Sentenza n.561 del 1987

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SENTENZA N. 561

ANNO 1987

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici

Dott. Francesco SAJA , Presidente

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco P. CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 10, primo comma e 22, primo comma della legge 10 agosto 1950, n. 648 (Riordinamento delle disposizioni sulle pensioni di guerra); artt. 9, primo comma e 11, primo comma della legge 18 marzo 1968, n. 313 (Riordinamento della legislazione pensionistica di guerra); artt. 1, primo comma, 8, primo comma, 11, primo comma e 83 del d.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915 (Testo unico delle norme in materia di pensioni di guerra), promosso con ordinanza emessa l'11 marzo 1981 dalla Corte dei Conti - Sez. III giurisdizionale - sul ricorso proposto da Pannozzo Maria Vincenza, iscritta al n. 653 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 33 dell'anno 1982;

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nella camera di consiglio del 28 ottobre 1987 il Giudice relatore Ugo Spagnoli;

Ritenuto in fatto

1. - A seguito degli esiti della violenza carnale patita da parte di tre soldati marocchini il 22.5.1944, la signora M.V. Pannozzo, otteneva, a far tempo dal 1.9.1949 e per la durata di due anni, un assegno di guerra rinnovabile di ottava categoria. Con istanza del 17.3.1966 la medesima presentò istanza di aggravamento della infermità già indennizzata. Avendo la prevista visita medica accertato la inesistenza di esiti in atto della allegata violenza carnale, il Ministero del Tesoro respinse la domanda di aggravamento. Contro tale provvedimento l'interessata propose ricorso alla Corte dei Conti, Sez. III giurisdizionale, la quale ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., degli artt. 10, 22, primo comma, l. n. 648 del 1950; 9, 11, primo comma, l. n. 313 del 1968; 1, primo comma, 8, primo comma, 11, primo comma, 83 d.P.R. 23.12.1978, n. 915 (T.U. delle norme in materia di pensioni di guerra), nella parte in cui non prevedono il risarcimento del danno morale nei confronti di cittadini vittime di violenza carnale in occasione di operazioni belliche.

Le disposizioni impugnate conferiscono il diritto al trattamento pensionistico di guerra, oltre che alle famiglie dei morti, anche ai cittadini italiani divenuti invalidi "per qualsiasi fatto di guerra che sia stato la causa violenta, diretta ed immediata della invalidità" (l. n. 648 del 1950, art. 10, primo comma) e cioé per fatto avvenuto ad opera di forze armate nazionali o estere, alleate o nemiche, anche se soltanto "occasionato" dalle operazioni belliche (art. 10, secondo comma), precisando poi (art. 22, primo comma) che tale trattamento consiste in un assegno rinnovabile o nella pensione vitalizia a seconda che la "menomazione dell'integrità personale" causa dell'invalidità (e di cui alle allegate tabelle) sia o meno suscettibile col tempo di modificazione. Delle altre norme impugnate, gli artt. 9, 11, primo comma, l. n. 313 del 1968, e gli artt. 8, primo comma e 11, primo comma T.U. n. 915 del 1978, reiterano, con formule pressoché identiche, questa disciplina, mentre l'art. 83 del T.U. del 1978 dispone che con l'adozione delle norme pensionistiche di guerra si ritiene regolato qualsiasi diritto verso lo Stato, tra l'altro, di tutti coloro che abbiano contratto invalidità per fatto di guerra.

2. - La Corte dei Conti premette che la questione sollevata é rilevante nel giudizio a quo, e ciò in quanto - sia per le caratteristiche peculiari della propria giurisdizione pensionistica, sia per la operatività dell'istituto della rivalutazione (art. 53, terzo comma, l. n. 648 del 1950 e succ. modif.) - essa Corte può, nel giudizio in tema di aggravamento, riconoscere diritti maggiori di quelli richiesti, o negare l'esistenza stessa del titolo della domanda (artt. 112 l. n. 648/1950; 108, l. n. 313/1968; 114 T.U. n. 915 del 1978).

3. - Nel motivare la non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo, osserva che, in applicazione dei principi vigenti in materia di trattamenti privilegiati di guerra, in cui non opera il criterio del pretium doloris, ma soltanto quello della riduzione della capacità lavorativa, (art. 1 d.P.R. n. 915 del 1978), la violenza carnale che non abbia prodotto menomazioni fisiche tali da comportare tale riduzione resterebbe priva di qualsiasi rilievo. Di qui la violazione dell'art. 2 Cost., che - imponendo anche allo Stato doveri inderogabili di solidarietà economica, nel contesto di una norma dettata a garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo - sarebbe inteso, al contrario, a portare a compimento quel processo di dilatazione della tutela risarcitoria dei danni non patrimoniali, di cui, attualmente, all'art. 185 c.p. ed alle correlate norme del codice civile.

