Sentenza n. 321 del 2007

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SENTENZA N. 321

ANNO 2007

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-      Franco                             BILE                                      Presidente

-      Giovanni Maria               FLICK                                      Giudice

-      Francesco                        AMIRANTE                                 "

-      Ugo                                 DE SIERVO                                 "

-      Paolo                               MADDALENA                            "

-      Alfio                                FINOCCHIARO                          "

-      Alfonso                           QUARANTA                               "

-      Franco                             GALLO                                        "

-      Luigi                                MAZZELLA                                "

-      Gaetano                           SILVESTRI                                  "

-      Sabino                             CASSESE                                     "

-      Maria Rita                       SAULLE                                       "

-      Giuseppe                         TESAURO                                    "

-      Paolo Maria                     NAPOLITANO                            "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), promossi dai Tribunale di Alba, di Verbania, di Monza e di Avellino con ordinanze del 9 dicembre 2005, del 24 gennaio 2006, del 4 gennaio 2006 e del 26 aprile 2006, rispettivamente iscritte ai nn. 39, 136 e 298 del registro ordinanze 2006 ed al n. 32 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 8, 19 e 37, prima serie speciale, dell’anno 2006 e n. 8, prima serie speciale, dell’anno 2007.

Visti gli atti di costituzione di P. G. e M. G. G., della Cassa di risparmio di Bra s.p.a. nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica dell’8 maggio 2007 e nella camera di consiglio del 9 maggio 2007 il Giudice relatore Francesco Amirante;

uditi gli avvocati Giuseppe De Naro Papa e Luigi Giuliano per P. G. e M. G. G., Ugo Petronio per la Cassa di risparmio di Bra s.p.a. e l’avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.1.–– Nel corso di un giudizio civile promosso da alcuni privati nei confronti della Cassa di risparmio di Bra s.p.a., per la dichiarazione di nullità di due contratti inerenti la negoziazione, la sottoscrizione e il collocamento di alcuni strumenti finanziari, il Giudice relatore del Tribunale di Alba  ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 76 e 111 della Costituzione, questione di legittimità dell’art. 8, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366).

Rileva il giudice a quo che la Cassa di risparmio convenuta, nel costituirsi in giudizio, ha depositato una comparsa di risposta nella quale, pur non svolgendo domande riconvenzionali e non sollevando eccezioni non rilevabili d’ufficio, ha introdotto nuove circostanze di fatto, producendo documenti ed articolando richieste istruttorie, anche di prove orali. La stessa convenuta, che non aveva fissato agli attori il termine per la memoria di replica nella suddetta comparsa, con atto notificato ai medesimi ha chiesto la fissazione dell’udienza, ai sensi dell’art. 8 del decreto impugnato. Il Presidente del Tribunale ha nominato il giudice relatore, davanti al quale gli attori hanno lamentato l’illegittima preclusione del proprio diritto di replica, mentre la parte convenuta ha eccepito la tardività e l’inammissibilità di tutte le istanze istruttorie degli avversari.

Ciò posto, il remittente precisa, sotto il profilo della rilevanza, di essere chiamato a decidere in ordine all’ammissibilità dei mezzi di prova e di dovere, quindi, fare applicazione degli artt. 8 e 10 del d.lgs. n. 5 del 2003, aggiungendo anche di essere legittimato a sollevare la presente questione ancorché la causa sia di competenza del tribunale in composizione collegiale. Poiché, infatti, è compito del giudice relatore decidere in ordine all’ammissibilità delle prove, non assume rilievo il fatto che il collegio sia successivamente chiamato, ai sensi dell’art. 16 del decreto in esame, a confermare o revocare il decreto del giudice delegato, perché questi deve applicare «in prima battuta» le norme processuali sulle preclusioni istruttorie.

Il giudice a quo, poste queste premesse, osserva, quindi, che la disposizione censurata consente al convenuto che non abbia proposto domande riconvenzionali e non abbia sollevato eccezioni non rilevabili d’ufficio di presentare istanza di fissazione di udienza, a seguito della quale si determinano, in base all’art. 10, comma 2, del d.lgs. n. 5 del 2003, la decadenza dal potere di proporre nuove eccezioni, di modificare la domanda e di formulare richieste istruttorie. In tal modo, a suo avviso, si maturano gravi preclusioni a carico dell’attore «per scelta unilaterale del convenuto», riguardanti in particolare le facoltà riconosciute dall’art. 6 dell’impugnato decreto.

