Sentenza n. 103 del 2010

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SENTENZA N. 103

ANNO 2010

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Francesco                    AMIRANTE                                    Presidente

-           Ugo                             DE SIERVO                                      Giudice

-           Paolo                           MADDALENA                                       “

-           Alfio                            FINOCCHIARO                                     “

-           Franco                         GALLO                                                    “

-           Luigi                            MAZZELLA                                            “

-           Gaetano                       SILVESTRI                                             “

-           Sabino                         CASSESE                                                “

-           Maria Rita                   SAULLE                                                  “

-           Giuseppe                     TESAURO                                               “

-           Giuseppe                     FRIGO                                                     “

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                          “

-           Paolo                           GROSSI                                                   “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 424, 429 e 521, comma 1, del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale di Lecce nel procedimento penale a carico di R. T. ed altri, con ordinanza del 6 aprile 2009, iscritta al n. 187 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 10 febbraio 2010 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.

Ritenuto in fatto

1. — Il Tribunale di Lecce, in composizione collegiale, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 24, 111, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, degli articoli 424, 429 e 521, comma 1, del codice di procedura penale nella parte in cui «consentono al GUP di disporre il rinvio a giudizio dell’imputato in relazione ad un fatto qualificato, di ufficio, giuridicamente in maniera diversa, senza consentire il previo ed effettivo sviluppo del contraddittorio sul punto, chiedendo al PM di modificare la qualificazione giuridica del fatto e, in caso di inerzia dell’organo dell’accusa, disponendo la trasmissione degli atti al medesimo P.M.».

Il rimettente riferisce che, con decreto emesso in data 8 gennaio 2009, il giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Lecce ha rinviato a giudizio gli imputati R. T., G. G. e C. E. per il reato previsto e punito dagli articoli 110, 81 cpv., 319 del codice penale, così riqualificando l’originaria imputazione di concussione formulata dal pubblico ministero nella richiesta di rinvio a giudizio.

In particolare, il giudice a quo pone in evidenza come dal decreto che dispone il giudizio risulti che gli imputati rispondono del reato di corruzione in quanto, nel Comune di Cavallino, fino al novembre 2001, nelle rispettive qualità di Sindaco, rivestita da G. G., e di vice Sindaco, Assessore alle attività produttive, Presidente della Commissione edilizia e della Commissione tecnica per il PIP e, ancora, della Commissione SPAB del detto Comune, ricoperte da C. E., abusando dei poteri e delle proprie qualità – dopo che il Tribunale amministrativo regionale della Puglia, sezione di Lecce, accogliendo i ricorsi presentati da sette commercianti, aveva dichiarato l’illegittimità dell’autorizzazione all’apertura di un centro commerciale e del nulla osta regionale, delle autorizzazioni e delle prese d’atto per l’ampliamento delle superfici, rilasciati dagli imputati G. G. e C. E. in favore di una società a responsabilità limitata, rappresentata dall’altro imputato R. T. – erano intervenuti presso i responsabili della società G, subentrata alla anzidetta s.r.l. nella titolarità dei provvedimenti illegittimi. Gli imputati avevano prospettato ai suddetti responsabili «la possibilità di ottenere la rinuncia ai ricorsi da parte dei sette ricorrenti (che erano di fatto assistiti dallo stesso avv. C. e solo formalmente sarebbero stati assistiti dall’avv. P., legale messo a disposizione dal R.), rendendo, così, inefficaci le sentenze con cui il TAR aveva annullato i provvedimenti illeciti adottati dall’Amministrazione»; nonché la disponibilità degli imputati Sindaco e vice Sindaco a consentire alla società G di continuare a beneficiare di tali atti, omettendo qualsiasi intervento finalizzato a revocarli e consentendo alla società di ottenere ogni necessaria proroga, pure illegittima, e gli atti amministrativi necessari per poter beneficiare delle medesime autorizzazioni, con la minaccia, in caso contrario, di procedere alla loro revoca. In tal modo gli imputati avevano indotto i responsabili della società suddetta ad assumere l’impegno di garantire posti di lavoro presso il centro commerciale a ciascuno dei sette ricorrenti e ad altre persone indicate dal Sindaco e dal vice Sindaco, nonché ad accollarsi il pagamento delle somme di denaro che i sette ricorrenti avrebbero dovuto versare al legale, loro difensore innanzi al TAR, ed all’altro difensore messo a disposizione dall’imputato R. T. Il rimettente aggiunge che il giudice dell’udienza preliminare disponeva il rinvio a giudizio degli imputati per il delitto come sopra riqualificato, ritenendo, nella motivazione del decreto, che non vi fosse violazione del principio di cui all’art. 521 cod. proc. pen.

