CONSULTA ONLINE 

 

LARA TRUCCO

 

ANCORA UN “VIA LIBERA” DELLA CORTE DI LUSSEMBURGO ALLA “CIRCOLAZIONE” DEI COGNOMI

(UN ALTRO CONTRIBUTO ALL’ELABORAZIONE PRETORIA DELLO “STATUTO EUROPEO DEL NOME”)

 

Corte di Giustizia (Grande Sezione), sent. del 14 ottobre 2008

C-353/06, Stefan Grunkin e Dorothee Regina Paul

 

 (per gentile concessione della Rivista “Giurisprudenza Italiana”)

 

 

Sommario: 1. I fatti all’origine della questione. – 2. Il cognome tra lex mercatoria e diritti fondamentali. – 3. Le argomentazioni “processuali” del giudice di Lussemburgo. – 4. Segue: …e quelle “sostanziali” del giudice di Strasburgo. – 5. Il problematico regime del cognome nell’ordinamento nazionale: le “chiusure”… – 6. Segue: …e le “aperture” del giudice costituzionale e della Cassazione. – 7. Quale incidenza della decisione della Corte di giustizia nell’ordinamento interno.

 

 

1. I fatti all’origine della questione.

 

Dopo il «caso Konstantidinis», in cui la Corte di Giustizia ha ingiunto agli Stati membri di procedere alla corretta traslitterazione negli atti di stato civile dei cognomi dei cittadini comunitari[1], e il «caso García Avello» in cui ha riconosciuto il diritto dei figli di portare il cognome di cui sono titolari in forza del diritto e della tradizione dello Stato di appartenenza[2], il caso «Grunkin-Paul»[3], che qui si commenta, costituisce un ulteriore importante tassello nella definizione dello «Statuto del cognome» dei cittadini europei.

Ma ecco i fatti. Un minore, cittadino tedesco nato in Danimarca da coniugi tedeschi e residente fin dalla nascita nel Paese scandinavo, veniva iscritto, conformemente al diritto danese[4], col “doppio cognome” “Grunkin-Paul” sull’atto di nascita e sul certificato di riconoscimento del nome (“navnebevis”) danesi.

Rivoltisi agli uffici dello stato civile tedesco per ottenere, anche in Germania, l’iscrizione del figlio nel libretto di famiglia, i predetti coniugi si vedevano però respingere l’istanza, in quanto, in forza dell’art. 10 dell’EGBGB (Einführungsgesetz zum Bürgerlichen Gesetzbuch), il cognome della persona è disciplinato dalla legge dello Stato di cui essa possiede la cittadinanza e il diritto tedesco prevede l’attribuzione di un solo “cognome” e non di un doppio cognome composto (nella specie) da quello del padre e da quello della madre.

Nonostante le ulteriori procedure messe in atto per il riconoscimento del cognome e benché nel frattempo fosse intervenuto il divorzio, il problema non veniva superato. Ricevuto l’ennesimo diniego da parte dello Standesamt di Niebüll[5], i due genitori (tra cui nel frattempo era intervenuto il divorzio) adivano l’Amtsgericht di Flensburg (in quanto Familiengericht), chiedendo che venisse ingiunto all’amministrazione di riconoscere il cognome del figlio così come determinato e registrato in Danimarca, procedendosi quindi alla sua iscrizione nel libretto di famiglia tedesco.

Il magistrato di Flensburg, pur allineandosi all’evidenza sull’inammissibilità del riconoscimento del doppio cognome, nutrendo tuttavia dubbi sulla compatibilità col diritto comunitario del fatto che un cittadino dell’Unione si trovi a portare un cognome diversificato in Stati membri differenti, si rivolgeva in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia delle Comunità.

 

2. Il cognome tra lex mercatoria e diritti fondamentali.

 

Anche senza dover rievocare nel dettaglio i citati precedenti casi della Corte di Giustizia, dovrebbe essere evidente come due tratti fondamentali accomunino la triade di decisioni: da un lato, il riconoscimento del diritto al mantenimento del cognome rivendicato dal soggetto interessato, in quanto meglio idoneo a riflettere una certa aspettativa “identitaria”; e, dall’altro, la tutela della libertà di circolazione, nelle varie forme in cui questa è suscettibile di manifestarsi.

Sotto un più ampio profilo, tale filone giurisprudenziale conferma la strategia d’integrazione che (verosimilmente nell’inerzia vigile delle altre Istituzioni comunitarie e degli Stati) la Corte sta portando avanti anche in materie che, come quella qui riguardata, «allo stato attuale del diritto comunitario» continuano a rientrare «nella competenza degli Stati membri» e a costituire addirittura il “ponte di collegamento” tra individuo e ordinamento giuridico statuale di appartenenza.

L’idea di fondo sarebbe che tutte le norme dell’ordinamento statale al quale si appartiene per cittadinanza «devono rispettare il diritto comunitario», almeno nel senso spiccatamente “comunitaristico”, che non devono costituire un ostacolo per l’esercizio del diritto a circolare e soggiornare liberamente nel territorio europeo. Ciò che può anche vedersi come un ulteriore approfondimento della strategia dell’incorporation, ruotante intorno al principio di “eguaglianza”, a sua volta fondato sul concetto di “cittadinanza europea”[6], con l’obiettivo di garantire “pari opportunità” ai cittadini dell’Unione indipendentemente dal Paese membro di appartenenza. Approccio che, pur non mancando di rispettare le diverse discipline nazionali, finisce per dare impulso alla concorrenzialità tra sistemi, dando modo ai cittadini europei, ricorrendone le condizioni, di optare per il regime giuridico – nel caso di specie, in vista dell’attribuzione del cognome – reputato più consono alle proprie aspettative.

