Sentenza n. 175 del 1971

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SENTENZA N. 175

ANNO 1971

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI,

ha pronunciato la seguente   

SENTENZA 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 151 e 596 del codice penale, 152, 591 e 592 del codice di procedura penale, nonché della legge di delegazione 21 maggio 1970, n. 282, e del relativo d.P.R. 22 maggio 1970, n. 283 (concessione di amnistia e di indulto), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 26 maggio 1970 dal pretore di Chieri nel procedimento penale a carico di Ferrati Aldo ed altro, iscritta al n. 200 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 170 dell'8 luglio 1970;

2) ordinanza emessa il 27 maggio 1970 dal tribunale di Milano nel procedimento penale a carico di Buttafava Vittorio ed altri, iscritta al n. 235 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 235 del 16 settembre 1970;

3) ordinanze emesse il 29 luglio 1970 dal pretore di Padova e il 26 giugno 1970 dal tribunale di Milano nei procedimenti penali rispettivamente a carico di Mengato Paolo e di Bizzi Ives ed altro, iscritte ai nn. 254 e 271 del registro ordinanze 1970 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 254 del 7 ottobre 1970;

4) ordinanze emesse il 25 giugno 1970 dal tribunale di Milano e il 27 maggio 1970 dal pretore di Civitanova Marche nei procedimenti penali rispettivamente a carico di Zanetti Gualtiero e di Perticarà Vincenzo, iscritte ai nn. 282 e 286 del registro ordinanze 1970 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 267 del 21 ottobre 1970;

5) ordinanza emessa il 23 luglio 1970 dal pretore di Pietrasanta nel procedimento penale a carico di Lombardi Enzo, iscritta al n. 327 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 299 del 25 novembre 1970;

6) ordinanze emesse il 16 giugno 1970 dal pretore di Roma e il 30 luglio 1970 dal pretore di Modena nei procedimenti penali rispettivamente a carico di Cavicchioli Luigi e di Conte Salvatore, iscritte ai nn. 337 e 342 del registro ordinanze 1970 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 311 del 9 dicembre 1970;

7) ordinanza emessa il 15 ottobre 1970 dal pretore di Napoli nel procedimento penale a carico di Parco Ada e Saracco Cesare, iscritta al n. 355 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 324 del 23 dicembre 1970;

8) ordinanze emesse il 3 ottobre 1970 dal tribunale di Velletri e il 1 giugno 1970 dal tribunale di Milano nei procedimenti penali rispettivamente a carico di Atzeni Antonio, di Allegri Renzo ed altro e di Caviglione Giacomo, iscritte ai nn. 360, 362 e 363 del registro ordinanze 1970 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 329 del 30 dicembre 1970;

9) ordinanza emessa il 25 giugno 1970 dal pretore di Chieri nel procedimento penale a carico di Mosso Anna, iscritta al n. 361 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22 del 27 gennaio 1971;

10) ordinanza emessa il 30 ottobre 1970 dal pretore di Pietrasanta nel procedimento penale a carico di Guidoni Giovanni ed altri, iscritta al n. 374 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35 del 10 febbraio 1971;

11) ordinanza emessa il 27 giugno 1970 dal pretore di Torino nel procedimento penale a carico di Sette Nicola, iscritta al n. 7 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49 del 24 febbraio 1971;

12) ordinanza emessa il 29 ottobre 1970 dal pretore di Roma nel procedimento penale a carico di Malucelli Dario, iscritta al n. 44 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 74 del 24 marzo 1971.

Visti gli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e di costituzione di Greco Elena, Ergas Moris, Parco Ada, Saracco Cesare, Mancini Giacomo - parte civile nel procedimento penale a carico di Buttafava Vittorio ed altri - e società Pezziol - parte civile nel procedimento penale a carico di Mosso Anna;

udito nell'udienza pubblica del 16 giugno 1971 il Giudice relatore Costantino Mortati;

uditi gli avvocati Giuliano Vassalli e Renzo Provinciali, per Greco Elena, l'avv. Augusto Addamiano, per Moris Ergas, l'avv. Luigi De Luca, per la società Pezziol, ed i sostituti avvocati generali dello Stato Franco Casamassima e Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.  

Ritenuto in fatto 

  1. - Nel corso del procedimento penale contro Ferrati Aldo e Tollardo Bortolo, imputati di omissione di referto, compreso, tanto per i riferimenti temporali quanto per quelli obiettivi e subiettivi, nell'ambito di operatività dell'amnistia concessa col decreto presidenziale 22 maggio 1970, n. 283, il pretore di Chieri, con ordinanza in data 26 maggio 1970, ha sollevato d'ufficio questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 del decreto stesso e dell'art. 5 della legge di delegazione 21 maggio 1970, n. 282, in riferimento agli artt. 3 e 79 della Costituzione.

Nel provvedimento egli osserva che, seppure l'art. 79 della Costituzione esplicitamente legittima la decorrenza degli effetti dell'amnistia da una data determinata dal legislatore e la conseguente deroga al principio di eguaglianza, tale deroga sembra riguardare soltanto le amnistie ricollegate a situazioni eccezionali (quali quelle determinate dallo stato di guerra, da gravi conflitti sociali, da crisi economiche, da calamità naturali) e non anche le amnistie "celebrative" applicabili ad una generalità di reati. Di conseguenza, con riferimento alle disposizioni impugnate, mentre deve ritenersi legittima l'amnistia "particolare e sindacale" di cui all'art. 1, appare invece incostituzionale l'amnistia "generale" di cui all'art. 5, la quale determina una ingiustificata disparità di trattamento fra i responsabili dei reati commessi prima o dopo il 6 aprile 1970.

Il vincolo della rilevanza impone al pretore di limitare la sua denuncia all'art. 5 suddetto, ma egli esplicitamente invita la Corte costituzionale ad estendere l'eventuale dichiarazione d'illegittimità costituzionale alle altre norme della legge di delegazione e del decreto presidenziale in tema di amnistia generale e di indulto, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87.

Avanti la Corte costituzionale é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato come per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, che nel suo atto d'intervento ha concluso per l'infondatezza della questione.

A sostegno del suo assunto l'Avvocatura sottolinea - richiamandosi anche alla sentenza di questa Corte n. 171 del 1963 - come il fatto che un reato sia stato commesso in un momento anziché in un altro é già un elemento differenziale che può giustificare, ai fini del rispetto dell'art. 3 della Costituzione, l'applicabilità all'uno e non all'altro del provvedimento di clemenza.

L'interpretazione dell'art. 79, Cost., proposta dal pretore, secondo la quale l'amnistia sarebbe riservata a circostanze eccezionali con esclusione di ogni funzione meramente celebrativa, sarebbe inoltre inaccettabile poiché si fonderebbe esclusivamente su valutazioni di carattere politico sottratte a qualunque sindacato della Corte.

  1. - Nel corso del procedimento penale per diffamazione a mezzo della stampa contro Buttafava Vittorio e altri il tribunale di Milano, con ordinanza 27 maggio 1970, dopo avere respinto l'eccezione di incostituzionalità sollevata dal patrono della parte civile Greco, dell'art. 5, lettera d, del d.P.R. n. 282 del 1970 per violazione dell'art. 3 della Costituzione nella parte in cui discrimina i querelanti per diffamazione a seconda che abbiano effettuato la concessione della facoltà di prova prima o dopo l'intervento del decreto di amnistia, nella considerazione che ogni concessione di amnistia importa di necessità distinzioni di ordine temporale fra i fatti che ne sono oggetto, ha sollevato d'ufficio questione di legittimità dell'art. 596, primo comma, del codice penale, in relazione all'art. 21 Cost., nonché del citato art. 5 per violazione dell'art. 3, perché opera un'ingiustificata diversità di trattamento secondo che vi sia stata o non la formale domanda del querelante, di cui all'art. 596, n. 3, del codice penale. E dal momento che il diritto di provare la verità dei fatti trova la sua base nella garanzia costituzionale del diritto di cronaca e non nella richiesta della parte offesa, osserva in ordine alla rilevanza della questione sollevata, come tutte le imputazioni ad esso sottoposte riguardano articoli giornalistici che potrebbero eventualmente ritenersi esercizio del diritto di cronaca e che per alcuni di essi sia stata ab initio concessa facoltà di prova, mentre per altri essa sia stata concessa tardivamente.

