Sentenza n. 129 del 1957

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SENTENZA N. 129

ANNO 1957

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Dott. GAETANO AZZARITI, Presidente

Avv. GIUSEPPE CAPPI

Prof. TOMASO PERASSI

Prof. GASPARE AMBROSINI

Prof. ERNESTO BATTAGLINI

Prof. FRANCESCO PANTALEO GABRIELI

Prof. ANTONINO PAPALDO

Prof. MARIO BRACCI

Prof. NICOLA JAEGER

Prof. GIOVANNI CASSANDRO

Dott. ANTONIO MANCA

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2, 5 e 14 del R.D.L. 25 ottobre 1941, n. 1148, convertito, con modificazione, nella legge 9 febbraio 1942, n. 96, e delle norme contenute nel R.D. 29 marzo 1942, n. 239, promosso con ordinanza 18 maggio 1957 del Tribunale di Pinerolo nel procedimento di omologazione della società per azioni AR.CO. con sede in Pinerolo, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 161 del 28 giugno 1957 ed iscritta al n. 63 del Registro ordinanze 1957.

Vista la dichiarazione di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del giorno 11 dicembre 1957 la relazione del Giudice Giovanni Cassandro;

uditi l'Avv. Arturo Colonna per la società AR.CO. ed il vice avv. gen. dello Stato Marcello Frattini per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Con atto rogato dal notar Carlo Paola di Torino il 18 aprile di quest'anno, si é costituita, con sede in Pinerolo, la società per azioni AR.CO. Lo statuto della società nell'art. 7 riproduce testualmente la norma contenuta nell'art.2355 Codice civile, secondo la quale "le azioni possono essere nominative o al portatore, a scelta del socio che ne é titolare". Nel procedimento di omologazione, seguito davanti al Tribunale di Pinerolo, la società per azioni AR.CO., al fine di sostenere la validità della riferita clausola statutaria, eccepì la illegittimità costituzionale dei provvedimenti legislativi che dispongono la nominatività obbligatoria dei titoli azionari e precisamente degli artt. 1, 2, 5 e 14 del R.D.L. 25 ottobre 1941, n. 1148, convertito con modificazioni nella legge 9 febbraio 1942, n. 96, e delle norme contenute nel R.D. 29 marzo 1942, n. 239, assumendo che essi sono in contrasto con gli artt. 3, 15, 41, 42, 47 e 53 della Costituzione.

Il Tribunale di Pinerolo, "ritenuta l'impossibilità di riconoscere o di negare la regolarità" dell'art. 7 dello statuto della società AR.CO. indipendentemente dalla risoluzione della sollevata questione di legittimità costituzionale, e ritenuto altresì che la questione non fosse manifestamente infondata "soprattutto in considerazione della dichiarata costituzionalità della legge della Regione siciliana 8 luglio 1948, n. 32, e della innegabile restrizione della iniziativa economica privata insita nelle disposizioni e nelle finalità stesse (per altro di natura contingente ed eccezionale) del R.D.L. 25 ottobre 1941, n. 1148", con ordinanza 18 maggio 1957 sospese il provvedimento di omologazione e trasmise gli atti a questa Corte, per la decisione della questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2, 5, 14 del R.D.L. 25 ottobre 1941, n. 1148 (convertito in legge 9 febbraio 1942, n. 96) e di ogni disposizione derivata e dipendente, in particolare di quelle contenute nel R.D. 29 marzo 1942, n. 239, in relazione agli artt. 3, 15, 41, 42, 47 e 53 della Costituzione.

L'ordinanza é stata ritualmente notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri, comunicata ai Presidenti dei due rami del Parlamento e pubblicata, per disposizione del Presidente della Corte costituzionale, nel n. 161 (28 giugno 1957) della Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

1. - La società AR.CO., rappresentata e difesa dall'Avv. Arturo Colonna, si é costituita nel presente giudizio depositando le sue deduzioni nella cancelleria il 10 giugno 1957. Successivamente il 21 novembre di quest'anno la società AR.CO. ha depositato una memoria nella quale in parte riprende, in parte tratta sotto diverso profilo, le tesi avanzate nelle deduzioni, a sostegno della tesi della illegittimità costituzionale dei provvedimenti impugnati; sicché giova esporre, per lo meno in parte, congiuntamente i punti essenziali dei due documenti, tanto più che sia il primo sia il secondo sono rimasti senza risposta da parte della difesa del Presidente del Consiglio, che ha depositato il suo atto di intervento quasi contemporaneamente all'atto di deduzioni della parte privata - e senza, quindi, tenerne conto - e non ha, poi, presentato memorie.