Il remittente sostiene, per quel che riguarda il merito della questione, che la disposizione censurata si pone, in primo luogo, in contrasto con l’art. 3 Cost. in quanto, del tutto irragionevolmente e contraddittoriamente, consente al convenuto – attraverso l’utilizzabilità, senza alcuna limitazione, dello strumento processuale della presentazione dell’istanza di fissazione di udienza – di ostacolare l’effettivo esercizio del diritto di difesa da parte dell’attore, con conseguente disparità di trattamento fra le parti e concessione di un favor non giustificato a vantaggio di uno dei contendenti. La disposizione stessa violerebbe, in modo evidente, anche il diritto di difesa di cui all’art. 24, secondo comma, Cost., perché attribuisce ad una delle parti «la possibilità […] di incidere sulle facoltà di allegazione ordinariamente riconosciute alla controparte», permettendole così di stabilire unilateralmente il thema decidendum e il thema probandum, «con arbitraria neutralizzazione del diritto di replica della controparte». Il suddetto meccanismo, antitetico rispetto alla disciplina del nuovo rito civile introdotta dalla legge 26 novembre 1990, n. 353 – la quale, pur essendo ispirata al principio di preclusione o di eventualità, ne condiziona l’operatività alla concessione di termini perentori per le repliche, al fine di garantire la parità delle armi tra le parti riconosciuta dallo stesso art. 24 Cost. (si vedano soprattutto gli artt. 183 e 184 cod. proc. civ.) – si porrebbe, altresì, in contrasto con l’art. 111, secondo comma, Cost., perché, compromettendo gravemente detta parità, attribuisce al convenuto la facoltà di anticipare il momento di maturazione delle singole preclusioni a carico dell’attore, così negando a quest’ultimo il diritto di replica rispetto alle conclusioni della comparsa di costituzione e risposta e impedendo la piena attuazione del contraddittorio. Infine, la disposizione censurata sarebbe in contrasto con l’art. 76 Cost. in quanto, oltrepassando i limiti della delega di cui all’art. 12, comma 2, della legge 3 ottobre 2001, n. 366, «si discosta nettamente, nella definizione delle scadenze processuali, dalla disciplina del processo ordinario di cognizione».

Tuttavia, precisa il giudice piemontese, la disposizione da censurare è l’art. 8, comma 2, lettera c), del decreto n. 5 e non l’art. 10 del medesimo decreto, a suo tempo impugnato dal Tribunale di Lamezia Terme (così intendendosi riferire alla questione esaminata da questa Corte nella sentenza n. 415 del 2006). Poiché pertanto, a suo dire, la norma non è suscettibile di un’interpretazione adeguatrice, non resta che chiedere la declaratoria di illegittimità costituzionale della medesima.

1.2.–– Si sono costituiti in giudizio, con un unico atto, le parti private attrici nel giudizio a quo, chiedendo, anche in una memoria depositata in prossimità dell’udienza, l’accoglimento della prospettata questione.

Dopo aver sinteticamente ricapitolato le vicende del giudizio in corso, le parti ricordano che l’esatta portata della norma in esame è stata oggetto di numerose controversie interpretative: se interpretata alla lettera, infatti, essa «porterebbe inevitabilmente ad un’indebita compressione del diritto di difesa dell’attore, concretando una palese violazione degli artt. 24 e 111 Cost.». In casi come quello in esame, invero, pur non essendo state proposte domande riconvenzionali o eccezioni non rilevabili d’ufficio, tuttavia il convenuto ha introdotto fatti nuovi, producendo numerosi documenti ed articolando capitoli di prova, sicché l’accoglimento dell’istanza di fissazione di udienza determina la preclusione, per l’attore, di ogni attività difensiva di replica.