Nel procedimento avanti la Corte costituzionale é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, il quale ha concluso per l'infondatezza della questione, e si sono costituiti il signor Moris Ergas, col patrocinio degli avvocati Addamiano, Promontorio e Sarno, il quale ha concluso per l'inammissibilità della questione e, in subordine, per la sua infondatezza; ed altresì la signora Elena Greco in De Lollis, col patrocinio degli avv. prof. Pisapia, Provinciali e Vassalli, la quale ha concluso invece per l'incostituzionalità della norma impugnata o in subordine, per la pronuncia di una sentenza interpretativa di rigetto; ed infine l'on. Giacomo Mancini, col patrocinio degli avvocati Gullo e Striano, il quale si é riservato di dedurre oralmente.

Nell'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri si ricorda innanzi tutto come la Corte di cassazione abbia affermato in numerose pronunce il principio che il diritto di cronaca costituisce espressione del fondamentale diritto dei cittadini alla libera manifestazione del pensiero, per cui la cronaca giornalistica é sempre lecita, e quindi causa di esclusione della punibilità ai sensi dell'art. 51 del codice penale, alle sole condizioni che la notizia sia vera o quanto meno seriamente accertata, che sussista un interesse pubblico alla sua diffusione e che la cronaca sia mantenuta nei limiti di continenza delle notizie pubblicate rispetto al tema della pubblicazione. Perciò l'imputato di diffamazione a mezzo stampa può sempre dimostrare la sussistenza di tali condizioni anche se il querelante non abbia esplicitamente chiesto la prova della verità dei fatti addebitatigli.

Sulla base di questa ormai consolidata interpretazione, la questione di costituzionalità dell'art. 596 del codice penale, in riferimento all'art. 21 Cost., risulta infondata, ed infondata appare altresì la questione proposta nei confronti dell'art. 5, lett. d, della legge di delegazione in riferimento all'art. 3 Cost., dal momento che questa norma giustificatamente tutela l'interesse delle parti offese a vedere accertata la falsità delle accuse loro rivolte.

La difesa del signor Moris Ergas invece, pur muovendo da analoghi presupposti, perviene alla conclusione che la questione é inammissibile per irrilevanza rispetto al giudizio a quo. Infatti, soltanto ove gli imputati dichiarassero di aver agito nell'esercizio del diritto di cronaca diverrebbe necessario stabilire se l'art. 596 del codice penale sia o meno incostituzionale, mentre l'ordinanza del tribunale prospetta tale ipotesi come solo eventuale. D'altronde, ove in definitiva gli imputati risultassero in grado di reclamare l'applicazione dell'esimente, tutti potrebbero provare la verità dei fatti e la questione di costituzionalità sarebbe anche in questo caso irrilevante.

La difesa della signora Elena Greco motiva invece le suindicate conclusioni sottolineando come siano insostenibili tanto il sistema di rimettere alla volontà del querelante l'exceptio veritatis anche nei casi in cui dalla prova della verità discenda l'affermazione dell'esistenza di un diritto costituzionalmente garantito, quanto il sistema di interdire con un decreto di amnistia la concessione di tale prova liberatoria concedendola o vietandola a seconda dei momenti temporali in cui sia effettuata, che pure in via generale sono tutti validi a fondare l'esercizio del diritto relativo, dando così luogo a grave e ingiustificata discriminazione.

Ricordato che l'affermazione del diritto di cronaca quale esimente del reato di diffamazione a mezzo stampa non é cosi pacifica in dottrina ed in giurisprudenza come dedotto ex adverso, la difesa della Greco chiede in primo luogo che la Corte con sentenza interpretativa di rigetto avalli l'orientamento della Cassazione nel senso di ritenere inclusa nell'art. 596 una ulteriore espressa ipotesi di prova liberatoria, o ne dichiari la parziale illegittimità in quanto non concede tale prova pel caso di esercizio del diritto di cronaca. Chiede inoltre che si dichiari fondata la questione dell'art. 5, lett. d, della legge n. 282, per la preclusione che oppone alla non applicabilità dell'amnistia quando la facoltà di prova sia concessa dopo l'emanazione della legge citata, dato che l'esercizio della facoltà stessa nasce da una norma costituzionale. Queste argomentazioni sono ulteriormente svolte nella memoria 1 giugno 1971, nella quale si mette in rilievo come il decreto d'amnistia tassativamente fa salve solo le ipotesi del terzo comma dell'art. 596 c.p. e quindi, per effetto dell'art. 152 dello stesso codice, preclude che si tenga conto della situazione dell'imputato pel quale non ricorre nessuna di dette ipotesi, e ciò in contrasto con il diritto della libertà di stampa e con il principio di eguaglianza, nella misura in cui istituisce una disparità di trattamento tra imputati ai quali la persona offesa conceda ed imputati ai quali la persona offesa non conceda la facoltà di prova liberatoria.

Quanto alla rilevanza osserva che l'invocazione del diritto di cronaca non corrisponde ad un'eventualità, dato che vi é certezza della sua validità per quanto riguarda i giornalisti incriminati e ciò é sufficiente per poter richiedere una pronuncia di merito sulla questione, tanto più tenendo presente che, come risulta dall'ordinanza, in tutti i procedimenti e da tutte le persone offese é stata concessa la facoltà di prova. Insiste nelle conclusioni già prese.

  1. - Diversa é la questione sollevata dal pretore di Padova con l'ordinanza in data 29 luglio 1970 nel corso del procedimento penale contro Mengato Paolo, la quale impugna gli artt. 592 e 152, capoverso, codice di procedura penale, "nella parte in cui impediscono, in costanza di amnistia, al giudice, di assumere prove che rendano evidente l'insussistenza del fatto e la non commissione del medesimo da parte dell'imputato e di prosciogliere con la formula prescritta a seguito del convincimento scaturito dalle prove posteriori al provvedimento di clemenza, perché in presunto contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione".

In questo giudizio il difensore dell'imputato aveva proposto delle prove a discarico che, a suo avviso, avrebbero potuto portare al proscioglimento per insussistenza del fatto o almeno per mancata partecipazione dell'imputato al fatto medesimo ed aveva chiesto che, sulla base di una interpretazione liberale degli artt. 592 e 152, secondo comma, del codice di procedura penale, si provvedesse all'assunzione di tali prove, sollevando, per l'opposta eventualità, questione di legittimità costituzionale di tali disposizioni, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.

Il pretore ha ritenuto di non poter adottare l'interpretazione richiesta ed ha sollevato la suddetta questione di legittimità costituzionale.

Nessuno si é costituito, né é intervenuto in questo giudizio.

  1. - L'ordinanza 26 giugno 1970, pronunciata dal tribunale di Milano nel corso del procedimento penale contro Bizzi Ives e Caviglione Giacomino, si richiama esplicitamente a quella dello stesso tribunale precedentemente ricordata. Nella motivazione si precisa che con essa "non si é inteso impugnare l'art. 596, n. 3, del codice penale, il quale mantiene una sua indubbia operatività nelle materie estranee al diritto di cronaca, bensì il richiamo allo stesso nel d.P.R. citato, nella misura in cui ponga una discriminazione fra casi identici di fronte al diritto di cronaca, secondo sia stata o meno proposta dal querelante una formale domanda, che in quest'ambito sarebbe priva di significato pratico e giuridico, avendo riguardo a una facoltà di prova spettante comunque in base all'art. 21 della Costituzione".

Nel giudizio avanti la Corte costituzionale é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, il quale ha svolto argomentazioni identiche a quelle viste a proposito dell'altra ordinanza.

  1. - L'ordinanza in data 25 giugno 1970 del tribunale di Milano, pronunciata nel corso del procedimento penale a carico del direttore della "Gazzetta dello Sport", Gualtiero Zanetti, propone invece una questione diversa da quelle sollevate con le altre ordinanze dello stesso tribunale e sostanzialmente identica a quella introdotta dal pretore di Padova col provvedimento sopra ricordato, anche se formalmente l'impugnazione viene qui riferita agli artt. 591 e 592, codice di procedura penale, e come norma di raffronto viene indicato il solo art. 24 della Costituzione.