A quest’ultimo riguardo, la decisione si segnala anche per la particolare valorizzazione, tra i “parametri” di collegamento con lo Stato di opzione, della “residenza”, benché elettivamente gravitante nell’ambito di spettanza del diritto nazionale[7]. Ed infatti, mentre nelle anteriori pronunce, ciò che si rivendicava era, a ben vedere, la conservazione del cognome ottenuto nello Stato di cittadinanza, nella fattispecie, è il mantenimento di quello ottenuto nel Paese di residenza (in relazione alla quale mette conto osservare come essa rappresenti un legame alquanto più labile, essendo sufficiente in genere dimostrare di dimorare stabilmente in una determinata località, su una base dunque essenzialmente “volontaria”[8]). Derivandone, in ultima istanza, la possibilità di una sorta di forum shopping a livello comunitario nella scelta del cognome: circostanza, questa, che dovrebbe indurre una maggiore attenzione al problema, se non da parte delle altre Istituzioni comunitarie (che sarebbero comunque costrette a “giocare al ribasso”, data la difficoltà a trovare un regime giuridico, in materia, condiviso)[9], certamente da parte degli Stati (specie i più tradizionalisti), nell’allestire discipline interne maggiormente rispondenti alle personali aspettative identitarie e di vita dei propri cittadini.

 

3. Le argomentazioni “processuali” del giudice di Lussemburgo.

 

Nel merito della decisione, il giudice comunitario arriva a censurare il regime regolativo tedesco di individuazione della normativa applicabile per la “registrazione” del nome patronimico, che, non consentendo di “recepire” il cognome attribuito in un altro Stato, finirebbe per «generare per gli interessati seri inconvenienti di ordine tanto professionale quanto privato», date le difficoltà che ne scaturirebbero a giovarsi di determinati atti e documenti (riprendendo gli esempi proposti dal giudice comunitario: attestati, certificati e diplomi per fruire di una qualsiasi prestazione o di un qualsiasi diritto, oppure per attestare il superamento di prove o l’acquisizione di capacità). In particolare, il fatto che il cognome figurante nel documento esibito non corrisponda a quello effettivamente utilizzato renderebbe incerti sia l’autenticità dei documenti prodotti, sia la veridicità dei dati in essi contenuti, producendosi il “rischio” per il soggetto «di essere obbligato a dissipare dubbi sulla sua identità e ad allontanare sospetti di falsa dichiarazione», con pregiudizio per la sua libertà di circolare nello spazio europeo ex art. 18 TCE.

Di fronte ai «seri inconvenienti» causati dal «collegamento esclusivo della determinazione del cognome alla cittadinanza» operato dal diritto internazionale privato tedesco, il giudice comunitario non ravvisa dunque alcun motivo né di ordine pubblico né, più in generale «talmente importante da giustificare che le autorità competenti di uno Stato membro […] rifiutino di riconoscere il cognome di un figlio così come esso è stato determinato e registrato in un altro Stato membro in cui tale figlio è nato e risiede sin dalla nascita». Non ragioni di certezza e continuità giuridica, considerato che, anzi, come dimostra il caso di specie, l’esclusivo collegamento con la cittadinanza per determinare il cognome della persona può condurre all’opposto risultato di farla risultare in possesso di più cognomi. Né, tanto meno, il rilievo della maggiore «praticità amministrativa» del “cognome unico”, a fronte dell’eccessiva lunghezza dei “doppi cognomi” e delle difficoltà che esso può creare, in particolare, alle generazioni successive che si trovino a non poter più disporre delle stesse possibilità di combinazione della generazione precedente o, all’opposto, a dover rinunciare ad una parte del cognome dei propri antenati; tanto più lo stesso ordinamento tedesco mostra di consentire eccezioni delle proprie regole di conflitto, riconoscendo sia ai figli che hanno uno dei genitori cittadino di un altro Stato di vedersi attribuire un cognome secondo la normativa di tale sistema; sia a quelli che, analogamente al caso in esame, al pari dei genitori, non possiedano la cittadinanza tedesca, di ottenere un cognome secondo la normativa tedesca quando venga dimostrato che la residenza abituale di uno dei genitori si trovi in Germania.

 

4. Segue: …e quelle “sostanziali” del giudice di Strasburgo.

 

Merita dunque di essere senz’altro segnalata la tendenza della Suprema Corte comunitaria ad assecondare al possibile determinate istanze individuali[10], sia pur nell’ambito di un sindacato attento all’individuazione della “legge applicabile” per l’attribuzione del cognome. Significativo è che, in un’ottica ora esclusivamente focalizzata sulla “sostanza” dello “statuto del cognome”, un approccio per più versi analogo è ravvisabile anche nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Anche la Corte di Strasburgo, infatti, ha dimostrato una certa sensibilità nei confronti delle aspettative “identitarie” dei soggetti riguardati, muovendo da un’accezione della nozione di “vita privata” (ex art. 8 CEDU) «comme englobant, dans une certaine mesure, le droit pour l’individu de nouer et développer des relations avec ses semblables, y compris dans le domaine professionnel ou commercial»[11]. Ciò anche con riferimento al nome che, «En tant que moyen d’identification personnelle et de rattachement à une famille […] n’en concerne pas moins la vie privée et familiale de celle-ci». In particolare, a quest’ultimo riguardo, la Corte, considerando «que la progression vers l’égalité des sexes est aujourd’hui un but important des Etats membres du Conseil de l’Europe», giunge a concludere che «Rien ne différencie non plus le choix, par les époux, de l’un de leurs patronymes, de préférence à l’autre, comme nom de famille» mentre «Il ne se justifie donc pas de l’assortir de conséquences variant selon le cas»[12].

