Sentenza n. 463 del 1994

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SENTENZA N. 463

 

ANNO 1994

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

In nome del Popolo Italiano

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

Avv. Massimo VARI

 

Dott. Cesare RUPERTO

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 269, comma 2, ultima proposizione, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 28 aprile 1994 dal giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Torino nel procedimento penale a carico di Stefani Giulio, iscritta al n.368 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell'anno 1994.

 

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 9 novembre 1994 il Giudice relatore Antonio Baldassarre.

 

Ritenuto in fatto

 

1.- Nel corso di un procedimento penale per minacce e molestie a mezzo del telefono instaurato a carico di Giulio Stefani, il giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Torino ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 269 c.p.p., in riferimento agli artt. 3 e 76 della Costituzione.

 

Nel dare conto delle vicende processuali precedenti l'incidente di costituzionalità, il giudice a quo ricorda di aver autorizzato, su istanza del pubblico ministero, l'effettuazione di intercettazioni telefoniche sull'utenza dell'indagato e, successivamente, considerato l'esito negativo delle operazioni disposte, di aver accolto la richiesta di archiviazione del pubblico ministero, rigettando, con lo stesso provvedimento, la contestuale istanza di distruzione del materiale di registrazione raccolto.

 

Nell'opporsi alla parte del provvedimento sfavorevole alle proprie richieste, il pubblico ministero, dopo aver proposto un primo ricorso per cassazione, ritenuto inammissibile dalla Corte di cassazione in base al principio di inoppugnabilità dei provvedimenti emessi "de plano", e dopo aver presentato una istanza di fissazione dell'udienza camerale ai sensi dell'art. 127 c.p.p., che veniva respinta dal giudice per le indagini preliminari, proponeva contro tale decreto un nuovo ricorso per cassazione, che, questa volta, la Corte suprema accoglieva, assumendo il carattere abnorme del provvedimento emesso dal giudice per le indagini preliminari, in quanto non rispettoso della procedura camerale prescritta dall'art.269 c.p.p., comma 2, ultima proposizione.

 

Essendo stati restituiti dalla Corte di cassazione gli atti a seguito dell'annullamento del decreto di rigetto di fissazione dell'udienza camerale, il giudice per le indagini preliminari, ritenendosi vincolato all'interpretazione fornita dalla Corte di cassazione - secondo la quale l'istanza di distruzione delle registrazioni delle intercettazioni telefoniche, anche se proposta dal pubblico ministero per motivi diversi dalla tutela della riservatezza degli interessati, obbliga il giudice competente per la decisione a fissare la camera di consiglio ai sensi dell'art. 127 c.p.p., in modo da assicurare il contraddittorio delle parti nonchè il successivo controllo sulla decisione -, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 269 c.p.p., così interpretato, per contrasto con gli artt. 3 e 76 della Costituzione.

 

Per quanto riguarda il parametro dell'art.76 della Costituzione, il giudice rimettente osserva che l'art. 269, comma 2, c.p.p. rappresenta l'attuazione della direttiva espressa nell'art. 2, n. 41, lettera e), della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale), nella quale non solo non si fa alcun cenno dell'udienza camerale in questione, ma si fissa il principio dell'obbligatorietà della conservazione della documentazione integrale delle intercettazioni, con la contestuale previsione che quest'ultimo può esser derogato soltanto a tutela della riservatezza degli interessati ove questi lo richiedano. Questa previsione conduce il giudice a quo tanto a sostenere la rigorosa tassatività della disciplina dell'art.269 c.p.p. sulla distruzione dei verbali e delle registrazioni richiesta prima della formazione del giudicato, quanto a ritenere che la celebrazione dell'udienza camerale ai sensi dell'art. 127 c.p.p. sia prevista dal legislatore delegato al solo fine di assicurare il contraddittorio in una decisione assunta a tutela della riservatezza degli interessati.

 

A suo avviso, pertanto, contrasterebbe con i principi della legge delega imporre la trattazione in camera di consiglio dell'istanza presentata dal pubblico ministero - peraltro non legittimato ad avanzare simili richieste in quanto non ricompreso nella categoria degli "interessati" - tutte le volte che la predetta istanza sia volta, come nel caso, alla realizzazione di finalità diverse dalla tutela della riservatezza. A tale riguardo, l'ordinanza di rimessione considera che la pur ragionevole esigenza di non gravare gli uffici giudiziari del compito di conservare registrazioni inutili - esigenza tanto più comprensibile per i numerosi procedimenti definiti con decreto di archiviazione per i quali non potrà essere pronunciata una sentenza non più soggetta a impugnazione - imporrebbe di demandare la soluzione ad una più approfondita valutazione delle contrapposte esigenze da parte del legislatore, dal momento che essa non potrebbe essere raggiunta attraverso un'interpretazione estensiva delle norme contenute nell'art. 269 c.p.p..

