Sentenza n. 373 del 2008

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SENTENZA N. 373

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Giovanni Maria            FLICK                            Presidente

-  Francesco                   AMIRANTE                    Giudice

-  Ugo                                      DE SIERVO                           “

-  Paolo                          MADDALENA                        “

-  Alfio                           FINOCCHIARO                     “

-  Alfonso                       QUARANTA                                    “

-  Franco                        GALLO                                  “

-  Luigi                            MAZZELLA                           “

-  Gaetano                       SILVESTRI                            “

-  Sabino                         CASSESE                              “

-  Maria Rita                   SAULLE                                “

-  Giuseppe                     TESAURO                              “

-  Paolo Maria                 NAPOLITANO              “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), promosso con ordinanza depositata il 12 ottobre 2007 dalla Commissione tributaria provinciale di Novara nel giudizio vertente tra Mauro Bolognesi e l’Agenzia delle entrate, ufficio di Novara, iscritta al n. 138 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2008.

            Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

            udito nella camera di consiglio del 22 ottobre 2008 il Giudice relatore Franco Gallo.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza depositata il 12 ottobre 2007, la Commissione tributaria provinciale di Novara ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi). La questione è sollevata nel corso di un giudizio di impugnazione del diniego di rimborso dell’IRPEF relativa a quanto corrisposto da un contribuente, nell’anno 2004, alla propria ex coniuge, quale contributo periodico determinato dal Tribunale di Novara in sede di modificazione delle condizioni di divorzio, per il mantenimento del comune figlio maggiorenne. La Commissione tributaria provinciale censura la predetta disposizione nella parte in cui esclude la deducibilità dal reddito complessivo, ai fini delle imposte dirette, degli assegni periodici corrisposti al coniuge a séguito di separazione o divorzio, nella misura in cui risultano dovuti in base a provvedimenti dell’autorità giudiziaria, per il mantenimento dei figli. Secondo il giudice rimettente, la disposizione censurata, nel prevedere la menzionata indeducibilità dei suddetti assegni per il mantenimento dei figli, crea una ingiustificata disparità di trattamento fiscale rispetto all’ipotesi di somme corrisposte in adempimento dell’obbligo di prestare gli alimenti ai soggetti indicati dall’art. 433 del codice civile (e, quindi, anche ai figli), le quali, invece – sempre nella misura in cui risultano da provvedimenti dell’autorità giudiziaria –, sono deducibili dal reddito complessivo, ai fini delle imposte dirette (art. 10, comma 1, lettera d, del d.P.R. n. 917 del 1986). A sostegno di tale assunto il rimettente afferma che, in tali casi, l’assegno di mantenimento e quello alimentare hanno «analoga funzione» e che, pertanto, la disparità di trattamento fiscale tra tali assegni «risulta […] ingiustificata»; e ciò tanto piú ove il giudizio di separazione o di divorzio faccia séguito ad una precedente condanna al pagamento degli alimenti a favore del figlio, perché, in tal caso, «gli importi destinati a quest’ultimo sarebbero legittimamente deducibili dal reddito dell’onerato». In particolare, il giudice a quo nega che la invocata deducibilità dell’assegno periodico fissato dal giudice per il mantenimento del figlio comporta la necessità – come, invece, obiettato dall’amministrazione finanziaria resistente in giudizio – di riconoscere anche all’altro coniuge una pari deduzione per le spese sostenute allo stesso fine. Per la Commissione tributaria, infatti, la somma di denaro determinata autoritativamente dal giudice non può essere assimilata a «spese, genericamente riconducibili al generico ménage familiare del genitore convivente e non precisamente determinabili, che come tali giustificano la apposita detrazione forfetaria per familiari a carico». La medesima Commissione tributaria aggiunge che la questione cosí prospettata è diversa da quella dichiarata manifestamente infondata dalla Corte costituzionale, con ordinanza n. 950 del 1988; questione sollevata – con riferimento all’assegno periodico determinato dal giudice e corrisposto al coniuge separato o divorziato – sotto il profilo della denunciata disparità di trattamento fiscale tra la deducibilità dell’assegno per il mantenimento del coniuge e l’indetraibilità di quello per il mantenimento dei figli assegnati all’altro coniuge.