Su questa base è stato sviluppato un controllo giurisdizionale piuttosto orientato a censurare normative ingiustificatamente discriminatorie per determinate categorie di soggetti (ex art. 14 CEDU), ritenute di riflesso lesive del principio di autonomia privata (ex art. 8 CEDU). Così nel caso Burghartz, di cui sono tratte le argomentazioni appena riportate, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha reputato discriminatorio in riferimento al sesso il rifiuto dell’autorità svizzera di consentire – questa volta al marito (!) – di aggiungere al cognome della moglie scelto come nome della famiglia, anche il proprio, dal momento che il diritto svizzero accorda tale possibilità nel caso in cui sia invece il nome del marito ad esser scelto come nome della famiglia. E nel caso Ünal ha giudicato parimenti discriminatoria sulla base del sesso una normativa che, in seguito al matrimonio, imponeva alla donna la perdita dell’“esclusività” del cognome d’origine, consentendone solo l’aggiunta a quello del marito[13]. In questi casi la personale aspirazione al mantenimento del proprio nome, segno e simbolo della personalità individuale, è stato ritenuto prevalente rispetto ad interessi di ordine pubblicistico (l’interesse dello Stato a regolamentarne l’utilizzo nel caso Burghartz, o l’esigenza di salvaguardare l’unità familiare nel caso Ünal).

Maggiormente controversa si è rivelata invece l’ipotesi in cui l’esigenza “identitaria” si è concretizzata in una rivendicazione non, per così dire, “in negativo” di mantenimento, ma “in positivo”, di cambiamento del cognome: la Corte, infatti, non ha ritenuto di dover ravvisare la presenza di un diritto “alla scelta” del cognome, nemmeno dinnanzi a denunciate difficoltà di ortografia e di pronuncia e alla dimostrazione del già avvenuto impiego, del nome patronimico controverso, da parte di avi del soggetto richiedente[14].

 

5. Il problematico regime del cognome nell’ordinamento nazionale: le “chiusure”…

 

In linea con la giurisprudenza di Strasburgo sembra quel filone giurisprudenziale nazionale che, configurando il cognome alla stregua di un profilo inviolabile dell’identità individuale, si è rivelata attenta a salvaguardarne la “conservazione”, oltre che l’“ottenimento”[15], con ciò preparando la strada ad altri giudici, quando si sono trovati a dover decidere questioni analoghe di “rivendicazione” dell’“integrità” del nome patronimico stesso[16]. È per quanto riguarda invece il versante “rivendicativo”, dato dal riconoscimento della facoltà individuale di cambiare le proprie generalità anagrafiche, che la giurisprudenza interna presenta maggiori aperture rispetto a quella di Strasburgo. Più precisamente, posta la non predicabilità di un diritto soggettivo incondizionato ad ottenere la modifica del proprio cognome, può dirsi che le posizioni favorevoli all’amministrazione (secondo cui «la salvaguardia dell’interesse pubblico alla tendenziale stabilità del nome, connesso ai profili pubblicistici dello stesso come mezzo di identificazione dell’individuo nella comunità sociale, può», ma non deve «venire contemperata con gli interessi di coloro che quel nome intendano mutare o modificare»[17]) siano state superate da un parere reso dal Consiglio di Stato, propenso ad un «ampio riconoscimento della facoltà di cambiare il proprio cognome (nel caso di specie assumendo quello della madre) a fronte del quale la sfera di discrezionalità riservata alla PA deve intendersi circoscritta alla individuazione di puntuali ragioni di pubblico interesse che giustifichino il sacrificio dell’interesse privato del soggetto al cambiamento del proprio cognome, ritenuto anch’esso meritevole di tutela dell’ordinamento»[18].

Dal canto suo, la Corte costituzionale sembra avere adottato una posizione agnostica, lasciando passare indenne sia la normativa accordante ai soggetti transessuali il diritto al cambiamento del nome di origine contenuta nella L. 14 aprile 1982 n. 164 in materia di rettificazione di attribuzione di sesso[19], sia quella, in certo modo di segno opposto, che tutela il diritto all’anonimato della madre che abbandoni il figlio negli appositi presidi ospedalieri, a discapito dell’aspettativa di questi a conoscerla e ad assumerne il cognome, fatta propria dall’art. 28, 7° comma, della L. n. 184 del 1983 sull’adozione e l’affidamento dei minori[20].