Le norme impugnate, inoltre, escludono la risarcibilità del danno non patrimoniale proprio in relazione ad un fatto che l'ordinamento penale considera reato, e per il quale é conseguentemente ammessa la possibilità di risarcimento del danno non patrimoniale patito dalla persona offesa.

Peraltro, la violenza carnale commessa in occasione di operazioni belliche non cesserebbe per ciò solo di essere un reato. Quindi le norme pensionistiche di guerra, prescindendo dalla configurazione come tale della violenza medesima, e considerandola come mero fatto causativo di una menomazione all'integrità fisica - con l'effetto di escludere perciò la possibilità di risarcimento del danno non patrimoniale discendente dalla lesione della "più intima ed essenziale dignità e nobiltà dell'uomo" - confliggerebbero non solo con l'art. 2 Cost., ma anche con l'art. 3, perché porrebbero le vittime della violenza carnale consumata in occasione di fatti bellici in una situazione ingiustamente deteriore rispetto a coloro che a tale violenza soggiacciono in circostanze nelle quali l'ordinamento statuale funziona normalmente, e nelle quali é consentito loro di utilizzare gli ordinari strumenti di tutela dei propri interessi. Per altro verso, le stesse norme colliderebbero con il medesimo art. 3 Cost. perché, prevedendo per il fatto di guerra un identico criterio risarcitorio, irrazionalmente parificherebbero la situazione delle vittime di violenza carnale con quella delle vittime di altre menomazioni dell'integrità fisica, in cui siano coinvolti valori assai meno rilevanti di quelli spirituali e materiali insiti nel danno prodotto dalla prima, specie nella valutazione del tempo in cui essa fu commessa;

4. - Nel giudizio così instaurato il Presidente del Consiglio dei ministri non é intervenuto, né si é costituita la parte privata;

Considerato in diritto

1. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte dei Conti sez. III giurisdizionale, dubita, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., della legittimità costituzionale di talune disposizioni delle leggi, succedutesi nel tempo, in materia di pensioni di guerra, e precisamente degli artt. 10, primo comma e 22 della legge 10 agosto 1950, n. 648; 9, primo comma e 11 della legge 18 marzo 1968, n. 313; 1, 8, primo comma, 11 e 83 del d.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915; e ciò in quanto tali disposizioni prevedono: a) che "la pensione, assegno o indennità di guerra" siano dovute solo a "coloro che, a causa della guerra, abbiano subìto menomazioni nell'integrità fisica" (art. 1 d.P.R. n. 915 cit.); b) che "Sono conferite pensioni, assegni o indennità di guerra, ai cittadini italiani divenuti invalidi... per qualsiasi fatto di guerra che sia stato la causa violenta, diretta ed immediata dell'invalidità" (art. 10 l. n. 648 del 1950, riprodotto con variazioni solo formali negli artt. 9 l. n. 313 del 1968 e 8 d.P.R. n. 915 del 1978) e - a specificazione di ciò - che tali trattamenti spettino solo a chi abbia "subìto menomazione della integrità personale ascrivibile ad una delle categorie di cui all'annessa tabella A" o "contemplate nell'allegata tabella B" (art. 22 l. n. 648 del 1950, sostanzialmente riprodotto negli artt. 11 l. n. 313 e 11 d.P.R. n. 915 citati); c) che "con le norme emanate in materia di pensione di guerra si intende regolato qualsiasi diritto verso lo Stato di tutti coloro che, per causa di servizio di guerra o attinente alla guerra o per fatto di guerra, abbiano riportato ferite o contratto infermità..." (art. 83 d.P.R. n. 915 cit.).

Come specificato in narrativa, nel caso oggetto del giudizio principale alla ricorrente, vittima nel 1944 di violenza carnale ad opera di tre soldati marocchini, era stato prima concesso un assegno di guerra rinnovabile per infermità conseguita a tale violenza e poi respinta l'istanza di aggravamento per l'insussistenza di esiti di essa.