 

Infine, l'eccesso di delega dell'interpretazione resa dalla Corte di cassazione, risulterebbe ancor più evidente ove si abbia presente anche la direttiva espressa dall'art. 2, n. 1, della legge delega n. 81 del 1987, la quale fissa al legislatore delegato il principio "della massima esemplificazione nello svolgimento del processo con eliminazione di ogni atto o attività non essenziale", principio ribadito con particolare vigore, in riferimento al procedimento pretorile, dall'art. 2, n. 103, della stessa legge.

 

In relazione alle censure di costituzionalità attinenti all'art.3 della Costituzione, il giudice a quo, nell'esaminare il caso che ha dato occasione alla questione in oggetto, nel quale la richiesta di distruzione del materiale raccolto è stata presentata contestualmente all'istanza di archiviazione, afferma che in tale evenienza l'interpretazione dell'art. 269 c.p.p. accolta dalla Corte di cassazione sarebbe fonte di disparità di trattamento, poichè imporrebbe, alla chiusura per archiviazione delle indagini preliminari, una trattazione in camera di consiglio altrimenti non prescritta.

 

Sebbene la prospettata disparità non riguardi direttamente l'istituto dell'archiviazione, in quanto l'udienza camerale di cui si discute potrebbe essere fissata in tempi non coincidenti con il provvedimento di archiviazione e comunque non sarebbe influente sulla relativa decisione, tuttavia la ingiustificata e illegittima discriminazione dovuta all'obbligatoria fissazione dell'udienza in camera di consiglio ai sensi dell'art. 127 c.p.p. viene lamentata con riferimento a soggetti che, pur trovandosi in situazioni processuali analoghe, per essere stati interessati da indagini conclusesi con una richiesta di archiviazione, si troverebbero ad essere informati delle indagini compiute a loro carico, in conseguenza di un'evenienza del tutto occasionale, come la contestuale richiesta di distruzione dei nastri registrati avanzata dal pubblico ministero (al quale, peraltro, verrebbe accordata una facoltà discrezionale circa l'adozione del rito camerale). Nè sarebbe ragionevole portare a conoscenza delle parti e, in particolar modo dell'indagato, nonostante l'intervenuta archiviazione, l'esistenza di una denuncia a suo carico e l'esecuzione di intercettazioni sulla sua linea telefonica.

 

2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri si è costituito in giudizio per chiedere una pronuncia di inammissibilità o, comunque, di infondatezza della dedotta questione di legittimità costituzionale.

 

Ad avviso dell'Avvocatura dello Stato, il giudice a quo chiederebbe a questa Corte di risolvere un contrasto interpretativo in ordine all'art. 269 c.p.p. e, pertanto, la questione, posta in questi termini, sarebbe inammissibile, in forza del principio per il quale il giudice rimettente è tenuto a seguire, tra le varie interpretazioni possibili, quella conforme ai principi costituzionali. A questa conclusione non sarebbe di ostacolo, secondo l'Avvocatura dello Stato, l'interpretazione affermata dalla Corte di cassazione, in sede di annullamento dell'istanza del pubblico ministero, interpretazione che sarebbe vincolante nel caso concreto, ma non in via di principio.

 

Ulteriore profilo di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale deriverebbe, poi, dalle argomentazioni della ordinanza di rimessione, che, nel lamentare l'illegittimità dell'obbligatoria fissazione dell'udienza camerale ai sensi dell'art. 127 c.p.p., non chiarirebbe se questa abbia ad oggetto la sola delibazione sulla richiesta di distruzione dei nastri registrati ovvero la decisione sull'archiviazione. Se quest'ultimo fosse il caso, si renderebbe irrilevante il dubbio di legittimità costituzionale sulla norma applicabile nel giudizio a quo, dove è in gioco esclusivamente la disciplina della distruzione dei documenti relativi alle operazioni di intercettazione telefonica.

 

Infine, premesso che gli argomenti esposti nell'ordinanza di rimessione appaiono in gran parte pertinenti a giustificare una soluzione di merito da parte dello stesso giudice a quo (peraltro già adottata dal giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Torino e giudicata largamente condivisibile dall'Avvocatura dello Stato), la difesa erariale osserva che l'interpretazione della Corte di cassazione vincolerebbe il giudice a quo nella scelta del rito, non anche nella decisione del caso in esame.