Anche in questo giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, il quale ha concluso per l'infondatezza della questione affermando che l'amnistia propria costituisce una rinuncia dello Stato alla pretesa punitiva ed ha natura di abolitio criminis che opera sul fatto-reato sin dal momento della sua emanazione. Verificatesi le condizioni di operatività dell'amnistia, si estingue la rilevanza penale del fatto e quindi non vi é più luogo a parlare di diritto di difesa, essendo questo concepibile solo in correlazione ad una pretesa punitiva dello Stato che in questo caso più non sussiste.

Il divieto di ulteriori indagini discende pertanto dalla natura stessa dell'istituto dell'amnistia e non può perciò violare le norme della Costituzione che tale istituto ha recepito.

  1. - Diversa dalle precedenti é anche la questione, sollevata dal pretore di Civitanova Marche nel corso del procedimento penale contro Perticarà Vincenzo, con l'ordinanza in data 27 maggio 1970. In essa si impugnano "l'art. 151 del codice penale e la legge 21 maggio 1970, n. 282, e conseguente decreto del Presidente della Repubblica, nella parte in cui privano l'imputato del potere di ricusare o di rifiutare l'applicazione dell'amnistia propria, in relazione agli artt. 24, commi primo e secondo, e 3 della Costituzione repubblicana".

Nella motivazione di questo provvedimento si segnala come l'applicazione automatica del beneficio dell'amnistia determini una situazione pregiudizievole per l'imputato perché lascia sussistere il dubbio circa l'avvenuta commissione del reato e circa la colpevolezza di lui, con conseguenze sul piano morale e giuridico (tra cui l'impossibilità di ripetere dal querelante le spese del giudizio), che si traduce in una violazione del diritto di difesa, inteso, non già nel senso meramente formale di garanzia dell'assistenza di un difensore, ma anche come diritto di ottenere una sentenza che riconosca, se del caso, la propria innocenza. Il pretore sottolinea quindi la disparità di trattamento che deriva dalla irrinunciabilità dell'amnistia del 1970 rispetto ad altre precedenti, in relazione alle quali la rinuncia era stata ammessa, e rispetto alla remissione della querela che é operante soltanto se accettata dall'imputato.

Anche in questo giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, il quale ha concluso per l'infondatezza della questione. Ricordate le sentenze di questa Corte n. 171 del 1963 e n. 52 del 1968, l'Avvocatura osserva che l'art. 151, codice penale, ha carattere assolutamente generale e sembra perciò fuori causa, mentre le norme del decreto di amnistia non sono incostituzionali perché la previsione costituzionale di questo istituto consente al legislatore di renderla, a sua discrezione, rinunciabile o meno.

  1. - La questione proposta dal pretore di Pietrasanta con l'ordinanza 23 luglio 1970, pronunciata nel corso del procedimento penale contro Lombardi Enzo, concerne esclusivamente la determinazione del limite finale del periodo di tempo cui l'amnistia deve essere applicata, fissato dall'art. 11 della legge n. 282 e del decreto presidenziale n. 283, del 6 aprile 1970, nonostante che una proposta di legge d'iniziativa parlamentare per la concessione di amnistia fosse stata presentata il 3 febbraio 1970.

A conclusione di una dettagliata analisi delle due proposte di legge e dei relativi lavori parlamentari, dalla quale trae il convincimento che esse, seppur non identiche, erano quanto meno analoghe, il pretore denuncia, in riferimento all'art. 79, secondo comma, della Costituzione, l'art. 11 suddetto nella parte in cui estende gli effetti dell'amnistia ai reati commessi successivamente al 3 febbraio 1970.

Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto avanti la Corte costituzionale, ha concluso per l'infondatezza della questione assumendo che l'eventuale coincidenza letterale dei due testi non può valere come prova dell'avvenuta confluenza della proposta d'iniziativa parlamentare depositata il 3 febbraio 1970 nel disegno di legge presentato il 5 maggio successivo, dato che quest'ultimo aveva una portata molto più ampia della prima.

Inoltre l'Avvocatura osserva che il termine del 6 aprile 1970 riguarda in pratica solo i reati comuni (quelli cioè cui si riferisce la parte innovativa del disegno di legge governativo), poiché la previsione dei reati sindacali, ecc. concerne i fatti dell'"autunno caldo" che si erano già esauriti ben prima del 3 febbraio 1970.

  1. - Simile a quella proposta con l'ordinanza del pretore di Padova sopra ricordata é la prima delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal pretore di Roma con l'ordinanza 16 giugno 1970, pronunziata nel corso del procedimento penale a carico di Cavicchioli Luigi. Richiamandosi, tra l'altro, alla motivazione della sentenza n. 171 del 1963 della Corte costituzionale, questo giudice impugna infatti gli artt. 152, capoverso, e 592, capoverso, del codice di procedura penale, nelle parti in cui precludono al giudice l'acquisizione di nuove prove, ai fini del proscioglimento nel merito dell'imputato di un reato estinto per amnistia, in riferimento all'art. 24, capoverso, Cost.

In via subordinata a tale questione - dopo avere dichiarato manifestamente infondata l'altra relativa al preteso contrasto tra l'art. 592 del codice di procedura penale e l'art. 27, capoverso, della Costituzione - il pretore impugna altresì, in riferimento allo stesso precetto costituzionale, il decreto presidenziale n. 283, nella parte in cui non prevede la rinuncia all'amnistia da parte dell'imputato (con impostazione analoga a quella della ricordata ordinanza del pretore di Civitanova Marche). Richiamata la sentenza di questa Corte n. 52 del 1968, il pretore discute intorno alla natura della rinuncia e conclude che, in attuazione del diritto di difesa inteso in senso ampio, una volta iniziata l'azione penale é doveroso lasciare al prevenuto la possibilità di ottenere un accertamento completo della propria innocenza (come del resto é previsto per il caso di remissione della querela, la cui operatività é subordinata all'accettazione dell'imputato).

Anche in questo giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri per chiedere che la questione sia dichiarata infondata sulla base di argomentazioni simili a quelle viste in relazione all'ordinanza del pretore di Civitanova Marche.

  1. - Aspetti comuni rispetto al provvedimento del pretore di Chieri ricordato al principio presenta invece l'ordinanza 30 luglio 1970 con la quale il pretore di Modena ha denunciato l'art. 5 del decreto presidenziale n. 283, concernente l'amnistia "generale", differenziandosene tuttavia per il fatto di indicare come norme di raffronto, anziché gli artt. 3 e 79, gli artt. 3 e 27 della Costituzione.

Secondo il pretore di Modena, la funzione rieducativa della pena, postulata dall'art. 27 Cost., dovrebbe potersi esplicare senza trovare ostacoli in istituti quali l'amnistia e l'indulto che appaiono, anche al comune sentire, gravemente iniqui nella latitudine amplissima di operatività loro conferita dal legislatore ordinario. Di conseguenza il principio desumibile dall'art. 27 dovrebbe indurre a circoscrivere i concetti di amnistia e di indulto, rimasti imprecisati nell'articolo 79 Cost., nel senso di renderli applicabili soltanto ad ipotesi particolari come, ad esempio, quella prevista dall'art. 1 del decreto presidenziale n. 283, mentre varrebbe a rendere illegittime applicazioni più ampie ed indeterminate come quella prevista appunto dall'art. 5.

Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto anche in questo giudizio, ha concluso per l'infondatezza della questione ripetendo che l'amnistia rappresenta un istituto previsto dalla Costituzione ed osservando che l'art. 27, terzo comma, Cost., é a questo proposito inconferente.

  1. - Nel corso del procedimento penale contro Parco Ada ed altri, il pretore di Napoli ha sollevato d'ufficio con ordinanza 15 ottobre 1970 questione in confronto dell'art. 152 del codice di procedura penale, "nella parte in cui non prevede, in presenza di causa estintiva del reato quale l'amnistia, il proscioglimento nel merito, con la formula "non punibile perché il fatto non costituisce reato", quando già esistono prove che rendono evidente tale causa di proscioglimento, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 17, secondo comma, della Costituzione".

Tale questione si differenzia da quelle proposte dalle ordinanze del pretore di Padova, del tribunale di Milano (25 giugno 1970) e del pretore di Roma (16 giugno 1970), in quanto non riguarda il divieto di ulteriore istruttoria, ma il divieto di immediato proscioglimento con la formula "perché il fatto non costituisce reato" in caso di intervenuta amnistia.