Premette la difesa della società AR.CO. che il R.D.L. 25 ottobre 1941, n. 1148, sorse con un carattere di intrinseca temporaneità. Entrato in vigore prima dell'entrata in vigore del Codice civile (21 aprile 1942), esso avrebbe dovuto cessare di avere applicazione a questa ultima data, se l'art. 25 del R.D. 16 febbraio 1942, n. 71, che contiene disposizioni per l'attuazione del V libro del Codice civile, riprodotto poi quasi testualmente nell'art. 109 del R.D. 30 marzo 1942, n. 318, che reca le disposizioni per l'attuazione del Codice civile, non avesse stabilito che "per le società per azioni soggette al R.D.L. 25 ottobre 1941 e per la durata di tale decreto non si applicano le disposizioni del libro V del Codice relative alle azioni al portatore". Ne sarebbe perciò derivata una sospensione dell'applicabilità delle norme del Codice civile, destinata a venir meno col venir meno dell'efficacia provvisoria e contingente del decreto in questione: efficacia provvisoria implicitamente, ma necessariamente connessa col fatto che la disciplina dei titoli azionari, in esso prevista, rappresentava un caso tipico di legge di guerra, legato alla durata dello stato di guerra e valido perciò soltanto per la durata della guerra.

Il decreto impugnato dunque non sarebbe più in vigore già da molto tempo e il relativo giudizio di legittimità costituzionale si dovrebbe concludere con una dichiarazione di infondatezza per sopraggiunta inefficacia delle norme denunciate.

Inoltre il ricordato art. 109 delle disposizioni di attuazione del Codice civile avrebbe rimandato l'entrata in vigore non già di tutte le norme del Codice civile relative ai titoli azionari, ma soltanto di quella contenuta nell'art. 2355, la sola relativa alle azioni al portatore, sicché sarebbero entrate in vigore, al 21 aprile 1942, tutte le disposizioni del libro IV relative ai titoli di credito e particolarmente ai titoli nominativi (artt. 1992 - 2027) e quelle del libro V relative alle azioni in generale, prescindendo dal loro carattere di azioni nominative o al portatore (artt. 2346 - 2362 con l'eccezione dell'art. 2355; artt. 2325, 2328, n. 5, 2424, n. 10, e 2425, n. 4). La conseguenza sarebbe che non sono stati in vigore dal 21 aprile 1942 nell'art. 5 del R.D.L. che fa divieto "alle società di possedere azioni di altre società per un valore superiore a quello del proprio capitale azionario" (che é una norma che non concerne specificamente le azioni "al portatore"), né le norme del R. D. 29 marzo 1942, n. 239, che ne derivano (artt. 30, 31, 32, 33, 34, e tanto meno le sanzioni penali comminate dall'art. 14 del citato decreto legge n. 1148). La stessa conclusione varrebbe per gli artt. 1, 2, 3, 5, 6, 8, 10, 12 del R. D. ora citato, inutili duplicazioni o innovazioni incompatibili rispetto agli articoli (2021, 2025, 2022, 2023, 2024, 2026, 1997, 2325, 2328, n. 5, 2370, 2000, 2027) del Codice civile.

3. - Se si volesse invece ritenere che i provvedimenti legislativi impugnati siano ancora in vigore, sarebbe evidente la loro illegittimità costituzionale.

In primo luogo l'art. 53 della Costituzione ponendo il principio che "tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva", legittima sì i poteri dello Stato e i correlativi oneri ed obblighi dei cittadini in materia tributaria, ma non consente la violazione di diritti costituzionalmente garantiti, che le leggi tributarie possono limitare solo in quanto siano limitabili secondo le norme della Costituzione. I provvedimenti impugnati violerebbero l'art. 53 in questo senso, nel senso cioè che alla norma in esso contenuta deriva dal coordinamento con le altre norme della Costituzione, segnatamente con quelle dell'art. 23 e degli artt. 2, 3, 14, 15, 16, 41, 42,47.