Ciò posto, le parti private richiamano alcune delle numerose pronunce con le quali vari giudici di merito hanno dichiarato inammissibile l’istanza di fissazione di udienza nell’ipotesi in cui il convenuto aveva ampliato il thema decidendum ed il thema probandum o, comunque, aveva svolto difese «diverse dalla semplice negazione dei fatti affermati dall’attore», a differenza di quanto è invece accaduto nel caso di specie. L’interpretazione letterale della norma accolta dal Tribunale di Alba farebbe sì che il convenuto possa avvalersi «di una facoltà assolutamente illegittima che gli permette di comprimere il diritto di difesa dell’attore», non consentendogli di replicare ad attività difensive che pure ampliano i termini del dibattito processuale. Nel caso specifico, infatti, la parte convenuta ha notificato un’ampia comparsa di risposta, ha formulato molteplici istanze istruttorie, riservandosi di produrre e specificare ulteriormente nel prosieguo del giudizio, ed ha effettuato una dettagliata articolazione di capitoli di prova, allargando il tema del giudizio e, di fatto, impedendo all’attore di esprimersi su tali deduzioni.

Secondo le parti, la novella normativa che ha introdotto il cosiddetto rito societario è animata da altre finalità, prima fra tutte quella della disponibilità della rinuncia alle proprie facoltà di replica: in altre parole, la parte che ha il potere di replicare può rinunziarvi, chiedendo immediatamente la fissazione dell’udienza, ma se intende avvalersi di tale potere, allora deve anche concedere quello di controreplica all’avversario. La facoltà di replica costituirebbe, in pratica, «un’esplicazione dei principi costituzionali», mentre la disposizione in esame, consentendo di proporre un’immediata istanza di fissazione di udienza, finirebbe col creare una disparità tra attore e convenuto. Simile disparità, inoltre, verrebbe ad essere oggettivamente aggravata dalla disposizione dell’art. 10, comma 2-bis, del d.lgs. n. 5 del 2003, in base al quale i fatti allegati dalle parti e non specificamente contestati vengono dati per pacifici; in tal modo l’attore verrebbe a trovarsi, in caso di comparsa di risposta «corposa ed estesa, con affermazione di fatti nuovi», nella sostanziale impossibilità di contestarli, sicché tali elementi verrebbero acquisiti e ritenuti pacifici nel processo. L’istanza di fissazione di udienza, in conclusione, sarebbe compatibile solo con una comparsa di risposta snella, che non amplii il thema decidendum ed il thema probandum, ossia che non dia adito alla necessità di replicare.

1.3.–– Si è altresì costituita in giudizio la Cassa di risparmio di Bra s.p.a., chiedendo, anche in una memoria aggiunta, che la prospettata questione venga dichiarata inammissibile o infondata.

In primo luogo, la Cassa sostiene che il giudice relatore non è legittimato, nell’ambito del processo societario, a sollevare questioni incidentali di legittimità costituzionale, in quanto la sua posizione è affatto diversa da quella del giudice istruttore nel processo civile ordinario. Nel processo societario, infatti, ad una fase di litis contestatio che si svolge tra le parti segue una fase giudiziale vera e propria, affidata alla competenza del collegio (art. 16 del d.lgs. n. 5 del 2003). E’ vero che al giudice delegato spettano una serie di poteri relativi all’ammissione dei mezzi di prova, ma è anche vero che i provvedimenti da lui emessi sono privi dei connotati della definitività, poiché il collegio può confermarli o revocarli. Ne dovrebbe conseguire, pertanto, che il potere di sollevare questioni di legittimità costituzionale dovrebbe spettare al solo collegio.

Quanto alla rilevanza della questione, la parte osserva che nel caso in esame il determinarsi delle preclusioni conseguenti alla domanda di fissazione di udienza non è stato il frutto di una «scelta unilaterale del convenuto», quanto piuttosto la conseguenza di un comportamento della parte attrice la quale, non formulando richieste istruttorie nell’atto di citazione, ha accettato il rischio di consentire alla controparte l’immediata definizione della materia del giudizio.

Secondo l’istituto bancario la questione appare non fondata nel merito, poiché il rito societario si basa su esigenze di speditezza e di attenuazione del rigore formale, con la conseguenza che le parti sono tenute alla massima completezza possibile degli atti introduttivi, insorgendo il diritto di replica soltanto nell’ipotesi di allargamento del thema decidendum da parte del convenuto. In altre parole, il sistema è costruito nel senso che «un ritardo nell’inserzione delle proprie allegazioni potrebbe costare caro», in quanto l’avversario ha la possibilità di cristallizzare il contraddittorio, evitando che vengano azionate manovre dilatorie.