Ricordato come l'art. 152, capoverso, richiamato dall'articolo 592, codice di procedura penale, preveda l'obbligo di prosciogliere nel merito, anche in presenza di amnistia, quando già esistono prove le quali rendano evidente che "il fatto non sussiste", che "l'imputato non lo ha commesso" o che "il fatto non é preveduto dalla legge come reato", e come la dottrina distingua quest'ultima formula da quella "perché il fatto non costituisce reato", usata in altri articoli del codice, il pretore ravvisa nella diversità di trattamento che ne consegue elementi d'irrazionalità tali da determinare una violazione del principio di eguaglianza.

In questo giudizio si sono costituite le parti private Saracco Cesare e Parco Ada, col patrocinio dell'avv. prof. Claudio Dal Piaz, le quali hanno chiesto, in tesi, che la questione sia dichiarata infondata, sul presupposto che l'art. 152 del codice di procedura penale consente di prosciogliere anche nell'ipotesi di non punibilità perché il fatto non costituisce reato, ritenuta equivalente a quella secondo cui il fatto non é preveduto dalla legge come reato, e, in ipotesi, che la questione sia riconosciuta fondata ove non si ammetta l'equivalenza delle suddette formule.

Tali conclusioni sono state quindi succintamente svolte nella memoria in data 1 giugno 1971.

  1. - Diversa da tutte le precedenti é anche l'ordinanza pronunciata il 3 ottobre 1970 dal tribunale di Velletri nel corso del procedimento penale contro Atzeni Antonio, la quale, mediante un argomentazione opposta a quella che sta alla base dei provvedimenti dei pretori di Chieri e di Modena precedentemente esaminati, perviene a denunciare, per violazione degli artt. 1, 3, 4, 35, 39 e 42 della Costituzione, l'art. 1 della legge n. 282 e del d.P.R. n. 283, in quanto rispettivamente delegano a concedere e concedono un'amnistia "particolare" anziché "generale".

Anche di questa questione il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in causa, chiede sia dichiarata l'infondatezza riaffermando l'esistenza di un ampio ed insindacabile potere discrezionale del legislatore nella determinazione dell'ambito dei provvedimenti di clemenza.

  1. - La questione di legittimità costituzionale sollevata dal pretore di Chieri con l'ordinanza in data 25 giugno 1970 nel corso del procedimento penale contro Mosso Anna concerne, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, l'art. 5, penultimo comma, del d.P.R. n. 283, che esclude dall'ambito di applicazione dell'amnistia il reato di cui all'art. 515 del codice penale (frode in commercio), fuori del caso in cui sia riscontrabile l'attenuante di cui all'art. 62, n. 4 (speciale tenuità del danno). Il pretore osserva che, poiché rientra invece nell'amnistia il più grave reato di truffa (art. 640, codice penale), l'imputata avrebbe potuto beneficiare del provvedimento soltanto qualora avesse posto in essere una condotta ben più antisociale di quella da lei realizzata; e poiché tale conclusione gli appare affatto illogica ed iniqua, e d'altronde non superabile se non mediante la declaratoria d'illegittimità costituzionale, denuncia appunto l'art. 5 suddetto per violazione del principio di eguaglianza.

In questo giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri e si é costituita la parte civile s.p.a. Pezziol, col patrocinio dell'avv. Luigi De Luca.

L'Avvocatura generale dello Stato solleva innanzitutto dubbi intorno alla rilevanza della questione rispetto al giudizio a quo, osservando che essa non concerne una norma che il pretore di Chieri debba applicare. Dato infatti che l'art. 5, penultimo comma, del decreto presidenziale esclude il reato di frode in commercio dall'amnistia, il pretore doveva definire il procedimento applicando l'art. 515 del codice penale, e non anche le norme sull'amnistia che erano nella specie inoperanti.

Nel merito per l'Avvocatura la questione é infondata sussistendo elementi strutturali che differenziano il reato di frode in commercio da quello di truffa, a cominciare dall'esistenza di un valido accordo delle parti, non carpito, come nella truffa, mediante artifici o raggiri. Avendo essi diversa obbiettività non é possibile, altro che sul piano della politica legislativa, procedere al raffronto del trattamento che essi ricevono da parte del legislatore, sia in sede di determinazione della pena, sia in sede di applicazione del provvedimento di clemenza.

Anche la società Pezziol conclude per l'infondatezza della questione, ravvisando nella denuncia d'incostituzionalità in esame una inammissibile censura all'uso del potere discrezionale del Parlamento e negando che l'esclusione dall'amnistia di alcuni reati più o meno gravi di altri cui essa é dichiarata applicabile possa ricondursi ad una violazione del principio di eguaglianza.

  1. - Le due ordinanze identiche pronunciate il 1 giugno 1970 dal tribunale di Milano nel corso dei procedimenti penali contro Allegri Renzo e Caviglione Giacomo propongono la stessa questione sollevata con gli altri provvedimenti dello stesso organo giudiziario in data 27 maggio e 26 giugno 1970 precedentemente ricordati, con la sola differenza che esse indicano come norma violata da tutte le disposizioni impugnate anche in quelle altre sedi il solo art. 3, primo comma, della Costituzione.

Nessuno si é costituito, né é intervenuto in questi giudizi.

  1. - La stessa questione proposta con le ordinanze del pretore di Padova, del tribunale di Milano (25 giugno 1970) e del pretore di Roma (16 giugno 1970) é stata sollevata, con amplissima motivazione, anche con l'ordinanza pronunciata il 30 ottobre 1970 dal pretore di Pietrasanta nel corso del procedimento penale contro Guidoni Giovanni ed altri.

In essa il pretore si sofferma particolarmente a segnalare il rapporto che sussiste fra l'esercizio del diritto di difesa nel processo penale ed in altre sedi per dedurne che, poiché la difesa in ordine al fatto-reato avviene nel modo più efficace nel processo penale, la tutela del diritto di difesa implica altresì la tutela dell'interesse dell'imputato a veder riconosciuta la propria innocenza, anche a prescindere dalla concreta applicabilità di una sanzione.

Tale conclusione trova fondamento nel diritto positivo dal momento che questo riconosce in vari casi all'imputato il potere di impugnare sentenze di proscioglimento, condiziona alla sua accettazione l'operatività della remissione di querela ed impone al giudice, a determinate condizioni, di preferire il proscioglimento nel merito a quello per estinzione del reato.

In questo ordine di idee, la regola che vieta al giudice, in presenza di amnistia, ogni ulteriore attività istruttoria risulta chiaramente in contrasto con la garanzia del diritto di difesa e poiché, d'altronde, non rappresenta una conseguenza necessaria della concessione dell'amnistia, sembra equo che debba cadere di fronte alla tutela costituzionale che a quel diritto é stata riconosciuta dall'art. 24, secondo comma, della Costituzione.

Conseguenza questa che é confermata dall'esame della norma che, in apparente deroga a tale disciplina, prescrive l'interrogatorio dell'imputato o comunque la contestazione del reato come condizione del proscioglimento per amnistia. Non si vede infatti come l'imputato possa avvalersi dell'opportunità di difendersi che in questo modo gli sembra offerta, se il giudice non può poi controllare mediante ulteriori atti istruttori le sue affermazioni difensive.

Nell'ulteriore svolgimento della motivazione il pretore di Pietrasanta si sofferma ad analizzare tutta una serie di ingiustificate disparità di trattamento che derivano dalla disposizione che vieta al giudice di iniziare o proseguire l'istruttoria dopo l'avvento dell'amnistia. Tali elementi d'incostituzionalità, a suo giudizio, non sarebbero stati del tutto eliminati neppure se il decreto di amnistia avesse previsto la possibilità per l'imputato di rinunciare al beneficio, poiché ciò avrebbe portato ad una ulteriore ingiustificata discriminazione tra coloro che per effetto di particolari vicende processuali si fossero trovati già in condizione di poter dimostrare con sicurezza la propria innocenza e coloro che, in ipotesi egualmente innocenti, non fruissero però di un'analoga situazione probatoria. Ma, a parte tale aspetto, la previsione della possibilità di rinuncia all'amnistia avrebbe sufficientemente riequilibrato il sistema processuale, salvaguardando in pratica in modo abbastanza adeguato il diritto di difesa; poiché tuttavia ciò non si é verificato, solo una sentenza della Corte può attualmente porre rimedio alla rilevata illegittimità.