4. - In particolare essi violerebbero gli artt. 41, 42, 47 della Costituzione che pongono le regole fondamentali della libertà economica e della proprietà privata. Se é vero che questi medesimi articoli autorizzano limitazioni a questi diritti, é vero altrettanto, secondo la difesa della società AR.CO., che tali limitazioni devono trovare giustificazione nelle "cause" previste dalle medesime norme costituzionali come giustificatrici di una restrizione di quei diritti fondamentali del cittadino. Quando questo non sia, e la legge ordinaria non corrisponda ad una delle finalità previste dalla Costituzione, si avrebbe un eccesso di potere legislativo o un suo sviamento dal fine, che ne importerebbe la illegittimità costituzionale. Sarebbe il caso appunto dei provvedimenti in questione che non sono idonei a realizzare nessuna delle finalità indicate negli artt. 41, 42, 47 della Costituzione come cause lecite di eventuali deroghe ai principi di libertà economica: non quella di evitare il contrasto dell'iniziativa individuale con l'utilità sociale e il danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana (art. 41, primo cpv.); non quella di coordinare, legislativamente, l'attività economica pubblica e privata ai fini sociali (art. 41, secondo cpv.); né l'altra "di assicurare la funzione sociale della proprietà e renderla accessibile a tutti" (art. 42); né, infine, l'altra di favorire l'accesso del risparmio popolare al diretto o indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese" (art. 47).

5. - Violato sarebbe anche, dalla istituzione dello schedario generale previsto dal R.D.L. n. 1148, il principio della segretezza della corrispondenza che l'art. 15 della Costituzione vorrebbe inviolabile per ogni forma di comunicazione e così anche per tutte le comunicazioni contrattuali.

Ma violato soprattutto sarebbe il principio dell'uguaglianza dei cittadini consacrato nell'art. 3 della Costituzione. Già in sé il R.D.L. 21 ottobre 1941, n. 1148, feriva questo principio perché escludeva dalla sua sfera di efficacia le società italiane aventi sede nell'Africa italiana, e, quanto meno nel fatto, quelle estere operanti in Italia; ma, più ancora, esonerando dall'obbligo della nominatività i titoli al portatore emessi dallo Stato, dalle Province, dai Comuni e da altri Enti, nonché le obbligazioni. Senonché, codesta violazione si é accentuata con la emanazione da parte della Regione siciliana della legge 8 luglio 1948, n. 32, la quale ha consentito alle società per azioni di nuova costituzione nella Regione e che si propongano la costituzione e l'esercizio di nuovi impianti industriali o iniziative armatoriali, di emettere azioni al portatore, e con la legge sarda 12 aprile 1957, n. 10, che autorizza l'emissione di azioni al portatore da parte delle società aventi sede in Sardegna che si propongano di creare o gestire nuovi impianti industriali o nuove iniziative armatoriali che abbiano il porto di armamento nella Regione. Sarebbe assai significativo il fatto che da un lato l'Alta Corte per la Regione siciliana dichiarò il 7 agosto 1948 la legittimità costituzionale di quella legge siciliana, dall'altro che di quella sarda il Governo della Repubblica non ha contestato la legittimità.

Si tratterebbe, per altro, di una violazione non voluta dal più volte citato decreto legge, che anzi non fece distinzioni tra i cittadini, né ammise esenzioni di sorta, ma di una violazione per dir così sopravvenuta per effetto appunto di quelle due leggi regionali, che gli hanno tolto efficacia in alcune parti del territorio, ripristinando soltanto in queste le norme del Codice civile, che, invece, avrebbero dovuto tornare a entrare in vigore nello stesso tempo per tutti i cittadini e per tutto il territorio nazionale. Una legge regionale che deroghi alle norme statali in una materia, che, come questa, coinvolge anche il regolamento di rapporti di diritto privato, si porrebbe necessariamente come causa di decadenza in toto della contraria legge dello Stato.

6. - Nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso, come per legge, dall'Avvocato generale dello Stato.