 

Considerato in diritto

 

1.- Il giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Torino solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 269, comma 2, ultima proposizione, c.p.p. in riferimento agli artt. 3 e 76 della Costituzione, nella parte in cui alla luce dell'interpretazione seguita dalla Corte di cassazione allorchè ha annullato il provvedimento di rigetto dell'istanza del pubblico ministero di fissazione dell'udienza camerale, impone il rito di cui all'art. 127 c.p.p. per la decisione sulla distruzione della documentazione delle operazioni di intercettazione telefonica anche quando la relativa richiesta sia stata avanzata, insieme all'istanza di archiviazione del procedimento, dal pubblico ministero in vista della tutela di beni giuridici diversi da quelli attinenti alla riservatezza degli interessati.

 

Nel suo atto di costituzione l'Avvocatura dello Stato ha formulato due distinte eccezioni d'inammissibilità. Con la prima, la difesa erariale sospetta che questa Corte sia stata investita di una questione meramente interpretativa, che, peraltro, lo stesso giudice a quo avrebbe potuto risolvere seguendo l'interpretazione conforme ai principi costituzionali, dal momento che tale giudice non può ritenersi vincolato dall'interpretazione data alla norma contestata dalla Corte di cassazione in sede di annullamento del provvedimento negativo del giudice per le indagini preliminari. Con la seconda eccezione, l'Avvocatura dello Stato deduce la mancanza di chiarezza della questione o, quantomeno, il difetto di rilevanza della stessa, argomentando sulla base della considerazione che, poichè la fissazione dell'udienza camerale ai sensi dell'art. 127 c.p.p. sembra esser diretta anche alla decisione sull'archiviazione del procedimento, quest'ultimo oggetto escluderebbe che la norma applicabile nel giudizio a quo sia quella contenuta nell'art.269 c.p.p..

 

2.- Vanno innanzitutto respinte le eccezioni d'inammissibilità.

 

Relativamente alla prima eccezione, occorre ribadire che, per aversi una questione di legittimità validamente posta, è sufficiente che il giudice a quo riconduca alla disposizione contestata un'interpretazione non implausibile della quale egli, a una valutazione compiuta in una fase meramente iniziale del processo, possa fare applicazione nel giudizio principale e sulla quale egli nutra dubbi non arbitrari di conformità a determinate norme costituzionali (v. sentt. nn. 117 del 1994, 51 del 1992, 64 del 1991 e 41 del 1990). Poichè nel caso il giudice rimettente ritiene di dover applicare l'art. 269 c.p.p. nell'interpretazione fornita dalla Corte di cassazione in sede di annullamento del provvedimento negativo del giudice per le indagini preliminari relativo all'istanza del pubblico ministero per la fissazione dell'udienza camerale, ai sensi dell'art. 127 c.p.p., e poichè lo stesso giudice a quo ritiene che quell'interpretazione possa contrastare con due disposizioni costituzionali puntualmente indicate nell'ordinanza di rimessione, tanto basta per dire che sia stata validamente sottoposta al giudizio di questa Corte una determinata questione di legittimità costituzionale.

 

Del tutto priva di fondamento si rivela, poi, la seconda eccezione di inammissibilità, poichè dalla lettura dell'ordinanza di rimessione risulta chiaramente che l'eventuale contestualità della richiesta di archiviazione del procedimento con l'istanza del pubblico ministero vòlta alla distruzione della documentazione relativa alle registrazioni telefoniche viene considerata soltanto come una premessa circa l'allegata disparità di trattamento comportata dall'art.269 c.p.p. nell'interpretazione accolta dalla Corte di cassazione e sottoposta al giudizio di questa Corte.

 

3.- La questione non è fondata nei sensi di cui in motivazione.

 

Innanzitutto, si deve escludere che l'art. 269 c.p.p., nella parte in cui prescrive il rito camerale ai sensi dell'art.127 c.p.p., si ponga in contrasto con l'art.76 della Costituzione, sotto il profilo dell'"eccesso di delega" rispetto alla direttiva contenuta nell'art. 2, n. 41, lettera e), della legge 16 febbraio 1987, n.81, secondo la quale il legislatore delegato è tenuto a stabilire, oltre alla "conservazione obbligatoria, presso la stessa autorità che ha disposto l'intercettazione, della documentazione integrale delle conversazioni e delle altre forme di comunicazione intercettate", la "determinazione dei casi nei quali, a garanzia del diritto alla riservatezza, tale documentazione deve essere distrutta".