Un atteggiamento analogo è riscontrabile anche in ordine alle problematiche in punto di individuazione del regime di attribuzione del nome patronimico. La mancanza, infatti, di una norma esplicita sul punto ed i dubbi di compatibilità della disciplina (rectius: prassi)[21] con i principi costituzionali, hanno portato i giudici ordinari a rivolgersi a più riprese alla Corte costituzionale, confidando in un’utile risoluzione della questione. Tuttavia, pur non mancando, sin dalle prime pronunce[22], di evidenziare i profili di criticità della situazione, al punto da invocare l’applicazione di «un criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi», il giudice delle leggi è rimasto poi fermo nel ritenere di esclusiva spettanza del legislatore la possibilità di intervenire in materia, considerata, da un lato, la varietà delle soluzioni adottabili a riguardo, e, dall’altro lato, il rischio dell’emergere di “vuoti legislativi” in punto di attribuzione del cognome. Ancora di recente, chiamata dalla Cassazione[23] a pronunciarsi nuovamente sulla questione, nel ribadire «che l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna», essa ha riconfermato che «l’intervento che si invoca con la ordinanza di rimessione», fuoriuscendo dallo schema delle “rime obbligate” [24], «richiede una operazione manipolativa esorbitante dai poteri della Corte»[25].

 

6. Segue: …e le “aperture” del giudice costituzionale e della Cassazione.

 

Ciò nonostante, all’indomani delle decisioni nn. 348 e 349 del 2007 dello stesso giudice costituzionale[26], la Cassazione ha ritenuto di mettere nuovamente in discussione il problema della compatibilità della disciplina italiana sull’attribuzione del cognome con i principi costituzionali, prospettando l’intervento delle Sezioni Unite, in considerazione del rinnovato obbligo per il legislatore ordinario di rispettare le norme e i principi di origine sopranazionale ex art. 117, 1° comma Cost.[27]. La Sezione Prima civile della Cassazione ha dato infatti rilievo all’art. 16, 1° comma, lettera g), della “Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna”, che impegna gli Stati contraenti, tra cui l’Italia, ad adottare tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti familiari, assicurando, in particolare «gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome...»[28]. Inoltre, ha richiamato sia la risoluzione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 27 settembre 1978, n. 376, che ha invitato gli Stati membri ad eliminare ogni discriminazione fondata sul sesso nella scelta del nome della famiglia e nella trasmissione dei nomi dai genitori ai figli; sia le due raccomandazioni del Consiglio d’Europa del 28 aprile 1995 n. 1271, con cui si è chiesto agli Stati membri di adottare misure appropriate per garantire una rigorosa eguaglianza tra i coniugi nella scelta del nome della famiglia e del 18 marzo 1998, n. 1362, che, nel reiterare gli inviti precedentemente formulati, ha sollecitato gli Stati membri ad indicare entro quale termine adotteranno le misure antidiscriminatorie; sia, last but not least, gli artt. 8 e 14 della CEDU, così come interpretati dalla Corte di Strasburgo nella giurisprudenza di cui s’è più sopra trattato[29].

In questo mutato quadro ordinamentale, è stata però la stessa Prima Sezione a rappresentare la duplice alternativa o di un’interpretazione adeguatrice della disciplina, orientata ai principi desumibili dalle normative internazionali in proposito rilevanti (CEDU, ma anche le altre citate regolamentazioni di carattere internazionale); o, nel caso in cui dovesse ritenersi non consentita una simile operazione ermeneutica, di una nuova questione di costituzionalità della norma “interna”[30], riconvertendo le normative in parola in altrettanti parametri di giudizio ex art. 117, 1° comma Cost. (offrendosi, tra l’altro, l’occasione per precisare l’esatto statuto parametrico di stipulazioni internazionali diverse dalla Convenzione di Roma[31]).

7. Quale incidenza della decisione della Corte di giustizia nell’ordinamento interno.

 

Nell’attesa, sembra comunque ipotizzabile un qualche effetto in ambito interno della decisione comunitaria in commento. Intanto, sul piano pratico, difficilmente dovrebbe restare senza conseguenze la possibilità ora riconosciuta a chiunque intenda attribuire al proprio figlio il “doppio cognome”, di prendere (ove ne abbia le possibilità…) la residenza danese[32] in vista di far nascere qui la propria prole, per richiedere poi la trascrizione del nome patronimico nel proprio ordinamento di appartenenza. In punto di principio, poi, l’ammissibilità, che dalla pronuncia parrebbe emergere, di una varietà di opzioni relative alla disciplina del “nome patronimico” nell’ambito di cui effettuare la scelta, potrebbe portare al superamento dell’idea della necessaria “unità” regolamentativa circa i modi di attribuzione del cognome, ferme restando le esigenze di stabilità identificativa. Ma,  soprattutto, dovrebbero essere ulteriormente[33] aggiornati i “criteri di recepimento” dei cognomi “esteri”, considerato che l’art. 98, comma 2° del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 prevede che l’ufficiale dello stato civile, al momento di ricevere l’atto di nascita di un cittadino nato all’estero «al quale sia stato imposto un cognome diverso da quello ad esso spettante per la legge italiana», debba provvedere d’ufficio alla correzione dell’atto di nascita secondo la normativa italiana: portando dunque all’attribuzione del cognome paterno, e ciò senza eccezioni proprio nei casi analoghi a quello affrontato dal giudice comunitario nel sentenza in commento (in presenza, cioè, di soggetti in possesso della sola cittadinanza italiana nati tuttavia all’estero, a cui è stato attribuito un cognome diverso da quello che avrebbero acquisito in Italia)[34].

 

 

 



[1] V. Corte giust. CE, 30 marzo 1993, in causa C-168/91, Christos Konstantidinis c. Stadt Altensteig (reperibile, come le altre decisioni della Corte di giustizia che si richiameranno nel prosieguo, in https://www.curia.eu.int).