Nell'atto d'intervento, depositato in cancelleria il 12 giugno 1957, la difesa del Presidente del Consiglio ha eccepito preliminarmente il difetto del presupposto processuale del giudizio di legittimità costituzionale richiesto dall'art. 134 della Costituzione e dall'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87. Il procedimento regolato dall'art. 2330 del Codice civile non sarebbe infatti né una controversia né un giudizio, ma un atto di controllo e di autorizzazione come é confermato dallo svolgimento storico dell'istituto. Anche se é difficile decidere in linea di principio quale sia il criterio distintivo tra atti giurisdizionali e atti con carattere ordinatorio o amministrativo che non comportano esercizio di giurisdizione anche se vanno sotto il nome generico di "volontaria giurisdizione", e se é vero che tale criterio debba rintracciarsi caso per caso, non potrebbe essere dubbio che il caso dell'art. 2330 del Codice civile non rientra in nessun modo tra quelli in cui, in procedimenti di volontaria giurisdizione, sono sottoposte al giudice questioni di diritto soggettivo con parti contrapposte, la cui risoluzione comporti un esercizio di giurisdizione. Ci si troverebbe invece di fronte a una situazione che l'Avvocato dello Stato definisce "strana", nella quale il magistrato chiamato a esercitare un controllo di legalità chiede consiglio alla Corte costituzionale, dopo aver constatato che l'atto da controllare é stato redatto in violazione di legge, constatazione che avrebbe imposto senz'altro il rifiuto dell'approvazione e della iscrizione nel registro delle società.

7. - Nel merito la difesa dello Stato sostiene la manifesta infondatezza della proposta questione di legittimità costituzionale. Talune delle norme costituzionali richiamate non avrebbero alcun rapporto concettuale con la nominatività obbligatoria dei titoli azionari: così l'art. 3 (uguaglianza dei cittadini davanti alla legge), l'art. 15 (segretezza della corrispondenza), l'art. 47 (incoraggia mento e tutela del risparmio). Le altre (art. 41, 42 e 53) conterrebbero direttive che lungi dal contrastare con la nominatività dei titoli, darebbero fondamento a disporla anche se la legge ancora non l'avesse preveduta e regolata. Gli articoli 41 e 42 stabiliscono e autorizzano limiti e controlli perché l'attività economica privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e perché la proprietà privata svolga la sua funzione sociale. Ora principale parte di questa funzione sociale é quella prevista dall'art. 53 per cui "tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva", e la nominatività delle azioni porrebbe appunto una delle condizioni di attuazione di questo precetto costituzionale.

8. - Alla eccezione pregiudiziale dell'Avvocatura la difesa della società AR.CO. ha risposto nella ricordata memoria del 21 novembre 1957, sostenendo che l'art. 134 della Costituzione non pone limitazioni di natura oggettiva perché possa validamente proporsi un giudizio di legittimità costituzionale. Le "controversie di cui quest'articolo parla sono quelle relative... alla legittimità costituzionale", non quelle in occasione delle quali la questione di legittimità viene proposta. Né il termine "causa" usato in talune disposizioni della legge 11 marzo 1953, n. 87, e nelle norme integrative del 16 marzo 1956, avrebbe significato rigoroso di procedimento di natura contenziosa, ma sarebbe adoperato come sinonimo di "processo" e di "giudizio". Di che sarebbe conferma l'art. 1 della legge cost. 9 febbraio 1948, n. 1, che parla genericamente di giudizio e di giudice, senza che se ne possa trarre criterio per una diversificazione tra categorie e specie di processi e di giudizi. L'unico requisito necessario e sufficiente sarebbe che tali processi o giudizi (quali che siano) si svolgano davanti a un'autorità giurisdizionale e che sia questa, o più semplicemente, un giudice, che, di ufficio o su istanza di parte, proponga la questione di legittimità costituzionale.

9. - Nella richiamata memoria la società AR.CO. sostiene anche l'incostituzionalità formale e del R.D.L. 25 ottobre 1941, n. 1148, e del R.D. 29 marzo 1942, n. 239.

Del primo, perché sarebbe stato emanato osservando la procedura prevista dall'art. 18 della legge 19 gennaio 1939, n. 129, in relazione con l'art. 3 della legge 31 gennaio 1926, n. 100, "per urgenti misure di carattere tributario", mentre il suo contenuto sarebbe soltanto parzialmente di tale natura; e perché sarebbe poi stato convertito in legge con la deliberazione della Commissione generale del bilancio e non dell'Assemblea plenaria della Camera o quanto meno di una Commissione legislativa.

Del secondo, perché, eccedendo i limiti fissati dall'art. 3, n. 1 (e forse si voleva dire art. 1, n. 1), della legge 31 gennaio 1926, n. 100, alla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche non poteva trovare fondamento se non in una delegazione di potere legislativo, per la quale sarebbe occorsa la deliberazione dell'Assemblea plenaria ai sensi dell'art. 15 della legge 19 gennaio 1939, e non sarebbe stata sufficiente quella, che si ebbe, della Commissione generale del bilancio: e che si trattasse di una delega, risulterebbe dall'art. 15 del più volte ricordato decreto legge 25 ottobre 1941, che una delega di potere legislativo avrebbe assunto richiesta.