Nemmeno in questo giudizio vi é stato intervento o costituzione di parti.

  1. - L'ordinanza pronunciata dal pretore di Torino il 27 giugno 1970 nel corso del procedimento penale contro Sette Nicola é in tutto e per tutto corrispondente a quella del pretore di Chieri in data 25 giugno 1970. Corrispondente é altresì il tenore dell'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.
  2. - L'ordinanza pronunciata dal pretore di Roma il 29 ottobre 1970 nel corso del procedimento penale contro Malucelli Dario propone infine una questione sostanzialmente analoga a quella sollevata dal pretore di Padova, dal tribunale di Milano (25 giugno 1970), dal pretore di Roma (16 giugno 1970) e dal pretore di Pietrasanta (30 ottobre 1970).

Nessuno é intervenuto, né si é costituito nel relativo giudizio.  

Considerato in diritto 

  1. - Le diciassette ordinanze riguardano tutte, pur con diversità di prospettazioni e di conclusioni, l'istituto dell'amnistia, sicché si rende opportuna la loro riunione e la decisione con unica sentenza.
  2. - All'esame delle questioni dovrà procedersi secondo un ordine che conduce a dare la precedenza a quelle le quali investono l'amnistia nel suo fondamento e riguardano il suo più generale ambito di applicazione. Sotto questo riguardo vengono prima in considerazione le ordinanze dei pretori di Chieri del 26 maggio 1970 e di Modena del 30 luglio successivo, le quali denunciano l'art. 5 del d.P.R. 22 maggio 1970, n. 283, per violazione degli artt. 3 e 79 e la seconda di esse, anche dell'art. 27 della Costituzione. Muovendo dal rilievo della sussistenza di una gerarchia fra norme e norme della stessa Costituzione, si sostiene la necessità di interpretare l'art. 79 in modo da armonizzarne l'applicazione con il rispetto del supremo principio di eguaglianza: il che si otterrebbe quando all'amnistia si faccia luogo solo in confronto a reati commessi in situazioni eccezionali e limitate nel tempo, ed essa sopravvenga dopo la loro cessazione, poiché, in tali ipotesi, verrebbe a porsi in contrasto con il detto principio la persecuzione penale di fatti che ormai la coscienza comune ritiene non più sanzionabili. Mentre al contrario, tale contrasto presenterebbero le amnistie c.d. "celebrative" relative a situazioni sempre aperte nel tempo. Infatti rispetto a queste il trattamento differenziato di reati, per il solo fatto che siano stati compiuti prima o dopo un certo termine, appare del tutto arbitrario, ed altresì lesivo dell'altro principio costituzionale che attribuisce alla pena una funzione rieducativa della personalità del colpevole. Funzione alla quale (nei casi in cui la particolarità delle circostanze faccia apparire incongrua la espiazione effettiva della pena o la sua perduranza per l'intero periodo stabilito nelle sentenze di condanna) ben più opportunamente dell'amnistia si adeguano altri istituti, come per esempio il perdono giudiziale o la grazia.

I rilievi riferiti, che del resto rispecchiano quelli autorevolmente formulati anche in Parlamento in sede di discussione del provvedimento in esame, appaiono degni di attenta considerazione, riuscendo di indubbia fondatezza la premessa da cui si fanno derivare della sussistenza (del resto valevole per ogni corpo di disposizioni coordinate in sistema) di un ordine che conduce a conferire preminenza ad alcune di esse rispetto ad altre.

L'esigenza prospettata di contenere l'esercizio del potere di amnistia nei limiti più ristretti, così da armonizzarlo con la concezione personalista cui si ispirava la nuova Costituzione fu bene presente nei costituenti che, nel prevederne la possibilità (nonostante che autorevoli opposizioni, in accordo con una antica e diffusa opinione, attribuissero all'istituto carattere di mero "relitto storico"), ne riaffermarono in modo esplicito il carattere del tutto eccezionale così da farla ritenere validamente consentita solo nel caso della sopravvenienza di circostanze siffatte da condurre a considerare i reati precedentemente commessi, in quanto legati ad un momento storico ormai superato, non più offensivi della coscienza sociale. Appunto in corrispondenza a tale orientamento, si formulò espressa condanna della anteriore prassi caratterizzata da una eccessiva frequenza delle concessioni di amnistia.

Pur tenendo presenti le precedenti considerazioni, e pur constatato che i nobili propositi del costituente non hanno trovato attuazione, sicché i provvedimenti di clemenza dopo il 1946 si sono moltiplicati con un ritmo assai superiore a quello dell'antecedente regime, tuttavia la Corte ritiene che una indagine volta a sindacare l'ampiezza dell'uso fatto dal Parlamento della sua discrezionalità in materia eccederebbe i limiti entro cui deve rimanere racchiuso il sindacato della mera legittimità della legge ad essa assegnato. Infatti tale sindacato non potrebbe altrimenti effettuarsi se non con il ricorso ad accertamenti assai più penetranti di quelli consentiti, da riferire sia alla entità dei reati considerati degni di oblio, sia alle valutazioni di opportunità in ordine alla situazione politica ritenuta tale da consigliare il ricorso alla amnistia, nonché alla individuazione del momento da cui debba farsi validamente decorrere.

  1. - Una riprova della difficoltà ora prospettata può venire desunta dall'esame dell'altra ordinanza del tribunale di Velletri del 3 ottobre 1970, che, muovendo da un punto di vista opposto a quello assunto dalle altre prima richiamate, rinviene una lesione del principio di eguaglianza (ed altresì di quelli proclamati negli artt. 1, 4, 35, 39 e 42 Cost.) nella amnistia "particolare", concessa con l'art. 1 del decreto presidenziale citato, lesione che si realizzerebbe non solo nei confronti degli imputati, ma altresì delle persone offese e dei beni danneggiati, facendo venir meno le garanzie costituzionali previste, senza discriminazioni, per alcune di queste, quali quelle che hanno recato offesa alla libertà del lavoro, alla proprietà privata, ecc. Chiaro appare dai rilievi così prospettati come, anche se si potesse in ipotesi consentire nella opinione enunciata secondo cui ammissibili siano solo le amnistie celebrative, non si sfuggirebbe alla necessità di apprezzamenti che trascendono il campo della legittimità per sconfinare nell'altro diverso dell'opportunità.

Sicché la Corte, pur formulando voti per un più cauto e meno frequente esercizio della potestà conferita dall'art. 79, deve dichiarare non fondate le questioni finora esaminate.

  1. - A non diversa conclusione deve giungersi anche in ordine alla questione prospettata con le ordinanze del pretore di Chieri del 25 giugno 1970 e di quello di Torino del 27 stesso mese, le quali denunciano l'art. 5, penultimo comma, del d.P.R. n. 283 perché, consentendo l'amnistia per il reato di truffa ed escludendola invece per quello meno grave di frode in commercio (quando non ricorra l'attenuante dell'art. 62 n. 4), sarebbe incorsa in violazione dell'art. 3, comma primo, della Costituzione.

Mentre é da respingere l'eccezione di inammissibilità sollevata dall'Avvocatura dello Stato poiché, contrariamente a quanto da questa ritenuto, il dubbio sollevato sulla costituzionalità dell'esclusione dell'amnistia pel caso del reato oggetto del giudizio, desunto dal confronto con il trattamento usato per altro reato più gravemente sanzionato, rendeva la questione indubbiamente rilevante, deve ritenersi infondata la censura prospettata. Infatti la scelta del criterio di discriminazione fra reati amnistiabili o non, non é necessariamente legata all'entità della pena edittale prevista rispettivamente per gli uni e per gli altri, ma può farsi discendere da considerazioni di diverso ordine, come per esempio la maggiore diffusione di alcuni in un certo momento e il conseguente maggiore allarme sociale, tale da sconsigliare per essi l'adozione di un atto di clemenza. Una irrazionalità potrebbe, se mai, prospettarsi, sotto il rispetto messo in rilievo, quando la differente disciplina riguardasse reati lesivi dello stesso bene voluto proteggere: ciò che non si verifica nella specie dato che la frode in commercio rientra fra i delitti contro l'economia pubblica, l'industria e il commercio, mentre la truffa appartiene alla categoria dei delitti contro il patrimonio; riguardano cioè interessi suscettibili di diversa valutazione politico-sociale, e quindi di differente trattamento ai fini dell'amnistia.