 

Nell'attuare tale principio direttivo, il legislatore delegato, dopo aver fissato la norma secondo la quale, "salvo quanto previsto dall'art. 271, comma 3, le registrazioni sono conservate fino alla sentenza non più soggetta a impugnazione" (art. 269, comma 2, prima proposizione, c.p.p.), ha disposto subito dopo che "gli interessati, quando la documentazione non è necessaria per il procedimento, possono chiederne la distruzione, a tutela della riservatezza, al giudice che ha autorizzato o convalidato l'intercettazione". Lo stesso giudice - dispone infine l'art. 269, comma 2, ultima proposizione - "decide in camera di consiglio a norma dell'art. 127".

 

É ben vero che la norma delegata fa riferimento solamente all'ipotesi che siano i soggetti interessati a richiedere la distruzione della documentazione relativa alle intercettazioni telefoniche che li riguardino, una volta che nel corso del processo siano venuti a conoscenza dell'esistenza di tali intercettazioni e queste ultime non siano considerate necessarie per il procedimento stesso. Ed è, altresì, vero che la distinta ipotesi che sia il pubblico ministero a richiedere la distruzione di quel materiale all'atto della istanza di archiviazione del procedimento, pur frequente nella prassi applicativa, non è espressamente prevista dall'art. 269, comma 2, c.p.p., come non ha mancato di osservare il giudice rimettente.

 

Tuttavia - ed è ancora il giudice a quo ad ammetterlo - la disposizione contestata può essere interpretata - e, di fatto, è stata interpretata dalla Corte di cassazione - in modo tale da comportare l'applicabilità del rito camerale disciplinato dall'art. 127 c.p.p. alla decisione sulla richiesta di distruzione del materiale documentale relativo alle intercettazioni telefoniche anche nell'ipotesi in cui tale richiesta sia avanzata dal pubblico ministero, anzichè dagli interessati, contestualmente all'istanza di archiviazione del procedimento.

 

Contrariamente a quel che suppone il giudice a quo, siffatta interpretazione, non solo non è contraria alla Costituzione, ma, in dipendenza del fatto che nell'ipotesi in esame vengono in considerazione valori e interessi non diversi da quelli coinvolti nell'ipotesi espressamente contemplata nell'art. 269, comma 2, seconda proposizione, c.p.p., è anzi l'unica compatibile con la salvaguardia dei principi costituzionali.

 

É indubbio, infatti, che la decisione giudiziale sulla richiesta, da chiunque formulata, relativa alla distruzione del materiale documentale attinente a intercettazioni telefoniche incide in ogni caso sopra un diritto costituzionale - quello alla riservatezza delle proprie comunicazioni - che è stato dichiarato più volte da questa Corte come un diritto inviolabile ai sensi dell'art. 2 della Costituzione e, in quanto tale, restringibile dall'autorità giudiziaria soltanto nella misura strettamente necessaria alle esigenze di indagine legate al compito primario concernente la repressione dei reati (v. sentt. nn. 63 del 1994, 81 del 1993, 366 del 1991 e 34 del 1973).

 

Ed è proprio per salvaguardare tale diritto costituzionale essenziale di fronte a un intervento fortemente intrusivo, come quello realizzato con le intercettazioni telefoniche, che il legislatore ha stabilito all'art. 269, comma 2, c.p.p. due principi fra loro complementari, e non già, come pretende il giudice a quo, due norme legate da un rapporto di regola (principio) a eccezione (deroga): nella prima proposizione ha disposto che le registrazioni delle intercettazioni ritenute necessarie per il procedimento debbono esser conservate fino alla sentenza non più soggetta a impugnazione (regola, questa, la quale presuppone che le parti abbiano avuto la facoltà d'interloquire, durante le fasi processuali, sulla necessarietà delle intercettazioni telefoniche rispetto al procedimento); nelle restanti proposizioni ha statuito che, per quanto riguarda le intercettazioni ritenute non necessarie per il procedimento, gli interessati possono richiederne la distruzione a tutela della loro riservatezza e, in tal caso, il giudice deve decidere con le garanzie processuali inerenti ai diritti della difesa - in particolare quella del contradittorio - previste, in ipotesi, nell'ambito del rito camerale disciplinato dall'art. 127 c.p.p..

 

La prospettata illegittimità costituzionale dell'applicabilità di tale rito all'ipotesi relativa alla istanza di distruzione delle documentazioni relative a intercettazioni telefoniche, presentata dal pubblico ministero contestualmente alla richiesta di archiviazione del procedimento, porterebbe ad accostare, sotto il profilo esaminato, questa ipotesi a quella concernente la distruzione della documentazione non più soggetta a conservazione per essere divenuta non più impugnabile la sentenza conclusiva del relativo procedimento. Ma, in realtà, l'ipotesi qui in considerazione differisce so stanzialmente da quella da ultimo menzionata.