10. - Infine il decreto legge n. 1148 sarebbe frutto di una volontà legislativa viziata nella sua formazione e nella sua manifestazione. Il legislatore, infatti, aveva posto espressamente alla sua volontà un limite - quello espresso dalla formula "ai soli effetti tributari" -, ma quest'autolimitazione del legislatore non venne osservata, perché in realtà si creò un unico inscindibile regime di emissione e di circolazione dei titoli azionari, nel quale é impossibile separare gli effetti tributari da quelli di altra natura: con che si sarebbe di fronte a un eccesso o a uno sviamento del potere legislativo manifestamente incostituzionale.

11. - All'udienza pubblica dell'11 dicembre 1957, le parti hanno svolto e illustrato le tesi proposte già nei rispettivi scritti defensionali. In particolare la difesa del Presidente del Consiglio ha controbattuto gli argomenti che, a sostegno della tesi della illegittimità costituzionale, la difesa della società AR.CO. aveva avanzato nell'atto di deduzioni e nella memoria illustrativa.

 

Considerato in diritto

 

1. - L'eccezione pregiudiziale sollevata dall'Avvocatura dello Stato, secondo la quale la Corte dovrebbe dichiarare "non esservi luogo a giudizio" per difetto del presupposto processuale del giudizio di legittimità costituzionale, non può essere accolta.

Non si dubita che il procedimento di omologazione previsto dall'art. 2330 del Codice civile sia di quelli che usa ricomprendere sotto la categoria della giurisdizione volontaria, né che l'attività del giudice sia, in questo caso, giurisdizionale, anche se manchi la lite e non vi sia contraddittorio fra le parti. Perciò anche nel corso di questo procedimento può essere sollevata una questione di legittimità costituzionale o su istanza di chi sottopone l'atto negoziale all'accertamento di legalità o dal P.M. o di ufficio dal giudice.

D'altra parte niente c'é nella Costituzione e nelle leggi che regolano la competenza della Corte costituzionale (leggi costituzionali e legge ordinaria), che imponga di escludere i procedimenti di giurisdizione volontaria dal novero di quelli nel corso dei quali possa sorgere una questione di legittimità costituzionale. A prescindere dalla esatta osservazione che il termine "controversie" del quale si serve l'art. 134 della Costituzione é da riferire non già al giudizio nel quale sorge la questione di legittimità costituzionale (per le quali questioni, del resto, il termine nemmeno é da interpretare necessariamente come espressione di un caso di giurisdizione contenziosa), e a prescindere altresì dall'altra osservazione, che i termini "giudizio" e "causa" tanto nella legge cost. 9 febbraio 1948, n. 1, quanto nella legge 11 marzo 1953, n. 87 (art. 23) e nelle norme integrative per i giudizi davanti a questa Corte, vengono adoperati in maniera generica e con vario significato, é fondamentale la considerazione che il sistema costruito dalla Costituzione e dalle leggi che per questa parte la integrano o le danno esecuzione, comporta che tutte le volte che l'autorità giurisdizionale chiamata ad attuare la legge nel caso concreto, cioè ad esercitare giurisdizione, dubiti fondatamente della legittimità costituzionale di questa, deve sospendere il procedimento e trasmettere gli atti all'organo costituzionale, che é il solo competente a risolvere il dubbio. Se é vero che il nostro ordinamento ha condizionato la proponibilità della questione di legittimità costituzionale alla esistenza di un procedimento o di un giudizio, é vero altresì che il preminente interesse pubblico della certezza del diritto (che i dubbi di costituzionalità insidierebbero), insieme con l'altro dell'osservanza della Costituzione, vieta che dalla distinzione tra le varie categorie di giudizi e processi (categorie del resto dai confini sovente incerti e contestati), si traggano conseguenze così gravi. Si può dire, anche, che la proponibilità alla Corte costituzionale di una questione di legittimità costituzionale dipenda non dalla qualificazione del procedimento in corso, ma dalla circostanza che il giudice (contenzioso o volontario che sia il processo) ritenga fondato il dubbio della legittimità costituzionale della legge che egli deve attuare. Del che, del resto, é riprova la inaccettabile conseguenza dell'opposta interpretazione, che sarebbe quella di un giudice costretto (incompetente come egli é a giudicare della costituzionalità della legge) ad applicare una legge, rispetto alla quale egli ritiene manifestamente fondata la questione di legittimità costituzionale.