[2] V. Corte giust. CE, 2 ottobre 2003, in causa C-148/02, García Avello c. Stato belga, in Giur. It., 2004, 2009.

[3] La domanda di pronuncia pregiudiziale, pubblicata in Gazz. Uff. C 281 del 18 novembre 2006, è stata sottoposta alla Corte di Giustizia dall’Amtsgericht di Flensburg (Tribunale tedesco), nell’ambito di una controversia tra il sig. Grunkin e la sig.ra Paul e lo Standesamt Niebüll (Ufficio dello stato civile della città di Niebüll), in merito al rifiuto, da parte di quest’ultimo, di riconoscere e iscrivere il cognome del figlio Leonhard Matthias, così come esso era stato determinato e registrato in Danimarca nel libretto di famiglia tedesco. La Corte è stata chiamata a chiarire «se, alla luce del divieto di discriminazione contenuto nell’art. 12 CE e in considerazione della libertà di circolazione garantita ad ogni cittadino dell’Unione dall’art. 18 CE, sia valida la norma di conflitto prevista dall’art. 10 dell’EGBGB [Einführungsgesetz zum Bürgerlichen Gesetzbuch] in quanto, riguardo alla normativa sul nome di una persona, essa fa riferimento solo alla cittadinanza».

[4] Al riguardo, l’Avv. Gen. E. Sharpston precisa che: «Ai sensi del diritto internazionale privato danese, le questioni relative alla determinazione del cognome di una persona sono disciplinate dalla legge dello Stato in cui la detta persona ha la propria residenza (ossia la propria dimora abituale), come definita dalla legge danese. Pertanto, qualora occorra determinare il cognome di una persona che risiede abitualmente in Danimarca, trova applicazione la legge danese» (così nelle Conclusioni presentate il 24 aprile 2008, par. 11).

[5] Peraltro, trovatosi in precedenza a dover decidere in punto di conferimento, a uno dei genitori, del diritto di determinare il cognome del figlio in applicazione dell’art. 1617 del BGB, lo Standesamt si era rivolto all’Amtsgericht di Niebüll, che, a sua volta, con decisione 2 giugno 2003 aveva sottoposto alla Corte di giustizia una domanda di pronuncia pregiudiziale. Il giudice comunitario si era però dichiarato incompetente a risolvere la questione, ritenendo che l’Amtsgericht Niebüll fosse stato adìto nell’ambito di un procedimento di volontaria giurisdizione, e stesse agendo dunque non nell’esercizio di un’attività giurisdizionale ma in qualità di autorità amministrativa (v. Corte giust. CE, 27 aprile 2006, in causa C-96/04, Standesamt Stadt Niebüll).

[6] In questo senso cfr., tra gli altri, E. Castorina (Il caso «Garcia Avello» innanzi alla Corte di giustizia: conferme e caute aperture in materia di cittadinanza europea, in Giur. It., 2004, 2013) il quale ritiene che la regola desunta dalla Corte lussemburghese nel caso García Avello per cui nei settori ratione materiae rientranti nell’applicazione del Trattato ciascuno Stato membro deve farsi carico di non discriminare il cittadino nazionale ove il medesimo possieda parimenti la cittadinanza di altro Stato membro, costituisca «una nuova ed ulteriore sfaccettatura del carattere «complementare» della cittadinanza europea».

[7] Scrive al proposito l’Avv. Gen.: «si tratta chiaramente di un ambito in cui la corte deve procedere con cautela e attenzione. Ma proprio perché deve procedere con cautela, ciò non significa affatto che debba avere timore di procedere» (v. Conclusioni, cit. par. 41). Più avanti, lo stesso affermerà di non aversi a che fare con alcuna modifica rilevante della normativa sostanziale sul conflitto di leggi in materia «bensì semplicemente la possibilità di concedere un più ampio spazio al riconoscimento della scelta di un nome validamente operata in precedenza in conformità alle leggi di un altro Stato membro», per cui, in questo senso, tale approccio implicherebbe «semplicemente l’applicazione del principio del mutuo riconoscimento che caratterizza gran parte del diritto comunitario, non soltanto per quanto concerne la sfera economica ma anche le materie civili» (v. Conclusioni, cit. par. 91).

[8] Sulla tendenza, in ambito europeo, ad espandere la concezione individualistica dei diritti e sui rischi ad essa connessi si veda per tutti M. Cartabia, L’ora dei diritti fondamentali nell’Unione Europea, in I diritti in azione, a cura di M. Cartabia, Bologna 2007, 33 e segg.

[9] Al proposito, l’Avv. Gen. ritiene «certamente vero che tali questioni sarebbero più semplici se si fosse adottata una normativa comunitaria per disciplinare la situazione (ovvero se tutti gli Stati membri facessero parte dell’ICCS e avessero tutti ratificato le sue convenzioni). Inoltre, una soluzione legislativa o convenzionale sarebbe adeguata in un tale ambito. Le discussioni che precedono l’adozione del diritto comunitario o gli accordi multilaterali sono necessariamente più lunghe, più approfondite, e di più ampia portata rispetto a quanto si possa raggiungere nell’ambito di un rinvio pregiudiziale dinanzi alla Corte. Inoltre, data la crescente mobilità dei cittadini nel territorio dell’Unione europea, che non è semplicemente un mercato unico ma uno spazio unico di libertà, sicurezza e giustizia, è evidente che i conflitti di interesse relativi alla determinazione e all’uso dei nomi di persona possono sorgere (e probabilmente sorgeranno) con frequenza crescente, finché o salvo che si pervenga ad una soluzione adeguata. Una siffatta soluzione dovrebbe essere compiutamente e sistematicamente ponderata, prendendo in debita considerazione tutte le sue implicazioni per gli ordinamenti giuridici coinvolti» (v. Conclusioni cit., par. 45).