Il giudice a quo lamenta che il trattamento pensionistico di guerra sia, in virtù delle disposizioni impugnate, limitato ai soli casi di menomazioni fisiche comportanti una riduzione della capacità lavorativa, e che sia perciò escluso il risarcimento dei danni non patrimoniali patiti dalle vittime di violenze carnali consumate in occasione di fatti bellici. Si chiede, cioè, alla Corte di decidere se, alla stregua delle disposizioni costituzionali invocate, la violenza carnale in quanto tale - a prescindere cioè dalle lesioni o infermità che ne siano eventualmente conseguite - debba o meno dare titolo al risarcimento dei danni non patrimoniali.

2. - La questione é fondata.

La violenza carnale costituisce invero, nell'ordinamento giuridico penale, la più grave violazione del fondamentale diritto alla libertà sessuale. Essendo la sessualità uno degli essenziali modi di espressione della persona umana, il diritto di disporne liberamente é senza dubbio un diritto soggettivo assoluto, che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l'art. 2 Cost. impone di garantire.

Da tale qualificazione discendono precise conseguenze circa l'estensione della tutela accordata dall'ordinamento alle lesioni della libertà sessuale assoggettate a sanzione penale.

Pronunciandosi in ordine al risarcimento del danno non patrimoniale - inteso come "ogni danno non suscettibile direttamente di valutazione economica" - dovuto in conseguenza delle violazioni, penalmente sanzionate, di un diritto anch'esso oggetto di diretta tutela costituzionale, e cioé del diritto alla salute, questa Corte ha precisato che "dalla protezione primaria accordata dalla Costituzione" a tale diritto "come a tutte le altre posizioni soggettive a contenuto essenzialmente non patrimoniale, direttamente tutelate" "deriva che la indennizzabilità non può essere limitata alle conseguenze della violazione incidenti sull'attitudine a produrre reddito ma deve comprendere anche gli effetti della lesione al diritto, considerato come posizione soggettiva autonoma, indipendentemente da ogni altra circostanza e conseguenza" (sent. n. 88 del 1979).

Più di recente, poi, e sempre a proposito del danno alla salute, la Corte ha ulteriormente precisato, nella sentenza n. 184 del 1986, le conseguenze che discendono dalla diretta protezione costituzionale di un diritto primario. In tale decisione si é chiarito che la lesione del bene giuridico della salute, in quanto valore personale garantito dalla Costituzione (art. 32) dà di per sé titolo - anche quando consegua non ad un reato, ma ad un mero illecito civile (art. 2043 c.c.) - al risarcimento del danno derivante dalla menomazione dell'integrità psico-fisica in cui essa si concreta (c.d. danno biologico), senza che occorra al riguardo alcuna prova; e che tale danno é autonomo, ed anzi costituisce un prius rispetto alle eventuali ulteriori conseguenze del fatto illecito, e cioè sia rispetto al danno patrimoniale in senso stretto, incidente sulla capacità di produrre reddito lavorativo, sia rispetto al danno morale subiettivo (o non patrimoniale), risarcibile nel vigente ordinamento solo in quanto derivi da reato.

Ad analoghi principi deve ritenersi ispirata la tutela risarcitoria della libertà sessuale, in virtù della già precisata collocazione di essa tra i diritti inviolabili garantiti dall'art. 2 Cost.

La violenza carnale comporta invero, di per sé, la lesione di fondamentali valori di libertà e dignità della persona, e può inoltre dar luogo a pregiudizi alla vita di relazione. Tali lesioni hanno autonomo rilievo sia rispetto alle sofferenze ed ai perturbamenti psichici che la violenza carnale naturalmente comporta, sia rispetto agli eventuali danni patrimoniali a questa conseguenti: e la loro riparazione é doverosa, in quanto i suddetti valori sono, appunto, oggetto di diretta protezione costituzionale.

3. - Alla descritta ampiezza della tutela della libertà sessuale nell'ordinamento civilistico fa riscontro l'assenza di qualsiasi tutela nell'ambito dell'ordinamento pensionistico di guerra, nel quale il risarcimento (o meglio, l'indennizzo) per fatto bellico é rigidamente circoscritto - in base alle norme impugnate - ai soli danni patrimoniali conseguenti all'invalidità, ed in cui, quindi, la violenza carnale é considerata solo per gli esiti puramente eventuali (infermità o lesioni) e non anche per quelli tipici (violazione della libertà sessuale e correlativi danni morali).