2. - Nemmeno fondata é l'eccezione pregiudiziale sollevata dalla società AR.CO. Sostiene essa che il R.D.L. 25 ottobre 1941, n. 1148, e, di conseguenza, la legge di conversione del 9 febbraio 1942, n. 96, avesse, fin dal suo nascere e con sé connaturato, il carattere della provvisorietà, derivante dal momento nel quale esso fu emanato, che era tempo di guerra: cessata la guerra avrebbe dovuto cessare il vigore del provvedimento e, oggi, al giudizio di legittimità costituzionale mancherebbe addirittura l'oggetto.

In contrario va osservato che la temporaneità di un provvedimento legislativo deve risultare in maniera diretta ed esplicita, o indiretta, ma sempre esplicita, mediante il collegamento a fatti e circostanze che abbiano una durata determinata o determinabile. Il richiamo che la difesa della società AR.CO. fa all'art. 14 delle "Disposizioni sulla legge in generale" secondo il quale le leggi che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati", vale, semmai (nel caso cioè che la legge di cui si discute fosse una legge eccezionale), a sostegno della tesi ora enunciata. Per altro, sta di fatto che il decreto legge del 1941 non ha in sé niente che autorizzi a considerarlo di sua natura provvisorio. Il fatto che fosse nelle intenzioni del legislatore di avvalersi delle disposizioni che quel decreto recava, ai fini di una politica tributaria e finanziaria di guerra, non esclude che, così come fu costruito, quel provvedimento tosse valido al conseguimento di finalità diverse da quelle proprie dello stato di guerra. La nominatività obbligatoria dei titoli azionari (che, del resto, aveva già avuto precedenti legislativi nel nostro ordinamento), era da molti anni un provvedimento auspicato o combattuto, soprattutto per ragioni di politica fiscale. E gli stessi strumenti di accertamento fiscale che il provvedimento istituiva (quale lo schedario generale dei titoli azionari), e i termini che esso prevedeva (quelli dell'art. 8 relativi alla conversione dei titoli al portatore in titoli nominativi, che coprono un quindicennio), mostrano a sufficienza che la ratio della legge non era certo quella di una regolamentazione provvisoria e contingente.

Né la pretesa temporaneità (determinata e precisata come la vuole la società AR.CO.) può dedursi dall'art. 25 del R.D.L. 16 febbraio 1942, n. 71 (poi 109 del R.D. 30 marzo 1942, n. 318), il quale stabilisce che "per le società per azioni soggette al R.D.L. 25 ottobre 1941 e per la durata di tale decreto non si applicano le disposizioni del libro V del Codice relative alle azioni al portatore". Si tenga presente, infatti, che come risulta dalla relazione che accompagna quel decreto, nel dettare la norma si considerò soprattutto il caso di quelle società per azioni (come quelle che operavano nel territorio dell'Africa italiana), sottratte alla sfera d'efficacia del R.D.L. del 1941 e soggette, invece, alle norme del Codice civile, mentre la considerazione del "carattere" del decreto stesso venne in secondo luogo, senza che si chiarisse o specificasse quale fosse. Sicché la "durata" alla quale si fa riferimento nel ricordato art. 109 é generica e indeterminata anch'essa, e comunque in nessun modo collegabile con la durata della guerra, alla quale non é fatto richiamo né nel decreto legge del 1941, ne nella norma di attuazione del Codice civile.