In particolare, il giudice dell’udienza preliminare dichiarava non condivisibile l’originaria contestazione per il reato di concussione in quanto «nella vicenda siccome delineata dalle emergenze processuali non risulta che la società G abbia soggiaciuto alla volontà dei pubblici ufficiali imputati operanti in concorso con lextraneus R. T., ma piuttosto che essa sia stata, con essi, parte di una transazione di natura illecita da cui ha ricavato un proprio significativo tornaconto dato dall’ottenimento della rinunzia al ricorso proposto innanzi al Tar Puglia – sez. Lecce – da D.P.L. all’esito di un giudizio di primo grado favorevole a questi ultimi».

Il collegio rimettente riferisce, inoltre, che all’udienza del 13 marzo 2009, nell’ambito delle questioni preliminari di cui all’art. 491 cod. proc. pen., il difensore dell’imputato R. T. ha eccepito la nullità del decreto che aveva disposto il giudizio per l’indeterminatezza dell’imputazione che, sebbene rubricata quale ipotesi di corruzione, in fatto non conteneva gli elementi tipici di tale reato, mancando l’indicazione in ordine al soggetto corruttore ed al soggetto corrotto, nonché una precisa e dettagliata descrizione della condotta corruttiva; gli altri difensori si sono associati all’eccezione ponendo in evidenza l’anomalia di una contestazione rimasta in fatto ancorata all’originaria imputazione di concussione, ma riferita dal giudice dell’udienza preliminare al reato di cui all’art. 319 cod. pen.

Il giudice a quo, dopo aver acquisito, all’udienza del 6 aprile 2009, il verbale dell’udienza preliminare, pone in rilievo come da esso risulti che il giudice aveva sollecitato il pubblico ministero a riqualificare giuridicamente il reato di concussione in quello di corruzione, ma questi aveva insistito nell’originaria contestazione.

Alla stessa udienza i difensori hanno eccepito che il giudice dell’udienza preliminare avrebbe impropriamente disposto il rinvio a giudizio per il reato di corruzione in quanto, a fronte dell’insistenza del pubblico ministero in relazione all’originaria contestazione di concussione, avrebbe dovuto o pronunciare sentenza di proscioglimento in base agli atti a disposizione, ovvero restituire gli atti al medesimo pubblico ministero. Il decreto di rinvio a giudizio sarebbe, pertanto, affetto da nullità o, comunque, abnorme avendo disposto il rinvio a giudizio dei prevenuti per un diverso reato.

Alla luce di tali considerazioni, il collegio ritiene rilevante il dubbio di costituzionalità prospettato in quanto afferma che la riqualificazione compiuta dal Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Lecce è espressione del principio iura novit curia, codificato nell’art. 521, comma 1, cod. proc. pen. ed è conforme «allo stato della pacifica giurisprudenza della Suprema Corte».

In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo afferma che le disposizioni censurate si pongono in contrasto, in primo luogo, con l’art. 3 Cost., ritenendo non ragionevole una disciplina che penalizzi, sotto il profilo difensivo, l’imputato che si vede rinviato a giudizio per un fatto diversamente qualificato, sotto il profilo giuridico, rispetto all’imputato che tale modifica non viene a subire.

Inoltre, ad avviso del detto giudice, le norme impugnate contrastano con l’art. 24 Cost., in quanto, nel caso in cui il rappresentante del pubblico ministero, nonostante la sollecitazione del giudice a riqualificare giuridicamente il fatto, non vi provveda, l’imputato può essere indotto a non esercitare alcuna attività difensiva nella sola ipotetica eventualità di una riqualificazione giuridica, che il giudice potrebbe fare solo in sede decisoria e che quindi potrebbe essergli pregiudizievole solo in caso di rinvio a giudizio; in particolare, l’assenza di una preventiva conoscenza dell’accusa da parte dell’imputato, anche sotto il profilo della qualificazione giuridica, non consente di “calibrare” le attività difensive in sede di udienza preliminare con riferimento alla possibilità di argomentare, in sede di discussione, sulla imputazione formulata con la richiesta di rinvio a giudizio, di produrre elementi ai sensi dell’art. 391-bis cod. proc. pen., di sollecitare lo svolgimento di nuove indagini o l’assunzione di nuove prove ai sensi degli artt. 421-bis e 422 cod. proc. pen., di verificare la possibilità di accedere ai riti alternativi.