2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in giudizio, deducendo che: a) il giudice a quo erroneamente pone a raffronto situazioni diverse, cioè l’obbligo (rientrante tra gli ordinari doveri dei genitori di mantenere ed educare i propri figli, ancorché maggiorenni) di corrispondere al coniuge un assegno per il mantenimento dei figli e quello (derivante dal dovere di assicurare le necessarie fonti di sostentamento ai congiunti in stato di indigenza) di corrispondere al figlio di un assegno alimentare ai sensi dell’art. 433 cod. civ.; b) la manifesta difformità di tali situazioni, basate su presupposti affatto diversi e su diritti azionabili da differenti soggetti, è affermata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (vengono citate le sentenze n. 12477 del 2004, n. 26259 del 2005 e n. 24498 del 2006); c) rientra nella discrezionalità del legislatore regolare le ipotesi di deducibilità delle spese ai fini fiscali (come sottolineato, proprio in ordine alla disposizione censurata, dalla Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 950 del 1988); d) l’accoglimento della sollevata questione comporterebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra il genitore separato o divorziato che, in quanto destinatario di un provvedimento giudiziario che lo obbliga a corrispondere l’assegno per il mantenimento del figlio, può dedurre tale assegno dal reddito imponibile ed il genitore che, in quanto contribuisca al mantenimento del figlio in via ordinaria (ai sensi degli artt. 147 e 148 cod. civ.), non può operare detta deduzione. La difesa erariale conclude chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, manifestamente infondata.

Considerato in diritto.

1. – La Commissione tributaria provinciale di Novara dubita, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, della legittimità dell’art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), nella parte in cui esclude la deducibilità dal reddito complessivo, ai fini delle imposte dirette, degli assegni periodici corrisposti al coniuge a séguito di separazione o divorzio, nella misura in cui risultano da provvedimenti dell’autorità giudiziaria, per il mantenimento dei figli. Secondo la Commissione tributaria, la disposizione denunciata víola l’art. 3 Cost., perché crea una ingiustificata disparità di trattamento fiscale rispetto all’«analoga» ipotesi di somme corrisposte in adempimento dell’obbligo di prestare gli alimenti ai soggetti indicati dall’art. 433 del codice civile (e, quindi, anche ai figli), le quali, invece – nella misura in cui risultano da provvedimenti dell’autorità giudiziaria –, sono deducibili dal reddito complessivo, ai fini delle imposte dirette (art. 10, comma 1, lettera d, del d.P.R. n. 917 del 1986).

2. – La questione non è fondata.

Questa Corte ha costantemente affermato che la previsione di ipotesi di deducibilità e detraibilità ai fini fiscali resta affidata alla discrezionalità del legislatore, la quale «rimane insindacabile nel giudizio di costituzionalità, a meno che non trasmodi in arbitrio» (ordinanza n. 950 del 1988; nello stesso senso, ex plurimis, sentenza n. 134 del 1982; ordinanze n. 258 del 2008 e n. 370 del 1999). Nella specie, la scelta del legislatore di differenziare – nell’àmbito degli assegni determinati iussu iudicis a favore dei figli – il regime fiscale dell’assegno di mantenimento da quello dell’assegno di alimenti legali non è arbitraria, per almeno due distinte e concorrenti ragioni.