  1. - Ad un diverso ordine di problemi é rivolta l'ordinanza del pretore di Pietrasanta del 23 luglio 1970 riguardante il dubbio di costituzionalità dell'art. 11 della legge n. 282 e del pedissequo art. 11 del d.P.R. n. 283, per violazione dell'art. 79, secondo comma, della Costituzione. Ciò nella considerazione secondo cui, se é vero che la proposta di delegazione approvata dal Parlamento reca la data del 5 maggio 1970, sicché di fronte ad essa non appare criticabile il termine del 6 aprile da cui si é fatto decorrere il beneficio, é vero altresì che una precedente proposta di iniziativa parlamentare, di analogo contenuto per quanto riguarda i reati commessi in occasione di agitazioni popolari, era stata presentata fin dal 3 febbraio precedente, sicché il prolungamento del termine oltre tale data può avere agito come vero e proprio incentivo a delinquere, in contrasto con la ratio ispiratrice del secondo comma dell'art. 79.

La Corte ha avuto occasione di pronunciarsi sulla questione, una volta con la sentenza n. 171 del 1963, ed un'altra con la n. 51 del 1968. Con la prima venne ritenuto che, pur essendo buona parte dei reati allora amnistiati già previsti da proposte presentate anteriormente, tuttavia tali proposte erano da considerare irrilevanti, non essendo state né riunite al disegno governativo per procedere ad un loro esame unitario né in alcun modo considerate, e non mai poste in discussione. Sostanzialmente conforme é la seconda che, pur notate le differenze fra le disposizioni delle prime proposte rispetto a quella poi approvata, fonda la statuizione di rigetto sulla constatazione della mancata presa in considerazione delle proposte anteriori, che pertanto restarono completamente fuori dall'iter dell'approvazione della legge.

Tale orientamento dev'essere confermato anche in presenza della fattispecie in esame, data la sua somiglianza con quelle che furono oggetto delle precedenti decisioni. Risulta infatti che la proposta di iniziativa parlamentare del 3 febbraio (che rendeva efficace l'amnistia particolare prevista per i reati commessi fino al 31 dicembre 1969) non venne sottoposta a discussione ed anzi fu ritirata dai proponenti il 16 maggio successivo, sicché é rimasta del tutto estranea al procedimento da cui ha tratto vita la legge di delegazione. Il secondo comma dell'art. 79, modificando, per quanto riguarda il termine, l'art. 151, terzo comma, cod. pen., ha fatto riferimento alla "proposta" di delegazione, termine con il quale si é inteso designare quella fra le varie possibili iniziative da cui é direttamente derivato l'atto di clemenza.

Non può ritenersi con l'ordinanza di rinvio che l'esistenza di tale proposta, identica alla parte del progetto governativo relativa all'amnistia particolare, si sia potuta risolvere in "incentivo a delinquere", dato il termine del 31 dicembre con essa stabilito, termine conservato poi dal progetto governativo che aggiungeva alla prima un'amnistia generale, mentre il prolungamento al 6 aprile avvenne per opera della commissione deliberante, che, applicando anch'essa esattamente il precetto del secondo comma dell'art. 79, rese efficace il provvedimento limitatamente ai reati commessi prima del 6 aprile, data nella quale il Governo aveva, per la prima volta, manifestato l'intenzione di estenderne la portata.

  1. - Altre ordinanze denunciano disposizioni diverse da quelle concessive dell'amnistia del 1970, o da sole o in unione a queste ultime. Il pretore di Napoli ha, in data 15 ottobre 1970, sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 152, capoverso, del codice di procedura penale, per violazione degli artt. 3, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., nella considerazione che, limitando esso la possibilità della non applicazione dell'amnistia per statuire invece l'assoluzione in merito solo ai tre casi ivi considerati, esclude che lo stesso trattamento il giudice possa applicare nell'ipotesi, pur del tutto analoga, dell'esistenza di prove così evidenti da far ritenere che il "fatto non costituisce reato".

La censura apparirebbe certamente fondata ove le ipotesi previste dal citato art. 152 dovessero ritenersi rigidamente tassative, il che é escluso dalla giurisprudenza e da larga parte della più autorevole dottrina. In realtà alla formula, ivi considerata, della non previsione da parte della legge di un fatto come reato si deve attribuire un significato generico, comprensivo non solo delle ipotesi del difetto di una qualsiasi norma penale cui possa ricondursi il fatto imputato, ma anche di quelle di mancanza delle condizioni di imputabilità o di punibilità, rispetto a cui il fatto, pur se astrattamente previsto dalla legge penale, risulta giuridicamente irrilevante al fine dell'applicabilità di questa, e quindi del tutto equivalente all'altra.

Conducono a far adottare tale interpretazione motivi desunti dalla ratio dell'art. 152, capov., che é quella di evitare, di fronte all'evidenza delle prove, l'adozione della formula di proscioglimento per cause di estinzione del reato, che presuppone o può far presupporre l'esistenza, o per lo meno l'astratta possibilità, di fatti in sé suscettibili di sanzione penale. E sarebbe assurdo far valere siffatta esigenza solo in confronto di alcune delle ipotesi prospettate e non di altre delle quali non può contestarsi l'equivalenza.

Ad avviso contrario si potrebbe pervenire solo se il linguaggio legislativo in materia presentasse carattere di univocità, il che non avviene, come risulta dal confronto che si faccia, da una parte, fra le dizioni degli artt. 1 e 2 del codice penale, e dall'altra quella dell'art. 152 del codice di procedura penale e delle altre degli artt. 378 e 479 dello stesso codice, nei quali ultimi non appare la dizione "fatto che la legge non prevede come reato", ed invece ne é adoperata una diversa: "persona non punibile perché il fatto non costituisce reato".

Quanto si é detto, se porta ad escludere ogni rilievo alla differenziazione fra le due formule considerate, al fine della sussistenza dell'obbligo del giudice di pronunciare il proscioglimento in merito, in luogo di quello fondato sulla causa di estinzione, non incide invece sull'altro aspetto attinente alla gerarchia delle formule medesime: gerarchia da determinare in considerazione dell'interesse dell'imputato a venire assolto con l'impiego di quella fra esse che risulti produttiva degli effetti per lui meno pregiudizievoli, e che conduce, com'é ovvio, a dare la preminenza alla non previsione del fatto quale reato.

In conclusione l'interpretazione da assumere dell'art. 152 del codice di procedura penale conduce a far ritenere infondata l'eccezione sollevata in ordine ad essa.

  1. - Con quattro ordinanze in data 27 maggio, 1 e 26 giugno 1970 il tribunale di Milano ha sollevato d'ufficio questione di legittimità costituzionale, sia dell'art. 596, primo comma, c.p., in relazione all'art. 21 Cost., nella parte in cui escluderebbe la rilevanza e la prova della verità del fatto diffamatorio attribuito alla persona offesa, nel caso che la pubblicità data al fatto stesso costituisca esercizio del diritto di cronaca, e sia conseguentemente dell'art. 5 del d.P.R. n. 283, che, mentre comprende nell'amnistia i delitti di diffamazione a mezzo della stampa, esclude solo le ipotesi previste dal terzo comma dell'art. 596 nn. 1, 2 e 3 del codice penale. Il che contrasterebbe con l'art. 3, primo comma, Cost., perché si opererebbe una diversità di trattamento secondo che il querelante per diffamazione abbia o no concesso formalmente la facoltà di provare il fatto attribuito; diversità difettante di ogni ragionevole fondamento quando si tratti di esercizio della libertà di cronaca, poiché in ordine ad essa l'interesse del querelante alla tutela dell'"onore reale" conduce ad escludere che l'omissione della concessione formale di prova sia da interpretare quale rinunzia alla tutela stessa.