3. - Inoltre la società AR.CO. sostiene la tesi dell'illegittimità costituzionale formale e del R.D.L. 25 ottobre 1941, n. 1148, e della legge di conversione 9 febbraio 1942, n. 96, nonché del R.D. 29 marzo 1942, n. 239: nel promulgare o nell'emanare questi provvedimenti non sarebbero state osservate le norme costituzionali che regolavano in quel tempo la formazione delle leggi e la produzione di norme giuridiche. Nemmeno questa tesi può essere accolta. Vero é che il R.D. 29 marzo 1942, n. 239, é una legge delegata che trova la sua fonte nell'art. 15 del decreto legge e della relativa legge di conversione, in base al quale, ai sensi dell'art. 3, n. 1 ("Con decreto reale, previa deliberazione del consiglio dei ministri, possono emanarsi norme aventi forza di legge: 1 quando il Governo sia a ciò delegato da una legge ed entro i limiti della delegazione..."), della legge 31 gennaio 1926, n. 100, il Governo era autorizzato a emanare "tutte le norme interpretative, integrative e complementari occorrenti per la organica disciplina della materia oggetto del presente decreto e particolarmente per l'intestazione ed il trasferimento dei titoli azionari nominativi, per l'impianto, la tenuta e il funzionamento dello schedario generale dei titoli azionari". Ma é vero anche che, per una delega siffatta, non occorreva la deliberazione dell'Assemblea plenaria della Camera e del Senato, dato che l'art. 15 della legge 19 gennaio 1939, n. 129, richiedeva la discussione e la votazione della Camera e del Senato "nelle rispettive assemblee plenarie" soltanto per le "deleghe legislative di carattere generale". Ora é di tutta evidenza che la delega conferita con l'art. 15 del decreto legge e della legge di conversione, delega della quale sono stati riferiti l'oggetto e i limiti, non può certo qualificarsi una delega di carattere generale; e si può anche aggiungere che il provvedimento legislativo delegato si tenne nei limiti della legge di delegazione.

L'illegittimità formale del decreto legge del 1941 deriverebbe. invece dal fatto che il Governo si avvalse della facoltà prevista dall'art. 18 della ricordata legge del 1939 in un caso da questo articolo non previsto. Premessa a questa censura é la dimostrazione del carattere soltanto parzialmente tributario del provvedimento. Senonché, é da osservare che l'art. 18 della legge del 1939 consentiva di provvedere con decreto reale (fermo l'obbligo della conversione in legge ai sensi del secondo comma e seguenti dell'art. 3 della legge 31 gennaio 1926, n. 100), quante volte si fosse versato in istato di necessità per causa di guerra "o per urgenti misure di carattere tributario o finanziario".

Ora nessun dubbio può sussistere intorno al fatto che le misure adottate col decreto legge del 1941 fossero, oltre che di natura tributaria, anche e più generalmente di natura finanziaria (e a misure siffatte fa esplicito riferimento il preambolo del decreto legge), e quindi tutte riconducibili validamente nell'ambito del citato art. 18.

Nemmeno accoglibile il rilievo che non fosse competente la Commissione generale del bilancio a operare la conversione in legge del decreto, non rinvenendosi in nessun articolo della legge del 1939 una norma che imponga per le leggi di conversione il ricorso all'Assemblea plenaria e renda quindi illegittima quella contenuta nell'art. 26 del Regolamento della Camera del 1938 che riconosce appunto alla Commissione generale del bilancio la competenza di approvare i "provvedimenti legislativi promossi dall'amministrazione finanziaria" e quindi, correlativamente, la conversione in legge dei decreti legge aventi la medesima provenienza.

4. - Occorre appena avvertire, passando al merito della proposta questione di costituzionalità, che la Corte non ha ragione di indagare sul fondamento delle tesi economico - finanziarie che si affrontano intorno al tema della nominatività obbligatoria dei titoli azionari. Che un sistema il quale faccia perno su codesta nominatività obbligatoria giovi ai fini della personalità e progressività della imposta più o meno di altri sistemi i quali ricorrano, ad esempio, alla nominatività dei redditi azionari; che un'imposta cedolare possa conseguire una redditività maggiore di un'altra che, invece, si fondi sull'accertamento globale del reddito personale; che la nominatività dei titoli azionari consenta oppure no di raggiungere altri fini non fiscali, quali quelli antimonopolistici o di un'ordinata vita delle società per azioni, sono tutti problemi di politica finanziaria e tributaria, intorno ai quali la Corte non deve esprimere opinioni.

Delimitato così il campo, va affermato che le censure mosse al decreto legge in questione si rilevano inconsistenti. La nominatività obbligatoria dei titoli azionari (artt. 1 e 2 del R.D.L. 25 ottobre 1941); la creazione di uno schedario generale di questi titoli e l'obbligo fatto agli agenti di cambio, ai notai, alle aziende di credito, alle società emittenti, di dare comunicazione all'amministrazione finanziaria delle operazioni concluse e delle annotazioni iscritte nel libro dei soci (art. 4), nonché le sanzioni comminate per l'inosservanza di questi obblighi (art. 14); il divieto fatto alle società per azioni di possedere azioni di altre società "per un valore superiore a quello del proprio capitale azionario" (art. 5), sono tutte disposizioni che non si riesce a vedere come violino l'iniziativa economica privata (art. 41 della Costituzione), la proprietà privata (art. 42 della Costituzione), "la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione" (art. 15 della Costituzione). Si deve in primo luogo osservare che i limiti che la Costituzione consente di porre con legge ordinaria alla libera iniziativa economica e alla proprietà privata in funzione del raggiungimento di fini sociali, sono tali da giustificare ampiamente le disposizioni impugnate del decreto legge del 1941. Preminente é, tra questi fini sociali, assicurare l'adempimento dell'obbligo tributario e la progressività delle imposte, principi consacrati dall'art. 53 della Costituzione, alla cui attuazione non é dubbio che la nominatività dei titoli azionari possa essere diretta.