[10] Sui punti di contatto tra identità individuale e libero svolgimento della personalità si consenta il rinvio a L. Trucco, Introduzione allo studio dell’identità individuale nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 2004, 186 e segg.

[11] Così Corte eur. dir. uomo, 22 febbraio 1994, req. n. 16213/90, Affaire Burghartz c. Suisse (reperibile, come le pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo che si richiameranno nel prosieguo, in https://cmiskp.echr.coe.int/).

[12] V. Corte eur. dir. uomo, Affaire Burghartz c. Suisse, cit..

[13] Cfr. Corte eur. dir. uomo, 16 febbraio 2005, req. n. 29865/96, Affaire Ünal Tekeli c. Turquie.

[15] Risulta infatti come la Corte abbia legato in prevalenza il concetto di “identità personale” al nome della persona, concependo il diritto ad ottenere prima e mantenere poi “il nome” come, rispettivamente, “elemento costitutivo” e “segno distintivo”, appunto, dell’identità individuale. Ci riferiamo, relativamente al primo profilo, alla dichiarazione d’illegittimità costituzionale di parte dell’art. 278 c.c., con cui la Consulta ha aperto le porte al riconoscimento del diritto dei figli incestuosi di ottenere la dichiarazione sulla paternità e maternità naturali, potendo, in vista di questo, svolgere le necessarie indagini. Prima di tale pronuncia, infatti, i figli incestuosi, non potevano né essere riconosciuti dal padre e dalla madre, né tanto meno ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità, per cui (salvi limitati casi, relativi, peraltro, a situazioni ed eventi riguardanti i rapporti tra genitori, sui quali comunque i figli nulla potevano), finivano per essere privati della possibilità di assumere uno status filiationis; laddove, invece come evidenzia la Corte, costituisce diritto del figlio, anche incestuoso “ove non ricorrano costringenti ragioni contrarie nel suo stesso interesse”, vedersi riconosciuto giuridicamente un proprio status filiationis (cfr. Corte cost., 28 novembre 2002, n. 494, in Giur. It., 2003, 7, 1306). Mentre con riguardo al secondo profilo, che qui maggiormente rileva, ci riferiamo a quell’insieme di pronunce – e cioè Corte cost., 3 febbraio 1994, n. 13, in Giur. cost., 1994, 95; Id., 23 luglio 1996, n. 297, in Giur. It., 1997, 11; Id., 11 maggio 2001, n. 120, ivi 2001, 164) – in cui la Corte ha affermato l’esistenza del diritto dell’individuo al mantenimento del “nome” originario, ormai divenuto autonomo segno distintivo dell’individuo, considerando come “tra i tanti, il primo e più immediato elemento che […] caratterizza [l’identità personale] è evidentemente il nome singolarmente enunciato come bene oggetto di autonomo diritto nel successivo art. 22 della Costituzione, che assume la caratteristica del segno distintivo ed identificativo della persona nella sua vita di relazione” (così Corte cost., 3 febbraio 1994, n. 13, cit., 101).

[16] Su questa base, per esempio, la Corte di appello di Milano ha affermato che il “cognome completo” si traduce e si converte nell’esercizio del collaterale diritto all’identità personale «siccome primaria espressione di quei diritti della personalità che la costituzione ha riconosciuto» (App. Milano, 15 febbraio 2000, in Dir. eccles., 2000, II, 378). Da ultimo, poi, la Cassazione ha riconosciuto il diritto dei figli naturali riconosciuti dal padre solo in un secondo momento, "a non cambiare il cognome" della madre, con il quale sono conosciuti “nell’ambito delle proprie relazioni sociali" (così Cass., 26 maggio 2006, n. 12641).

[17] Così Cons. di Stato, 15 gennaio 2004, n. 2572 (reperibile, come le altre pronunce del Consiglio di Stato che si richiameranno nel prosieguo, in https://www.giustizia-amministrativa.it).

[18] Così Cons. di Stato, parere 17 marzo 2004, n. 515. Peraltro, già in un parere del 30 gennaio 2001, n. 2069, il supremo organo di giustizia amministrativa aveva ravvisato la possibilità per un soggetto riconosciuto alla nascita dalla sola madre di cui aveva assunto il cognome, una volta riconosciuto, altresì, dal padre, di cambiare idea in merito all’aggiunta del cognome di quest’ultimo, ritenendo che «La scelta sull’assunzione o meno del cognome paterno, in quanto estrinsecazione di un diritto della personalità (diritto al nome), non può reputarsi irrevocabile ma, al contrario, deve poter essere riconsiderata in relazione alle mutate situazioni personali e sociali dell’interessato, come asserite dallo stesso», ritenendo, tuttavia, alla fine, «che la scelta di cui all’art. 262, comma 2, del cod. civ. [potesse] considerarsi irreversibile tuttalpiù nel caso in cui il figlio sceglie di cambiare nome non già nella fattispecie in esame, in cui la ricorrente ha chiesto di aggiungere al cognome materno quello paterno».