La difesa di una delle parti private ha opposto un'eccezione di inammissibilità per difetto di rilevanza, nella considerazione che il tribunale ha ammesso tale rilevanza in quanto ha ritenuto che le imputazioni di cui alla causa potrebbero "eventualmente" ritenersi esercizio del diritto di cronaca, sicché la rilevanza potrebbe venire validamente affermata solo dopo l'accertamento dell'effettivo realizzarsi di tale circostanza. Si può opporre che, almeno nei confronti di alcuni degli imputati che rivestono la qualità di giornalista, cui si addebita la paternità delle pubblicazioni incriminate, non appare dubbio che queste siano esplicazione di attività professionale, e ciò é sufficiente a conferire rilevanza alla questione.

Nel merito l'eccezione non può ritenersi fondata quando si tengano presenti i principi ai quali é da risalire nella materia dei reati di diffamazione a mezzo della stampa, alla stregua dei quali devono interpretarsi gli articoli denunciati. Sembra infatti evidente che l'art. 596, primo comma, quando non ammette il colpevole del delitto di diffamazione a provare a propria discolpa la verità o notorietà del fatto attribuito alla persona offesa, non possa trovare applicazione allorché il colpevole stesso sia in grado di invocare l'esimente, prevista dall'art. 51 c.p., che esclude la punibilità in quanto il fatto imputato costituisca esercizio di un diritto. E non appar dubbio che tale sia il caso del giornalista che, nell'esplicazione del compito di informazione ad esso garantito dall'art. 21 Cost., divulghi col mezzo della stampa notizie, fatti o circostanze che siano ritenute lesive dell'onore o della reputazione altrui, sempreché la divulgazione rimanga contenuta nel rispetto dei limiti che circoscrivono l'esplicazione dell'attività informativa derivabili dalla tutela di altri interessi costituzionali protetti. Discende da tali premesse che nei confronti di imputazioni riconducibili all'ipotesi ora prospettata non può venire in considerazione la volontà del querelante rivolta a consentire o meno la facoltà di provare il fatto addebitato, poiché tale facoltà, discendente direttamente dai principi richiamati, costituisce mezzo necessario affinché l'imputato si sottragga all'accusa a lui rivolta. Allo stesso modo non incorre in censure di incostituzionalità l'art. 5, lett. d, del d.P.R. n. 283, poiché deve ritenersi che l'amnistia non possa trovare applicazione per le imputazioni riferibili alla cronaca, dato che tale ipotesi é da assimilare in tutto a quelle per le quali la stessa lett. d nega la concessione di amnistia.

Dall'assunto che l'interpretazione sistematica conduce ad estendere la non applicabilità dell'amnistia anche al caso della cronaca diffamatoria, ed a far ritenere che al diritto del cronista di fornire la prova della verità (o verosimiglianza) dei fatti denunciati, al fine di sottrarsi alla sanzione, corrisponde quello della persona offesa di pretendere che tale prova venga effettuata anche senza che ne abbia fatto espressa richiesta, segue che analoga estensione debba farsi valere in confronto all'art. 5, lett. d, del decreto presidenziale in esame, in cui é da ritenersi sottintesa, accanto alle tre ipotesi del terzo comma dell'art. 596 del codice penale, anche quella riguardante la cronaca.

Non si riscontra pertanto alcuna differenza di trattamento fra il caso di formale concessione dell'exceptio veritatis e quello in cui essa manchi, data la notata irrilevanza di tale dichiarazione di volontà.

Alla conclusione cui si deve giungere dell'infondatezza, alla stregua del criterio interpretativo adottato, dell'eccezione sollevata nulla può fondatamente opporsi muovendo, come fa la difesa di una delle parti private, dal richiamo all'articolo 152 del codice di procedura penale. Infatti, quest'articolo trova applicazione solo quando sia sopravvenuta una causa di estinzione del reato e pertanto appare chiaro che ad esso non possa farsi riferimento allorché, come accade nella specie, si debba escludere l'estensione del provvedimento di clemenza.

  1. - Il pretore di Civitanova Marche, in data 27 maggio 1970, ha eccepito la incostituzionalità dell'art. 151 c.p., nonché della legge n. 282 e pedissequo decreto presidenziale, sotto l'aspetto della violazione dell'art. 24, commi primo e secondo Cost., nella considerazione della lesione che dall'applicazione automatica dell'amnistia sancita da dette norme deriva alla tutela giudiziale degli interessi, ed al diritto di difesa; nonché dell'art. 3 Cost. per la diversità di trattamento, quale può desumersi sia dalla disposizione del codice penale in ordine all'analogo caso della remissione della querela, la cui efficacia é condizionata all'accettazione da parte del querelato, e sia dalle precedenti leggi di amnistia le quali tutte prevedevano la possibilità della rinuncia.

Il punto relativo alla compatibilità dell'amnistia con il diritto di difesa spettante all'imputato di reato ad essa soggetto é stato prospettato una prima volta alla Corte nel 1963, ma non é stato preso in considerazione, in quanto come statuito con la sentenza n. 171 del 1963, non risultavano allora impugnate le disposizioni di carattere generale alle quali i provvedimenti di amnistia si uniformavano. Successivamente con la sentenza n. 52 del 1968 la Corte (di fronte ad una censura in senso opposto a quella di cui al presente giudizio, rivolta cioè contro un decreto di amnistia che invece consentiva la facoltà di rinunzia, per contrasto, oltre che con l'articolo 79 Cost. che non prevede l'amnistia rinunciabile, anche con gli artt. 24 e 25 Cost. per le conseguenze che se ne devono far derivare nel caso che il rinunciante all'amnistia non riesca a raggiungere la prova della propria innocenza), dopo aver dichiarato infondate le censure che si facevano discendere dalle presunte violazioni del diritto di difesa garantito dall'art. 24 e del principio nullum crimen sine lege di cui all'articolo 25, ha statuito che l'istituto dell'amnistia quale risulta regolato dall'art. 79 non é legato né alla concessione della facoltà di rinunciarvi, né al divieto di esercitarla, riuscendo indifferente ad essa l'accoglimento dell'una o dell'altra ipotesi.

Prendendo a base e confermando quanto stabilito con quest'ultima decisione, e precisamente: a) che la facoltà di rinuncia all'amnistia non solo non contraddice al diritto di difesa, ma anzi ne costituisce esplicazione; b) che l'esercizio della facoltà stessa rende inoperante l'amnistia, e conseguentemente consente l'applicabilità della sanzione penale a carico del rinunziante che risulti colpevole in seguito alla prosecuzione e definizione del giudizio, la Corte deve riesaminare il problema sotto l'aspetto ora sottopostole, se cioè appartenga effettivamente alla discrezionalità del legislatore concedere o meno la facoltà di rinunzia.

La risposta negativa sembra discendere logicamente da quanto si é già ritenuto, che cioè la rinunzia all'amnistia costituisce esplicazione del diritto di difesa, sembrando chiaro discendere da tale affermazione come in quest'ultimo sia da considerare inclusa non solo la pretesa al regolare svolgimento di un giudizio che consenta libertà di dedurre ogni prova a discolpa e garantisca piena esplicazione del contraddittorio, ma anche quella di ottenere il riconoscimento della completa innocenza, da considerare il bene della vita costituente l'ultimo e vero oggetto della difesa, rispetto al quale le altre pretese al giusto procedimento assumono funzione strumentale.

Ora, non é contestabile che, a differenza di quanto avviene nel caso di abrogazione di una norma penale, l'amnistia non elimina l'astratta previsione punitiva relativa a determinati comportamenti, ma si limita ad arrestare la procedibilità dei giudizi relativamente a dati reati, con riferimento al tempo in cui sono stati commessi. Pertanto, con l'obbligo fatto al giudice di dichiarare in tutti i giudizi in corso al momento del sopravvenire di un procedimento di amnistia, l'estinzione del reato (salve le tre eccezioni prima ricordate) viene compromessa irreparabilmente la soddisfazione dell'interesse ad ottenere una sentenza di merito, vincolando invece l'imputato a soggiacere ad una pronuncia di proscioglimento, la quale, appunto perché non scende ad accertare e neppure solo a delibare la fondatezza dell'accusa, se anche sottrae ad ogni pena, non conferisce alcuna certezza circa l'effettiva estraneità dell'imputato all'accusa contro di lui promossa, e quindi lascia senza protezione il diritto alla piena integrità dell'onore e della reputazione.