Ora, tra i fatti di guerra contemplati da tale ordinamento, la violenza carnale ad opera di militari stranieri presenta aspetti del tutto peculiari. Si tratta, infatti, da un lato dell'aggressione ad una libertà che, diversamente da altre, non é suscettibile di compressione per effetto dello stato di guerra; dall'altro di un fatto che, esulando dalle operazioni belliche, conserva anche in questo contesto il carattere di delitto. Ciononostante, essa resta concretamente non perseguibile, sicché la rilevata carenza di tutela risarcitoria nell'ordinamento pensionistico sta a fronte di una carenza di tutela penale e (conseguentemente) risarcitoria durante lo stato di guerra.

Un tale risultato non sembra alla Corte conseguenza ineluttabile dei principi ispiratori dell'ordinamento in questione. Il trattamento pensionistico é invero "atto risarcitorio, di doveroso riconoscimento e di solidarietà da parte dello Stato" (art. 1 d.P.R. n. 915 cit.) nei confronti delle vittime della guerra: é, cioè, estrinsecazione di un principio solidaristico.

Ora, che questo non concerna solo le conseguenze economiche dei fatti bellici é dimostrato, ad es., dalla normativa concernente i superstiti: la quale attribuisce la pensione alla vedova, al vedovo ed al genitore che abbia perduto più figli ovvero l'unico figlio (artt. 37, 55, 62 e 64 d.P.R. n. 915 cit.) prescindendo dalle loro condizioni economiche - tant'é che alla vedova che versi in stato di bisogno é attribuita una maggiorazione (art. 39) - ed assimila alla vedova colei con cui risulti che il militare o civile deceduto per causa di guerra intendeva coniugarsi (art. 37 cit.).

In tali situazioni l'atto risarcitorio é indubbiamente, almeno in parte, pretium doloris, ed é perciò singolare - pur fatte le debite differenze - che il danno non patrimoniale non trovi riconoscimento se patito dalla vittima di violenza carnale; né meno singolare - atteso il favore con cui la Costituzione considera la tutela della persona umana rispetto al trattamento fatto alle situazioni a contenuto economico - é che la tutela risarcitoria sia assente nella fattispecie in esame e sia viceversa assicurata per i danni alle cose, attraverso la normativa sui danni di guerra.

Né a giustificare la carenza denunciata può valere l'ovvia considerazione che lo Stato non può essere tenuto responsabile del fatto delittuoso di militari stranieri: ciò spiega le peculiari caratteristiche del risarcimento corrisposto mediante i trattamenti pensionistici, ma non dà ragione né delle rilevate disarmonie, né, soprattutto, del fatto che il principio solidaristico non operi proprio nei confronti di uno di quei diritti inviolabili in relazione ai quali l'art. 2 Cost. richiede l'adempimento di doveri inderogabili di solidarietà economica.

A tal proposito, e conclusivamente, non può che ribadirsi qui quanto già affermato nella citata sentenza n. 184 del 1986: e cioè che "Quand'anche si sostenesse che il riconoscimento, in un determinato ramo dell'ordinamento, d'un diritto subiettivo non esclude che siano posti limiti alla sua tutela risarcitoria (disponendosi ad esempio che non la lesione di quel diritto, per sé, sia risarcibile ma la medesima purché conseguano danni di un certo genere) va energicamente sottolineato che ciò, in ogni caso, non può accadere per i diritti e gli interessi dalla Costituzione dichiarati fondamentali".

Va pertanto dichiarata l'illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate, nella parte in cui non prevedono un trattamento pensionistico di guerra che indennizzi i danni anche non patrimoniali patiti dalle vittime di violenze carnali consumate in occasione di fatti bellici. Restano con ciò assorbite le censure prospettate in riferimento all'art. 3 Cost..

Accertato così il diritto della ricorrente nel giudizio principale al conseguimento del trattamento pensionistico di guerra, spetterà all'Autorità competente esclusivamente l'individuazione della categoria corrispondente ai sensi di legge.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

Dichiara l'illegittimità costituzionale degli artt. 10, primo comma e 22 della legge 10 agosto 1950, n. 648; 9, primo comma e 11 della legge 18 marzo 1968, n. 313; 1, 8, primo comma, 11 e 83 del d.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915, nella parte in cui non prevedono un trattamento pensionistico di guerra che indennizzi i danni anche non patrimoniali patiti dalle vittime di violenze carnali consumate in occasione di fatti bellici.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 dicembre 1987.

 

Il Presidente: SAJA

Il Redattore: SPAGNOLI

Depositata in cancelleria il 18 dicembre 1987.

Il direttore della cancelleria: MINELLI