[19] Così, dopo una prima fase riluttante precedente la messa a punto della normativa (v. Corte cost. 1° agosto 1979, n. 98, in Giur. cost., 1979, I, 321) la Consulta è giunta a riconoscere il diritto a tale identità quale “aspetto e fattore di svolgimento della personalità” (v. Id., 24 maggio 1985, n. 161, in Giur. cost., 1985, 1173), valutando positivamente, alla luce degli artt. 2; 3, 2° co. e 32. Cost., la volontà del legislatore di “darsi carico anche di questi "diversi", producendo una normativa [la legge n. 164/82] intesa a consentire l’affermazione della loro personalità e in tal modo aiutarli a superare l’isolamento, l’ostilità e l’umiliazione che troppo spesso li accompagnano nella loro esistenza”. Ed infatti solo la ricomposizione di entrambe le sfere, quella giuridica e quella biologica, renderebbe possibile la ricomposizione dell’“equilibrio tra soma e psiche, consentendo al transessuale di godere una situazione di, almeno relativo, benessere, ponendo così le condizioni per una vita sessuale e di relazione quanto più possibile normale”. Sicchè in quell’occasione furono tenuti in pari considerazione sia il valore della salute psicofisica del soggetto, sia lo status individuale giuridicamente attribuito.

[20] Ed infatti, pur ammettendo la sussistenza di un “rapporto conflittuale” fra il diritto dell’adottato alla propria identità personale e quello della madre naturale al rispetto della sua volontà di anonimato, la Corte non ravvisa alcuna violazione dei valori costituzionali richiamati, considerando la disciplina giustificata dall’obiettivo da un lato di assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali, sia per la madre che per il figlio, e dall’altro lato, di distogliere la donna da decisioni irreparabili, pregiudizievoli per la vita del figlio stesso (sulla tendenza manifestata dalla Corte nel caso di specie ad ancorare la nozione d’“identità” a profili maggiormente soggettivistici, si consenta il rinvio a L. Trucco, Anonimato della madre versus “identità” del figlio davanti alla Corte costituzionale, in Dir. informazione e informatica, 117 e segg.

[21] Ciò ha favorito il sorgere di una disputa tra, da un lato, i fautori della tesi dell’esistenza, comunque, di una norma di sistema, sia pur implicita, che dispone l’attribuzione al figlio legittimo del solo cognome paterno (in questo senso cfr. Cass., 29 maggio 2006, n. 16093); e, dall’altro lato, i sostenitori dell’idea che la disciplina di attribuzione del cognome paterno derivi da una norma consuetudinaria “ribaltabile” in senso favorevole alla madre, ritenendo i dati testuali dai quali viene desunta (artt. 237, 262 e 299 c.c. e artt. 33 e 34 d.p.r. n. 396/2000) insufficienti – in quanto eterogenei e non univoci – a giustificare l’automaticità del meccanismo di attribuzione del cognome paterno (in questo senso cfr. Cfr. Cass., ord. 17 luglio 2004, n. 13298).

[22] Ci riferiamo Corte cost., 11 febbraio 1988, n. 176, in Giur. cost., 1988, 605; e Id., 19 maggio 1988, n. 586, ivi 2726.

[24] Di ciò, del resto, secondo la Corte, costituirebbe prova l’eterogeneità delle soluzioni offerte dai diversi disegni di legge che erano stati presentati in materia nel corso della XIV legislatura, tutti favorevoli, peraltro, al doppio cognome ma, a seconda dei casi: con sicura precedenza di quello del padre (d.d.l. n. 1739-S.), piuttosto che nell’ordine stabilito di comune accordo tra i genitori (d.d.l. n. 1454-S.); manifestato, se del caso, nel corso della celebrazione del matrimonio (d.d.l. n. 3133-S.). Merita inoltre di ricordarsi che nel corso della XV legislatura in commissione Giustizia del Senato era stato approvato un pacchetto di norme (d.d.l. n. 19, c.d. “d.d.l. Bindi”) di riforma il codice civile, che, tra l’altro, dava modo ai genitori di dare il cognome della madre o quello del padre o entrambi (art. 2).

[25] Così Corte cost., 16 febbraio 2006, n. 61, in Giur. cost., 2006, 543, sulle cui argomentazioni dimostrano più di una qualche perplessità, tra gli altri, E. Palici di Suni, Il nome di famiglia: la Corte costituzionale si tira ancora una volta indietro, ma non convince, in Giur. cost., 2006, 552 e segg.; e S. Niccolai, Il cognome familiare tra marito e moglie. Come è difficile pensare le relazioni tra i sessi fuori dallo schema dell'uguaglianza, ibidem, 558 e segg.

[26] Cfr. Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 348, in Giur. It., 2007, 2382; Id., 24 ottobre 2007, n. 349, ivi, 309.

[27] Cfr. Cass., 22 settembre 2008, n. 23934. Al riguardo, dimostra particolare attenzione per la questione il magistrato Luccioli, relatrice dell’ordinanza del 2004 ed ora presidente della Prima sezione civile della Cassazione.

[28] La “Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna” è stata adottata a New York il 18 dicembre 1979, ed è stata ratificata e resa esecutiva nel nostro ordinamento, con la L. 14 marzo 1985, n. 132.

[29] Cfr. supra § 4.

[30] Cfr. supra la nota 21.