A riprova della rilevanza costituzionalmente protetta dell'interesse di chi sia perseguito penalmente ad ottenere non già solo una qualsiasi sentenza che lo sottragga alla irrogazione di una pena, ma precisamente quella sentenza che nella sua formulazione documenti la non colpevolezza, possono richiamarsi le considerazioni prima dedicate alla gerarchia che é da porre fra le formule di proscioglimento, quale risulta anche dallo stesso primo comma dell'art. 152 c.p.p. in cui le cause di estinzione occupano l'ultimo posto; gerarchia che é stata esattamente considerata applicazione del favor innocentiae, come particolare aspetto del principio generale del favor rei.

Non varrebbe, per giungere a diversa conclusione, richiamarsi alla funzione che si attribuisca all'amnistia, di tutela degli interessi della vita sociale, poiché tale funzione deve essere coordinata con quelli inalienabili della personalità morale, fra i quali rientra la pretesa dell'imputato di addurre e far valutare le prove da cui crede potersi argomentare la propria irresponsabilità penale.

Si aggiunga poi che all'interesse morale ad una sentenza di assoluzione con formula piena si affianca anche quello patrimoniale, dato che l'assoluzione da amnistia lascia integra (a tacere delle eventuali connesse responsabilità amministrative) l'azione civile per risarcimento del danno, mentre corrisponde all'interesse dell'imputato di ottenere dal giudice penale una pronuncia che, ai sensi dell'art. 25 cod. proc. pen., e ricorrendone i presupposti, renda improponibile l'azione civile.

Una volta accertata la violazione dell'art. 24 Cost. può ritenersi ultroneo esaminare l'altra denunzia fondata sul contrasto con l'art. 3 della Costituzione.

  1. - Un ultimo gruppo di ordinanze denuncia le norme le quali, nel caso di sopravvenienza di una amnistia, mentre impongono al giudice di non darvi applicazione, pronunciando in merito, allorché vi siano prove "evidenti" che il fatto non sussiste, che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non é previsto come reato dalla legge penale, inibiscono poi la prosecuzione dell'istruttoria e quindi l'acquisizione delle prove già richieste ma non ancora iniziate o delle altre in corso di acquisizione. In questo senso sono l'ordinanza in data 16 giugno 1970 del pretore di Roma (secondo cui gli artt. 152 e 592 cod. proc. pen. contrastano con l'art. 24, secondo comma, Cost.); quelle in data 25 giugno 1970 del tribunale di Milano (che denuncia gli artt. 591 e 592 c.p.p. per violazione dell'art. 24 Cost.); quella del pretore di Padova del 29 luglio 1970 (che impugna gli artt. 152 e 592 c.p.p. per violazione degli artt. 3 e 24 Cost.); l'altra del pretore di Roma del 29 ottobre 1970 (che allega il contrasto dell'art. 152, secondo comma, c.p.p. con l'art. 24, secondo comma, Cost.); ed infine quella del pretore di Pietrasanta del 30 ottobre 1970 anch'essa rivolta a denunciare, per violazione degli artt. 24, secondo comma, e 3, primo comma, della Costituzione, gli artt. 152 e 592 del codice di procedura penale.

Le considerazioni esposte in precedenza in ordine alla rilevanza costituzionale dell'interesse dell'imputato ad ottenere una sentenza di merito in luogo di una dichiarativa dell'estinzione per amnistia conducono a far ritenere fondate le eccezioni proposte. L'incongruenza delle disposizioni che precludono al giudice di assumere prove o di completare quelle in corso appare tanto più grave quando si tengano presenti gli artt. 376 e 398, ultimo comma, c.p.p., che sanciscono, a pena di nullità, il divieto di dichiarare non doversi procedere per amnistia con sentenza istruttoria senza il previo interrogatorio dell'imputato sul fatto costituente l'oggetto dell'imputazione. Infatti se, come é stato messo in rilievo con la sentenza della Corte n. 151 del 1967, funzione dell'interrogatorio é quella di consentire all'imputato, in conformità dell'art. 24 Cost., di opporre le proprie difese allo scopo di evitare il tipo di sentenze, come quelle di amnistia e le altre previste nello stesso art. 376, che analogamente non forniscono la prova della sua non colpevolezza lasciandolo sotto il peso di accuse relative a "fatti che, pur non costituendo reato, possono essere giudicate sfavorevolmente dalla opinione pubblica o dalla coscienza sociale", appare chiaro che tale funzione risulterebbe elusa se non fosse consentito l'esperimento delle prove a discolpa dedotte nell'interrogatorio stesso.

Accertata la fondatezza delle censure rivolte agli artt. 152 e 592 c.p.p. sorge il quesito circa l'influenza che sulla formulazione della conseguente pronuncia di incostituzionalità debba essere assegnata alla conclusione cui prima si é giunti relativamente all'obbligo gravante sul legislatore di consentire in ogni caso il diritto di rinunciare all'amnistia.

Sembra infatti che, una volta ancorata la pretesa ad ottenere una sentenza di merito, in luogo di quella dichiarativa di amnistia, alla soddisfazione dell'interesse dell'imputato prevalente su quello posto a base del provvedimento di clemenza, lo strumento più idoneo al conseguimento di tale risultato debba ritenersi la rinunzia, senza che occorra aver riguardo al fatto, del tutto accidentale, della situazione processuale, e quindi alla fase dell'iter istruttorio in corso al momento della sopravvenienza.

Di conseguenza, la dichiarazione di illegittimità costituzionale per l'omessa previsione del diritto alla rinunzia può ritenersi assorbente le altre censure, nel senso di rendere superflua ogni pronuncia in ordine alla differenza di trattamento fra il caso che al momento del sopravvenire dell'amnistia siano o no acquisite prove evidenti, dovendosi gli articoli denunciati 152 e 592 c.p.p. interpretare nel senso che l'obbligo ivi sancito dell'immediata declaratoria dell'amnistia non sia da far valere quando risulti l'avvenuta rinunzia a voler beneficiare del provvedimento di clemenza.  

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE 

  1. a) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 151, primo comma, del codice penale, nonché degli artt. 1, 2 e 5 della legge 21 maggio 1970, n. 282, e degli artt. 1, 2 e 5 del d.P.R. 22 maggio 1970, n. 283, nella parte in cui escludono la rinunzia, con le conseguenze indicate in motivazione, all'applicazione dell'amnistia;
  2. b) dichiara non fondate, ai sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale relative agli artt. 152, 591 e 592 del codice di procedura penale, sollevate, con le ordinanze 25 giugno 1970 del tribunale di Milano, 29 luglio 1970 del pretore di Padova, 16 giugno e 29 ottobre 1970 del pretore di Roma e 30 ottobre 1970 del pretore di Pietrasanta, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione;
  3. c) dichiara non fondata, ai sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 152, primo comma, del codice di procedura penale, sollevata, con l'ordinanza 15 ottobre 1970 del pretore di Napoli, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione;
  4. d) dichiara non fondata, ai sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 596, primo comma, del codice penale, e 5, lett. d, della legge 21 maggio 1970, n. 282, sollevata, con quattro ordinanze del tribunale di Milano in data 27 maggio, 1 e 26 giugno 1970, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 21, primo comma, della Costituzione;
  5. e) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 5 della legge n. 282 del 1970, ed 1 e 5 del d.P.R. 22 maggio 1970, n. 283, sollevata, con le ordinanze 26 maggio 1970 del pretore di Chieri, 30 luglio 1970 del pretore di Modena e 3 ottobre 1970 del tribunale di Velletri, in riferimento agli artt. 1, 3, 4, 27, 35, 39, 42 e 79 della Costituzione;
  6. f) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 11 della legge 21 maggio 1970, n. 282, sollevata con ordinanza 23 luglio 1970 del pretore di Pietrasanta, in riferimento all'art. 79, secondo comma, della Costituzione;
  7. g) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, penultimo comma, del d.P.R. 22 maggio 1970, n. 283, sollevata con le ordinanze 25 giugno 1970 del pretore di Chieri e 27 giugno 1970 del pretore di Torino, in riferimento all'art. 3, primo comma, della Costituzione.  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 1971.

Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI

 

Depositata in cancelleria il 14 luglio 1971.