Un’ulteriore censura è prospettata dal rimettente in relazione all’art. 111, terzo comma, Cost., in quanto nel caso in cui il rappresentante della pubblica accusa non ritenga di modificare il nomen iuris del fatto contestato ed il giudice disponga il rinvio a giudizio, attribuendo al fatto una diversa qualificazione giuridica, non è assicurato il contraddittorio, avendo l’imputato svolto attività difensiva solo con riferimento alla originaria imputazione.

Infine, la disciplina impugnata, ad avviso del collegio rimettente, contrasta anche con il disposto dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848), come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, secondo cui il diritto ad un processo equo comporta non solo che l’imputato debba essere informato nel più breve tempo possibile dei fatti materiali posti a suo carico, ma anche, in modo dettagliato, della qualificazione giuridica attribuita a questi fatti.

Sempre in punto di non manifesta infondatezza, il rimettente si sofferma sullo stato della giurisprudenza di legittimità, ponendo in evidenza come sia oramai consolidato l’orientamento che riconosce al giudice – anche a quello dell’udienza preliminare in virtù dell’applicazione analogica dell’art. 521, comma 1, cod. proc. pen. – il potere di riqualificare un fatto originariamente rubricato come concussione in corruzione, senza che ciò comporti la violazione del principio di correlazione tra la sentenza e l’accusa.

Il giudice a quo passa in rassegna alcune delle soluzioni che il giudice dell’udienza preliminare avrebbe potuto adottare al fine di evitare la violazione dei parametri costituzionali indicati.

In primo luogo, prospetta l’eventualità di emettere un’apposita ordinanza, prima dell’esercizio del definitivo potere decisorio, per riqualificare giuridicamente il fatto; in secondo luogo ipotizza la possibilità di estendere in via interpretativa la disciplina della modifica in iure dell’imputazione a quella della modifica del fatto.

Entrambe le soluzioni sono, però, da scartare, ad avviso dello stesso rimettente, in quanto la prima sarebbe incompatibile con i principi di terzietà e imparzialità, perché «il giudice che dovesse esprimersi in ordine alla corretta qualificazione giuridica da attribuire al fatto non potrebbe prescindere dall’esprimersi anche in ordine alla sussistenza del fatto da riqualificare»; mentre la seconda determinerebbe una disapplicazione dell’art. 521, comma 1, cod. proc. pen.

L’unica soluzione possibile, secondo il giudice a quo, è la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate nel senso che la Corte «intervenendo sulle norme censurate, parifichi la disciplina della modifica della qualificazione giuridica del fatto a quella della modifica del fatto medesimo».

2. — Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha spiegato intervento con atto depositato in data 28 luglio 2009, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile. Le argomentazioni poste a sostegno della inammissibilità sono state successivamente precisate nella memoria depositata in data 19 gennaio 2010.

La difesa erariale osserva che alla Corte si richiede una pronunzia additiva che preveda la restituzione degli atti al pubblico ministero a fronte della riqualificazione giuridica operata dal giudice per l’udienza preliminare. Tale soluzione, però, è soltanto uno dei possibili rimedi processuali mediante cui realizzare l’effettività della difesa che è alla base del dubbio di legittimità costituzionale sollevato dal rimettente.

L’effettività della difesa, ad esempio, potrebbe essere realizzata attraverso l’istituto della rimessione in termini ai fini della richiesta di riti alternativi.

Inoltre, la soluzione auspicata dal rimettente, comportando una regressione alla fase delle indagini preliminari, potrebbe porsi in contrasto con il principio di ragionevole durata del processo.