 

Ribadito in via generale che, qualunque sia in concreto la motivazione addotta dal pubblico ministero per richiedere la distruzione della documentazione relativa alle intercettazioni telefoniche, si è comunque in presenza di ipotesi comportanti l'incisione sul diritto inviolabile alla riservatezza delle proprie comunicazioni, occorre preliminarmente rilevare che, ove non si applicasse all'ipotesi considerata il rito camerale di cui all'art. 127 c.p.p., si potrebbe verificare, come in effetti è avvenuto nel giudizio a quo, il caso di una decisione che, mentre archivia il procedi mento, rigetta l'istanza di distruzione delle intercettazioni telefoniche: in tal caso la conservazione di un materiale probatorio, acquisito con sacrificio di un diritto personale di carattere inviolabile, verrebbe disposta con una decisione ingiustificatamente svincolata dalla valutazione in contradittorio con le parti tanto del legame di necessarietà rispetto al procedimento delle intercettazioni di cui è stata richiesta la distruzione, quanto dell'incidenza della decisione stessa sulle esigenze di tutela della riservatezza degli interessati.

 

E, invero, l'interesse delle parti ad essere sentite in relazione alla richiesta del pubblico ministero di distruggere il materiale documentale relativo ad intercettazioni telefoniche, che, a giudizio dello stesso pubblico ministero, siano state effettuate senza esito positivo, dev'esser valutato soprattutto in relazione alla natura della decisione di archiviazione del procedimento: quest'ultima, a differenza della sentenza non più soggetta a impugnazione, è, per un verso, priva di stabilità nei suoi effetti, i quali sono vanificabili da un eventuale provvedimento di riapertura delle indagini, e, per altro verso, costituisce l'atto conclusivo di una fase del procedimento caratterizzata dalla segretezza delle indagini eseguite.

 

Questi elementi - considerati alla luce degli interessi costituzionali protetti, che la direttiva n. 41 contenuta nell'art. 2 della legge delega n. 81 del 1987 ha inteso salvaguardare - inducono ragionevolmente a preservare in capo alle parti il diritto di essere sentite, in applicazione dell'art. 127 c.p.p., riguardo all'eventuale utilità di uno strumento probatorio, acquisito con sacrificio della propria sfera di riservatezza, sul quale in futuro, in caso di riapertura delle indagini, potrebbe fondarsi, ad avviso delle parti medesime, un giudizio di non colpevolezza a proprio vantaggio.

 

Sotto questo profilo, l'art. 269, comma 2, ultima proposizione, c.p.p., interpretato nel senso di imporre l'applicazione del rito camerale disciplinato dall'art. 127 c.p.p. alla decisione sulla richiesta del pubblico ministero, formulata contestualmente all'istanza di archiviazione e volta alla distruzione della documentazione relativa alle intercettazioni telefoniche effettuate senza esito positivo, non risulta in contrasto con la direttiva n. 41, lettera e), contenuta nell'art. 2 della legge delega n. 81 del 1987 e, pertanto, non lede l'art. 76 della Costituzione.

 

4.- Nè può fondatamente sostenersi che, interpretata nel modo appena detto, la stessa norma comporti una violazione dell'art. 3 della Costituzione, per il fatto che creerebbe un'ingiustificata disparità di trattamento all'interno della stessa categoria di persone, quelle sottoposte ad indagini preliminari, distinguendo irragionevolmente l'ipotesi di coloro che non hanno notizia, per non aver subìto intercettazioni telefoniche, dell'archiviazione del procedimento iniziato nei loro confronti, dall'ipotesi di coloro che, essendo stati sottoposti ad intercettazioni telefoniche, vengono conseguentemente informati delle indagini avvenute a loro carico e hanno anche la possibilità di interloquire al riguardo. In proposito basta osservare che l'incisione nella sfera privata, tutelata come diritto costituzionale inviolabile, è un elemento sufficiente a giustificare il diverso trattamento delle ipotesi in cui tale incisione sia avvenuta rispetto a quelle in cui non sia occorsa, considerato che la differenziazione del trattamento è strettamente limitata alla decisione sul predetto elemento.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 269, comma 2, ultima proposizione, c.p.p., nella parte in cui impone l'applicazione del rito camerale disciplinato dall'art. 127 c.p.p. alla decisione del giudice per le indagini preliminari sulla richiesta del pubblico ministero, avanzata contestualmente all'istanza di archiviazione, volta alla distruzione della documentazione attinente a intercettazioni telefoniche, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 76 della Costituzione, dal giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Torino con l'ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15/12/94.

 

Francesco Paolo CASAVOLA , Presidente

 

Antonio BALDASSARRE, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 30/12/94.