a un collegio composto in prevalenza da "pari" ed espressione, comunque, di un organo, quale il Consiglio Superiore della Magistratura, appositamente istituito dalla Costituzione a tutela dell'indipendenza dei giudici e dell'autonomia dell'ordine giudiziario (v. sent. n. 145 del 1976); e la cui pronunzia è sottoposta a un regime di impugnazione costituito dal ricorso diretto alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, oltre ad essere soggetta a revisione secondo modalità e a condizioni non dissimili da quelle previste per l'analogo istituto processuale penale.

In definitiva, la scelta legislativa di configurare il procedimento disciplinare per i magistrati secondo paradigmi di carattere giurisdizionale mostra chiaramente che quest'ultimo costituisce un procedimento strutturalmente e funzionalmente diverso da quello previsto per gli impiegati civili dello Stato. In esso, infatti, come questa Corte ha già avuto modo di precisare (v. sent. n. 145 del 1976), la scelta di moduli giurisdizionali - pur se indebolita nella legislazione vigente da una grande latitudine della previsione degli illeciti disciplinari e, consequenzialmente, da un ampio margine di discrezionalità dell'organo decidente - risponde "all'esigenza di una più rigorosa tutela del prestigio dell'ordine giudiziario, che rientra senza dubbio tra i più rilevanti beni costituzionalmente protetti".

2.3.- Le differenze ora sottolineate sussistenti tra il procedimento disciplinare per i magistrati e quello per gli impiegati civili dello Stato si riflettono inevitabilmente sulla disciplina legislativa degli istituti, tra i quali rientra la riabilitazione, destinati a incidere sulle sanzioni disciplinari al fine di farne cessare gli effetti.

Nel regolare la riabilitazione a favore degli impiegati civili dello Stato colpiti da sanzione disciplinare, l'art. 87 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n.3, attribuisce ad essa la configurazione di un atto amministrativo.

La riabilitazione, infatti, è adottata con decreto ministeriale, sentiti il Consiglio di amministrazione e la Commissione di disciplina; può essere concessa all'impiegato rimasto in servizio a partire dal compimento del secondo anno successivo alla data dell'atto con cui fu inflitta la sanzione disciplinare, semprechè l'impiegato abbia riportato negli ultimi due anni la qualifica di "ottimo"; può render nulli gli effetti della sanzione, con esclusione di qualsiasi efficacia retroattiva, ed, eventualmente, può comportare la modifica dei giudizi complessivi riportati dall'impiegato dopo la sanzione e in conseguenza di questa. Si tratta, insomma, di un atto amministrativo di perdono, non legato a eventi eccezionali o straordinari, con il quale l'autorità amministrativa di vertice nel settore considerato, in base a una valutazione complessiva dell'interesse della pubblica amministrazione da essa diretta, decide di cancellare gli effetti di una sanzione disciplinare a seguito della buona condotta dimostrata successivamente dall'impiegato che era stato colpito dalla sanzione stessa.

Così come è regolata dall'art. 87 del d.P.R. n. 3 del 1957, la riabilitazione non può essere automaticamente estesa alle sanzioni disciplinari irrogate ai magistrati in conseguenza del ben diverso procedimento previsto per questi ultimi. Considerata l'eterogeneità della disciplina legislativa dell'uno e dell'altro procedimento disciplinare, il trapianto della riabilitazione prevista per gli impiegati civili dello Stato nel sistema disciplinare stabilito per i magistrati dà luogo a un irragionevole innesto e, come tale, si pone in manifesto contrasto con il principio disposto dall'art. 3 della Costituzione.

3. - Del resto, se si può ammettere che la riabilitazione, come istituto in sè considerato, sia espressione di un principio generale e di un'esigenza che, ancorchè non rispondenti ad alcuna norma costituzionale, possono comunque trovar applicazione anche all'interno di un sistema disciplinare ispirato a paradigmi giurisdizionali, come quello previsto per i magistrati, ciò non può significare affatto che la raffigurazione di quell'istituto generale sia perfettamente rispecchiata nella particolare fattispecie regolata dall'impugnato art. 87. Infatti, se è ben vero che in ciascuna delle forme di riabilitazione previste nell'ordinamento vigente - segnatamente sia nella riabilitazione penale (art. 178 c.p.) e in quella civile (art. 466 c.c.), sia nella riabilitazione dei pubblici impiegati (art. 87, del d.P.R. n. 3 del 1957) e in quella del fallito (artt.142-145 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267) - si riscontra un nucleo normativo comune, tanto con riferimento ai presupposti per l'applicazione (decorso del tempo e valutazione della buona condotta) quanto con riferimento agli effetti (estinzione di specifiche incapacità giuridiche e di effetti ulteriori rispetto alla sanzione principale della condanna), non è meno vero che ciascuna delle forme di riabilitazione indicate costituiscono un modello a sè, composto da una diversa combinazione e da una diversa determinazione degli elementi essenziali sopra ricordati. E non vi è dubbio che la scelta di un modello ovvero di un altro e, persino, la scelta di affidare alla riabilitazione ovvero a meccanismi diversi l'eliminazione degli effetti ulteriori della condanna disciplinare spettano al legislatore, il quale, nell'esercizio non irragionevole della sua discrezionalità politica, deve valutare quale istituto o quale modello sia più coerente con il sistema disciplinare considerato.

Le suesposte considerazioni portano, dunque, a escludere che l'art. 87 del d.P.R. n. 3 del 1957 possa rientrare tra "le disposizioni generali relative agli impiegati civili dello Stato", che, in quanto non contrarie all'ordinamento giudiziario e non incompatibili con lo status riconosciuto ai giudici, sono applicabili, ai sensi dell'art. 276 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, anche ai magistrati dell'ordine giudiziario.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale del combinato disposto formato dall'art. 87 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), e dall'art. 276 del R.D. 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), nella parte in cui consente l'applicazione ai magistrati della riabilitazione prevista per gli impiegati civili dello Stato colpiti da sanzione disciplinare.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 04/06/92.

Aldo CORASANITI, Presidente

Antonio BALDASSARRE, Redattore

Depositata in cancelleria il 22/06/92.