2.1. – In primo luogo, va rilevato che dall’esatta premessa che l’assegno alimentare costituisce, quantitativamente, un minus rispetto all’assegno di mantenimento, il rimettente trae l’erronea conseguenza che tali assegni debbono avere il medesimo trattamento fiscale. Dalla suddetta premessa deriva soltanto, invece, che, nel caso di assegno di mantenimento per i figli, la funzione propriamente alimentare del medesimo assegno è assolta dal minore importo, in esso ricompreso, corrispondente all’ammontare di un ipotetico assegno di alimenti legali. Al riguardo, questa Corte ha già precisato che il credito di alimenti legali va equiparato a quello relativo all’assegno di mantenimento solo «nei limiti in cui questo abbia carattere alimentare» (sentenza n. 506 del 2002) e, quindi, solo «una volta accertato lo stato di bisogno del beneficiario» (sentenza n. 1041 del 1988). Occorre, tuttavia, osservare che, anche ove risulti accertato lo stato di bisogno, la quota dell’assegno di mantenimento che soddisfa esigenze strettamente alimentari non è concretamente determinata nel quantum ed è indistinguibile dal piú ampio ammontare fissato dal giudice per il mantenimento. Questa circostanza è da sola sufficiente a rendere non arbitraria la scelta legislativa di consentire la deduzione fiscale delle sole prestazioni alimentari certe nel loro ammontare e di escluderla per quelle non certe perché ricomprese nella piú ampia prestazione di mantenimento. Questa Corte, infatti, ha piú volte sottolineato che, nella individuazione degli oneri detraibili, è ragionevole che il legislatore si ispiri ad esigenze di certezza, senza lasciare tale individuazione alla volontà del contribuente o alla discrezionalità dell’amministrazione finanziaria (ex pluribus, la citata ordinanza n. 370 del 1999, che ha ritenuto non illegittima costituzionalmente la normativa che consente la deduzione dal reddito imponibile degli assegni alimentari limitatamente alla misura risultante da provvedimento dell’autorità giudiziaria e la esclude per la prestazione alimentare spontaneamente corrisposta dal debitore).

Non potrebbe obiettarsi, come fa il rimettente, che la misura degli alimenti sarebbe determinata almeno nel caso in cui una condanna al pagamento degli alimenti a favore del figlio sia seguíta da un giudizio di separazione o di divorzio recante condanna al mantenimento del medesimo figlio. Detta ipotesi non è in concreto configurabile, sia perché la sussistenza dell’obbligo di mantenimento è alternativa a quella dell’obbligo alimentare e, pertanto, esclude la condanna agli alimenti legali; sia perché, in ogni caso, ove anche alla condanna agli alimenti legali segua – di fatto – quella al mantenimento, dovrebbe aversi riguardo solo a quest’ultima pronuncia, senza che all’importo dovuto per il mantenimento (fiscalmente non deducibile) si possa sottrarre quanto dovuto per gli alimenti legali (fiscalmente deducibile) in base ad una precedente sentenza.

L’identico trattamento fiscale dei due obblighi non è giustificato, del resto, nemmeno dalla loro comune funzione di sostegno economico al beneficiato, evidenziata da questa Corte nella sentenza interpretativa di rigetto n. 17 del 2000. Nella fattispecie esaminata da tale sentenza non veniva, infatti, in rilievo l’indicata esigenza di certezza nella determinazione degli oneri imponibili, ma la possibilità di un’interpretazione conforme a Costituzione dell’art. 2751, n. 4, cod. civ., al solo fine di estendere la garanzia del privilegio generale prevista per il credito alimentare al credito di mantenimento del coniuge separato o divorziato.

2.2. – In secondo luogo, la norma denunciata appare non irragionevole in considerazione delle evidenti differenze di presupposti e di funzioni tra l’obbligo di mantenimento dei figli e l’obbligo degli alimenti legali in favore dei medesimi.