Ma per legittimare talune delle disposizioni impugnate non occorre nemmeno fare ricorso alla potestà che la Costituzione conferisce al legislatore ordinario di apportare limiti alla iniziativa economica privata o alla proprietà privata, dato che esse regolano i modi di essere e le condizioni del legittimo esercizio di questi medesimi diritti nessuno dei quali può essere considerato affatto privo di limitazioni e di regole. Questo é da dire in ispecie della nominatività dei titoli azionari che, anziché costituire una violazione della libera iniziativa privata, rappresenta il regolamento di un particolare titolo di credito, come il regolamento di uno degli elementi costitutivi delle società per azioni é il divieto fatto dall'art. 5.

Dell'invocato art. 15 c'é da dire anche di più: che esso cioè é richiamato a torto, altra cosa essendo il segreto epistolare e di ogni altra forma di comunicazioni (telefoniche, telegrafiche e via), garantito da questa norma e altra cosa l'obbligo fatto a pubblici ufficiali, ad aziende di credito, e a società per azioni di comunicare all'Amministrazione finanziaria e al fine di costituire lo schedario generale, dati in loro possesso. E nemmeno si vede come la difficoltà che dalla nominatività dei titoli azionari derivi a taluni tipi di investimenti di capitale o alla circolabilità di una categoria di beni mobili, violi l'impegno fatto dalla Costituzione al legislatore ordinario di incoraggiare e tutelare il risparmio e di favorire l'accesso del risparmio popolare "al diretto e indiretto investimento azionario" (art. 47 della Costituzione). La diminuita propensione verso questa specie di risparmio può significare accresciuta propensione per altre specie; ed é un'opinabilissima notazione psicologica, senza alcuna rilevanza giuridica, l'affermazione che il piccolo risparmiatore debba temere più del grosso investitore, di ricorrere ai titoli nominativi. Sicché non é nemmeno necessario esaminare il fondamento della tesi della difesa della soc. AR.CO. se il legislatore nello stabilire le norme, delle quali é discussione, si propose di raggiungere le finalità indicate nei ricordati articoli della Costituzione e se adoperò i mezzi idonei al raggiungimento di tal fine; e se proponendosi di conseguire finalità fiscali e realizzando invece il regolamento di materia extrafiscale, abbia espresso una volontà viziata e contraddittoria.

Una maggiore consistenza mostra invece l'argomento tratto dall'art. 3 della Costituzione che consacra il principio della eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, principio che sarebbe stato violato per effetto dell'entrata in vigore delle leggi siciliana e sarda, ricordate nella parte narrativa. Ma la situazione che ne é derivata potrebbe, se mai, far sorgere il problema della costituzionalità di quelle leggi regionali oppure determinare un contrasto di interessi tra Regioni e Stato - problemi dei quali il primo non può essere sollevato davanti alla Corte in questa sede, l'altro esula dalle sue competenze -, ma non può condurre alla conseguenza, sostenuta dalla difesa dell'AR.CO., che debba affermarsi l'incostituzionalità della legge statale.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

respinte le eccezioni pregiudiziali;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2, 5 e 14 del R.D.L. 25 ottobre 1941, n. 1148 convertito con modificazioni nella legge 9 febbraio 1942, n. 96 e del R.D. 29 marzo 1942, n. 239, in riferimento alle norme contenute negli artt. 3, 15, 41. 42, 47 e 53 della Costituzione. proposta con ordinanza del Tribunale di Pinerolo in data 18 maggio 1957.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 dicembre 1957.

Gaetano AZZARITI – Giuseppe CAPPI - Tomaso PERASSI - Gaspare AMBROSINI - Ernesto BATTAGLINI - Francesco PANTALEO GABRIELI - Antonino PAPALDO - Mario BRACCI - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Antonio MANCA.

 

Depositata in Cancelleria il 12 dicembre 1957.