La difesa erariale pone, poi, in rilievo che, ai sensi dell’art. 112 Cost., il pubblico ministero è dominus dell’azione penale, sicché «non si comprende, nel caso di restituzione degli atti previa riqualificazione della fattispecie, quali effetti dovrebbero determinarsi circa l’esercizio dell’azione penale, in difetto di una norma che preveda – come fa, in riferimento ad altra situazione, l’art. 409, comma 5, c.p.c. (recte: cod. proc. pen.) – un’ipotesi di “imputazione coatta” in ordine al fatto riqualificato». Il rimedio, dunque, non può essere la regressione del procedimento, anche perché, in casi come quello in esame, qualora il giudice abbia ritenuto che il fatto vada qualificato diversamente, esso è ormai ben individuato, né occorre svolgere al riguardo nuove indagini, anche a favore dell’indagato.

 Considerato in diritto

1. — Il Tribunale di Lecce, in composizione collegiale, con l’ordinanza indicata in epigrafe, dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 24, 111, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, degli articoli 424, 429 e 521, comma 1, del codice di procedura penale nella parte in cui «consentono al GUP di disporre il rinvio a giudizio dell’imputato in relazione ad un fatto qualificato, di ufficio, giuridicamente in maniera diversa, senza consentire il previo ed effettivo sviluppo del contraddittorio sul punto, chiedendo al P.M. di modificare la qualificazione giuridica del fatto e, in caso di inerzia dell’organo d’accusa, disponendo la trasmissione degli atti al medesimo P. M.».

Il rimettente riferisce che il giudice dell’udienza preliminare ha disposto il giudizio nei confronti degli imputati R. T., G. G. e C. E. per il reato previsto e punito dagli articoli 110, 81 cpv., 319 del codice penale, così riqualificata l’originaria imputazione per il reato di concussione, formulata dal pubblico ministero nella richiesta di rinvio a giudizio.

In particolare, il giudice a quo pone in evidenza che il Giudice dell’udienza preliminare ha ritenuto non condivisibile l’originaria contestazione, in quanto dagli atti processuali non risultava che la società G avesse subito la volontà dei pubblici ufficiali, operanti in concorso con un terzo, ma piuttosto emergeva che essa era stata parte con gli imputati di una transazione di natura illecita, dalla quale aveva ricavato un proprio significativo tornaconto.

Il collegio rimettente riferisce, inoltre, che, nell’ambito delle questioni preliminari di cui all’art. 491 cod. proc. pen., i difensori hanno eccepito la nullità del decreto che ha disposto il giudizio per l’indeterminatezza dell’imputazione che, sebbene rubricata quale ipotesi di corruzione, in fatto non conteneva gli elementi tipici di tale reato, ed hanno posto in evidenza l’anomalia di una contestazione rimasta ancorata all’originaria imputazione, ma riferita dal giudice dell’udienza preliminare al reato di cui all’art. 319 cod. pen. I difensori, dunque, hanno eccepito che il giudice «avrebbe impropriamente disposto il rinvio a giudizio per il reato di corruzione in quanto, a fronte dell’insistenza del PM in relazione all’originaria contestazione di concussione, avrebbe dovuto o pronunciare sentenza di proscioglimento in base agli atti a disposizione, ovvero restituire gli atti al medesimo PM. Il decreto di rinvio a giudizio sarebbe, pertanto, affetto da nullità o, comunque, abnorme, avendo disposto il rinvio a giudizio dei prevenuti per un diverso reato».

Il giudice a quo, infine, rileva che, come risulta dal verbale dell’udienza preliminare, il giudice aveva sollecitato il pubblico ministero di udienza a riqualificare giuridicamente il reato di concussione in quello di corruzione, ma questi aveva insistito nell’originaria contestazione.

Alla luce di tali considerazioni, il collegio ritiene rilevante il dubbio di legittimità costituzionale prospettato, per gli effetti che l’eventuale fondatezza della questione avrebbe sulla validità del decreto che ha disposto il giudizio, procedendo alla riqualificazione giuridica del fatto «senza alcun effettivo e pieno contraddittorio sul punto».

Il medesimo collegio, poi, considera la questione non manifestamente infondata, perché «l’operazione compiuta dal GUP presso il Tribunale di Lecce, allo stato della pacifica giurisprudenza della S. C., rientra nell’ambito della riqualificazione giuridica del fatto, in quanto espressione del principio iura novit curia codificato nell’art. 521, 1° comma, c. p. p.».