La Corte di cassazione civile, con numerose pronunce non prese in considerazione dal rimettente e che, per uniformità e costanza, assurgono a diritto vivente (ex plurimis, sentenze n. 12477 del 2004, n. 2196 del 2003), ha da tempo precisato che l’obbligo di mantenere i figli previsto dagli artt. 147, 148 e 261 cod. civ.: a) consiste nel prestare loro quanto occorre per tutte le esigenze della vita (tenendo conto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni); b) si commisura in proporzione alle sostanze dei genitori; c) prescinde dallo stato di bisogno dei figli medesimi; d) decorre dal momento in cui sorge il rapporto di filiazione e termina nel momento in cui il figlio maggiorenne è in condizione di avere una propria autonomia economica. Secondo le medesime pronunce, l’obbligo di prestare gli alimenti legali ai figli previsto dagli artt. 433, primo comma, numero 3, 438, 440 e 445 cod. civ., invece: a) ha un contenuto piú ristretto dell’obbligo di mantenimento, perché consiste nel somministrare quanto necessario per le fondamentali esigenze di vita dell’alimentando, avuto riguardo alla sua posizione sociale; b) si commisura in proporzione al bisogno di chi domanda gli alimenti ed alle condizioni economiche di chi li deve somministrare; c) sorge soltanto in mancanza dell’obbligo di mantenimento, quando sussista il duplice presupposto dello stato di bisogno dell’alimentando (cioè dell’incapacità di far fronte alle proprie fondamentali esigenze di vita) e dell’impossibilità per quest’ultimo di provvedere al proprio mantenimento, restando irrilevante se lo stato di bisogno derivi dalla colpa dell’alimentando (salva la riducibilità dell’assegno alimentare in caso di condotta disordinata o riprovevole dell’alimentato); d) decorre dalla domanda giudiziale o dal giorno della messa in mora da parte dell’alimentando (ove questa sia seguíta entro sei mesi dalla domanda giudiziale) e termina con la cessazione dello stato di bisogno o con la sopravvenuta possibilità per l’alimentando di provvedere al proprio mantenimento.

Da tali pronunce si desume, in particolare, che, mentre l’obbligo di mantenimento è espressione del dovere di solidarietà familiare sancito dall’art. 30 Cost. ed assolve la funzione di consentire il pieno sviluppo della personalità dei figli, l’obbligo alimentare sussiste, invece, solo ove non vi sia obbligo di mantenimento ed assolve la diversa funzione di assistenza familiare, in quanto è diretto esclusivamente ad ovviare allo stato di bisogno ed all’incapacità dell’alimentando di farvi fronte. Corollario di questa impostazione giurisprudenziale sono le svariate sentenze della stessa Corte di cassazione civile – anch’esse non prese in considerazione dal rimettente – secondo le quali la diversità tra l’azione diretta ad ottenere il mantenimento e quella diretta ad ottenere gli alimenti legali comporta che alla prima non si applica la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale prevista dalla legge per la seconda (ex plurimis, Cassazione civile, sentenze n. 8417 del 2000; n. 7358 del 1994).

A diversa conclusione non può portare l’orientamento della stessa Corte di cassazione civile secondo cui la richiesta in appello degli alimenti non costituisce una vietata mutatio libelli rispetto alla domanda di mantenimento avanzata in primo grado, ma una mera emendatio libelli, come tale consentita dall’art. 345 del codice di procedura civile (ex plurimis, sentenze n. 1761 del 2008; n. 4198 del 1998; n. 6106 e n. 5381 del 1997). Invero, la generica comune funzione di sostenere economicamente il beneficiato, assolta dal credito alimentare e da quello di mantenimento, ed il fatto che – ove sussista anche lo stato di bisogno del figlio – l’assegno di mantenimento comprenda in sé, nel quantum, il minore importo dell’assegno alimentare sono circostanze che possono portare ad escludere, secondo il citato orientamento giurisprudenziale, la mutatio libelli, ma certamente non eliminano le indicate rilevanti diversità dei due istituti.

Deve, pertanto, concludersi che le situazioni poste a raffronto dal rimettente non sono omogenee e che la norma denunciata si sottrae alla censura di ingiustificata disparità di trattamento fiscale rispetto all’assegno alimentare per i figli. In particolare, la scelta del legislatore di consentire la deduzione fiscale esclusivamente dell’assegno periodico alimentare e non di quello di mantenimento appare ispirata alla non irragionevole ratio non solo di differenziare il trattamento fiscale di prestazioni eterogenee, ma anche di favorire l’adempimento dell’obbligo alimentare, cioè di un obbligo che sorge solo ove manchi quello di mantenimento e, quindi, ove sia divenuto meno intenso il vincolo di solidarietà familiare.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Novara con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 novembre 2008.

F.to:

Giovanni Maria FLICK, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 novembre 2008.