[31] In particolare, si tratta di chiarire se l’attitudine all’interposizione costituzionale degli obblighi internazionali cui fa riferimento l’art. 117, 1° comma Cost. possa dirsi “semichiuso”, definendo in termini di “sub-costituzionalità” esclusivamente le norme del sistema CEDU in virtù della sua peculiare natura (rilevata dalla Corte e messa in luce dalla più attenta dottrina: cfr. D. Tega, Le sentenze della Corte costituzionale nn. 348 e 349 del 2007: la Cedu da fonte ordinaria a fonte “sub-costituzionale” del diritto, 2), «in tal modo rappresentando una sorta di gerarchia interna agli obblighi internazionali» (così S. Penasa, Tanto rumore per nulla o meglio tardi che mai? Ancora sulle sentenze 348-349/2007 della Corte costituzionale, tra dubbi ermeneutici e possibili applicazioni future, 9), o invece “aperto”, come tale applicabile ad ogni ipotesi di conflitto tra norma interna e norma internazionale pattizia. Parrebbero propendere per questa seconda tesi, tra gli altri, A. Bonomi, Il “limite” degli obblighi internazionali nel sistema delle fonti, Torino, 2008, 302 e segg.; T.F. Giupponi, Corte costituzionale, obblighi internazionali e “controlimiti allargati”: che tutto cambi perché tutto rimanga uguale? 4; V. Sciarabba, Nuovi punti fermi (e questioni aperte) nei rapporti tra fonti e corti nazionali ed internazionali, in Giur. cost., 2007, 3589; R. Dickmann, Corte costituzionale e diritto internazionale nel sindacato delle leggi per contrasto con l’articolo 117, primo comma, della Costituzione; mentre maggiormente inclini alla prima tesi si dimostrano R. Calvano, La Corte costituzionale e la CEDU nella sentenza n. 348/2007: orgoglio e pregiudizio?, in Giur. It., 2008, 576; C. Zanghì, La Corte costituzionale risolve un primo contrasto con la Corte europea dei diritti dell’uomo ed interpreta l’art. 117 della Costituzione:le sentenze n. 347 e 348 del 2007, par. 5; e S. Penasa, Tanto rumore per nulla o meglio tardi che mai?, cit., i quali si trovano d’accordo sulla necessaria presenza, al fine di “far valere” le norme internazionali di un “requisito oggettivo” (spec. Penasa), dovendosi avere a che fare con normative inerenti alla protezione dei diritti fondamentali; e di uno “soggettivo”, dato dalla presenza di un organismo giurisdizionale in grado di garantire l’uniforme interpretazione delle disposizioni del trattato (Penasa) o comunque di organi di controllo che anche se privi di carattere giurisdizionale, siano comunque abilitati ad interpretare e applicare le norme internazionali stesse (Zanghì, che fa l’esempio del Comitato delle Nazioni Unite per il Patto sui diritti civili e politici). Infine, del tutto peculiari appaiono le posizioni abbracciate da Donati e Schefold, il primo dei quali ridimensiona la portata innovativa della giurisprudenza della Corte costituzionale, rinvenendo nelle norme di rango internazionale natura per così dire “integrativa” di quelle costituzionali, ritenendo conseguentemente non invocabili né tanto meno applicabili le prime «fuori dal quadro costituzionale» (cfr. F. Donati, La CEDU nel sistema italiano delle fonti del diritto alla luce delle sentenze della Corte costituzionale, 10); mentre il secondo, da parte sua, ritiene schiettamente che a questo punto debba essere la Corte costituzionale a «valutare quali obblighi internazionali possano essere riconosciuti come risultanti da norme interposte del diritto internazionale» (cfr. D. Schefold, L’osservanza dei diritti dell’uomo garantiti nei trattati internazionali da parte del giudice italiano, 5).

[32] V. la nota n. 4.

[34] Al riguardo, cfr. la “Comunicazione urgente in tema di applicabilità dell’art. 98 c. 2 del D.P.R. n. 396/2000” del Ministero interno del 15 maggio 2008. Dalla medesima comunicazione emerge come, invece, in seguito alla decisione della Corte di Giustizia relativa al caso García Avello (v. Corte giust. CE, C-148/02, cit.), la stessa normativa sia stata interpretata dall’amministrazione in modo più elastico, ostativo cioè alla possibilità, per gli ufficiali dello stato civile, di procedere a correzioni del cognome senza il consenso dell’interessato, in presenza di soggetti muniti di doppia cittadinanza: italiana e di altro paese, non solo europeo (benché l’art. 24 della L. 31 maggio 1995 n. 218, disponga che nel settore si applichi la normativa del Paese di cui la persona stessa è cittadino…). In ambito giurisprudenziale, l’impatto della decisione del giudice comunitario è particolarmente evidente in Trib. di Roma, 18 novembre 2005, n. 8734); ma, per esempio, il Tribunale di Torino era già in precedenza giunto ad analoghe conclusioni, affermando l’illegittimità della rettificazione dell’atto di nascita della persona che sia stato formato in forza della legge straniera, anche quando la persona stessa acquista la cittadinanza italiana e l’atto di nascita viene quindi trascritto in Italia, (cfr. Trib. Torino, 10 marzo 2000, in Stato civ. it., 587). Mentre l’esito (a quanto ci consta, tutt’ora atteso…) del supplemento d’istruttoria disposto dal Cons. di Stato (sez. I, 14 novembre 2001, n. 977, in Cons. Stato, 2002, I, 970), proprio per chiarire l’applicazione dell’art. 98 del D.P.R. 396/2000 in presenza di “doppi cognomi”, può ormai considerarsi “superato” dalla decisione del giudice comunitario in commento.