Il giudice a quo considera la disciplina censurata in contrasto con gli artt. 3, 24 e 111, terzo comma, Cost., in quanto penalizza, sotto il profilo difensivo, l’imputato rinviato a giudizio per un fatto diversamente qualificato, rispetto all’imputato che tale modifica non viene a subire.

L’assenza di una preventiva conoscenza dell’accusa da parte dell’imputato, anche sotto il profilo della qualificazione giuridica, non consente di “calibrare” le attività difensive in sede di udienza preliminare. Ciò con riferimento alla possibilità di argomentare, durante la discussione, sulla imputazione formulata con la richiesta di rinvio a giudizio e con riguardo alle facoltà di produrre elementi ai sensi dell’art. 391-bis cod. proc. pen., di sollecitare lo svolgimento di nuove indagini o l’assunzione di nuove prove ai sensi degli artt. 421-bis e 422 cod. proc. pen. e, inoltre, di accedere ai riti alternativi.

Ad avviso del rimettente, quindi, nel caso in cui il rappresentante della pubblica accusa non ritenga di modificare il nomen iuris del fatto contestato ed il giudice disponga il giudizio, attribuendo al fatto una diversa qualificazione giuridica, non è assicurato il contraddittorio, avendo l’imputato svolto attività difensiva soltanto con riferimento alla originaria imputazione.

Infine, la disciplina impugnata è in contrasto con il disposto dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848), come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, secondo cui il diritto ad un processo equo comporta non solo che l’imputato debba essere informato nel più breve tempo possibile dei fatti materiali posti a suo carico, ma anche, in modo dettagliato, della qualificazione giuridica attribuita a quei fatti.

2. — La questione è inammissibile.

Si deve premettere che l’art. 521 cod. proc. pen. ha codificato il principio della necessaria correlazione tra imputazione contestata e sentenza, in base al quale il giudice può attribuire al fatto una definizione giuridica diversa, senza incorrere nella violazione del suddetto principio, soltanto quando l’accadimento storico addebitato rimanga identico negli elementi costitutivi tipici, cioè quando risultano immutati l’elemento psicologico, la condotta, l’evento e il nesso di causalità.

Se il giudice, invece, accerta che il fatto è diverso da quello descritto nell’imputazione, deve disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero.

L’anzidetto principio è diretto a garantire il contraddittorio e il diritto di difesa dell’imputato, il quale deve essere posto nelle condizioni di conoscere l’oggetto dell’imputazione nei suoi elementi essenziali e di difendersi, secondo la linea ritenuta più opportuna, in relazione ad esso.

La necessaria correlazione tra accusa e sentenza, inoltre, è posta anche «al fine del controllo giurisdizionale sul corretto esercizio dell’azione penale, dal che si desume che la costante corrispondenza dell’imputazione a quanto emerge dagli atti è una esigenza presente in ogni fase processuale e, quindi, anche nell’udienza preliminare» (sentenza n. 88 del 1994).

Sebbene il principio di correlazione tra imputazione e sentenza sia stato espressamente previsto soltanto con riferimento alla fase del giudizio, in conformità a quanto enunciato nell’anzidetta sentenza da questa Corte si è oramai consolidato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui la disposizione prevista dall’art. 521 cod. proc. pen. deve trovare applicazione, in via analogica, anche con riferimento al giudice dell’udienza preliminare il quale, dunque, se accerta che il fatto è diverso da quello enunciato nella richiesta di rinvio a giudizio, deve disporre la trasmissione degli atti all’organo dell’accusa. (ex plurimis: Cass., Sez. Un. Pen., sentenza n. 5307 del 2007, n. 3375 del 2000 e n. 3503 del 1998).

3. Ciò posto, deve rilevarsi che un primo profilo di inammissibilità si ravvisa nell’insufficiente motivazione in punto di rilevanza della questione, dal momento che il giudice a quo ha trascurato di precisare perché, nella fattispecie sottoposta al suo giudizio, il fatto debba ritenersi diversamente qualificato e non si tratti, piuttosto, di un fatto diverso rispetto a quello originariamente contestato.

Il rimettente, infatti, si è limitato a riferire «che l’operazione compiuta dal gup presso il Tribunale di Lecce, allo stato della pacifica giurisprudenza della S.C., rientra nell’ambito della riqualificazione giuridica del fatto, quale espressione del principio iura novit curia codificato nell’art. 521, 1° comma, c. p. p.».

Con tale generico rinvio «allo stato della pacifica giurisprudenza» il collegio rimettente non ha adempiuto all’onere di motivare sulla sussistenza della necessaria pregiudizialità tra la questione di legittimità costituzionale sollevata e la decisione, anche in ordine all’eccezione di nullità, formulata dai difensori nel giudizio a quo.

È vero, infatti, che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza riqualificare un fatto originariamente rubricato come concussione in corruzione (ex plurimis: Cass. sentenze n. 2894 del 1998, Sez. Un. Pen., n. 6402 del 1997 e n. 1515 del 1982); l’esercizio di tale potere, però, non può prescindere da una verifica volta ad accertare in concreto, cioè con riferimento alla fattispecie in esame, se il fatto sia diverso da quello descritto nell’imputazione.

L’insufficiente motivazione, da parte del rimettente, sulle anzidette circostanze, dunque, non permette di valutare la rilevanza della questione proposta (sentenza n. 58 del 2009; ordinanze n. 15 del 2009, nn. 312 e 100 del 2008).

4. Sussiste, poi, un motivo ulteriore di inammissibilità, in quanto il rimettente sollecita una pronunzia additiva, non avente carattere di soluzione costituzionalmente obbligata, ma rientrante nell’ambito di scelte discrezionali riservate al legislatore.

Tale profilo, del resto, è desumibile dalla stessa ordinanza di rimessione, nella parte in cui si sofferma sulle diverse possibili procedure adottabili dal giudice dell’udienza preliminare, al fine di far cadere i dubbi di legittimità costituzionale della disciplina censurata.

Invero, da un lato, il rimettente prospetta la possibilità di pronunziare un’apposita ordinanza attraverso cui informare le parti della diversa qualificazione giuridica attribuita al fatto, così da consentire un contraddittorio anche sulla nuova qualificazione giuridica; dall’altro, prospetta l’applicazione in via analogica dell’art. 521, comma 2, cod. proc. pen.

Entrambe le soluzioni, poi, sono ritenute inadeguate dalla citata ordinanza, che prospetta come indispensabile l’intervento di questa Corte mediante una pronunzia additiva che preveda la regressione del procedimento nella fase delle indagini preliminari, attraverso la restituzione degli atti all’organo dell’accusa.

Risulta evidente, quindi, che la pronunzia richiesta postula una soluzione che non è l’unica possibile.

Deve, altresì, rilevarsi che la soluzione prospettata dal giudice a quo tende ad ottenere la parificazione di situazioni processuali tra loro non omogenee, quali l’accertamento che un fatto debba essere diversamente qualificato e la constatazione che il fatto è differente da quello descritto  nel decreto che dispone il giudizio.

La decisione richiesta, dunque, coinvolgendo scelte relative alla conformazione della disciplina processuale, rientra nella discrezionalità del Parlamento.

Al riguardo, si deve osservare che il legislatore si è già espresso sul punto, in sede di relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale del 1988; in tale occasione, con riferimento al tema della non obbligatorietà della correlazione «tra la decisione sul tema giuridico dell’accusa e le conclusioni del pubblico ministero», era stata proposta l’adozione di una disciplina analoga a quella prevista per la contestazione del fatto diverso, oppure «la previsione di un dovere del giudice di rendere nota preventivamente la decisione di modificare la qualificazione giuridica, consentendo la discussione sul punto».

Il legislatore, però, ha ritenuto di non adottare né l’una, né l’altra soluzione, in quanto entrambe «avrebbero comportato un dispendio di attività probabilmente eccessivo e il rischio, in pratica, di indurre il giudice a conformarsi in ogni caso al nomen iuris contestato».

Il rimettente, dunque, invocando una pronuncia additiva non costituzionalmente obbligata in una materia riservata alla discrezionalità del legislatore, propone una questione inammissibile (ex plurimis: sentenza n. 183 del 2008; ordinanze nn. 193 e 80 del 2009, n. 379 del 2008).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli articoli 424, 429 e 521, comma 1, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24, 111, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Lecce, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 marzo 2010.