Infondate risulterebbero, quindi, tutte le censure di cui all’ordinanza di rimessione, sia in riferimento all’art. 3 Cost. che all’art. 24 Cost.; quanto alla censura di eccesso di delega, infine, dovrebbero valere le argomentazioni della giurisprudenza di questa Corte circa la necessità di tenere conto del complessivo contesto e delle finalità che hanno ispirato la legge delega.

2.–– Nel corso di un giudizio civile, proposto nei confronti di Banca intesa s.p.a., il Presidente del Tribunale di Verbania ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 8, comma 2, lettera c), del d.lgs. n. 5 del 2003, nonché «del richiamo di tale norma nell’art. 4, comma 2», del medesimo decreto.

Premette il giudice a quo che il giudizio in corso ha per oggetto la nullità e l’annullamento di un contratto di mandato all’acquisto di obbligazioni e che la Banca convenuta, nel costituirsi, ha chiesto il rigetto delle domande e, nel contempo, ha replicato alle richieste istruttorie di parte attrice, producendo copiosa documentazione, formulando capitoli per un’ampia prova testimoniale ed avanzando, infine, istanza di fissazione di udienza. La parte attrice, a questo punto, ha notificato alla banca una memoria di replica, sostenendo di averne diritto nonostante la già avanzata richiesta di fissazione di udienza da parte della convenuta e, con separata domanda depositata in pari data, ha chiesto al Presidente del Tribunale di dichiarare l’inammissibilità dell’istanza di fissazione di udienza ovvero, in subordine, di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 2, lettera c), del d.lgs. n. 5 del 2003.

Ciò posto in punto di fatto, il giudice a quo precisa di dover vagliare, nella sua qualità di Presidente del collegio civile su delega del Presidente del Tribunale, tutte le questioni attinenti alla ritualità dell’istanza di fissazione di udienza, il che darebbe conto della rilevanza della questione di legittimità costituzionale posta dalla parte attrice, siccome «riguardante la norma che il Presidente è chiamato ad applicare prima di procedere alla nomina del giudice relatore e, quindi, prima di dare inizio al vero e proprio giudizio». Detta questione si palesa, a suo parere, non manifestamente infondata in riferimento ai richiamati parametri costituzionali.

La disposizione censurata, infatti, consente senza dubbio al convenuto – che non abbia sollevato eccezioni non rilevabili d’ufficio o avanzato domande riconvenzionali o chiamato in causa altre parti – di proporre istanza di fissazione di udienza anche nella comparsa di risposta. In tal modo, però, il convenuto può optare per l’immediato inizio del giudizio (ossia della fase che si svolge davanti al giudice) senza dar modo all’attore di replicare alle altrui difese e richieste istruttorie, con conseguente inammissibilità del deposito, da parte dell’attore, della memoria di replica di cui all’art. 6 del decreto n. 5 del 2003. Poiché il successivo art. 10 del medesimo decreto prevede espressamente che, a seguito dell’istanza di fissazione di udienza, è preclusa ogni modificazione delle istanze istruttorie e delle conclusioni già proposte, con conseguente decadenza delle parti dal potere di esercitare tali facoltà, è irrilevante, a detta del remittente, che siffatta decadenza non sia rilevabile d’ufficio, così come non può valere il fatto che le parti possano depositare, fino a cinque giorni prima dell’udienza collegiale, le proprie “memorie conclusionali”, poiché queste non potrebbero, comunque, contenere altro che argomentazioni difensive di confutazione di quelle della controparte. A parere del giudice a quo, invece, le repliche istruttorie previste nel rito ordinario sono finalizzate proprio «ad assicurare che entrambe le parti siano messe in grado di difendersi utilizzando i mezzi istruttori previsti dalla legge processuale (artt. 3, primo comma, e 24, secondo comma, Cost.)»; ed anche nel rito del lavoro è previsto (art. 420, quinto e settimo comma, cod. proc. civ.) che il giudice ammetta richieste istruttorie che la parte adduca di non aver potuto proporre prima, con contestuale concessione di termine alla controparte per avanzare analoga richiesta.

Osserva inoltre il Presidente del Tribunale di Verbania che le finalità di concentrazione e speditezza che dovrebbero essere alla base del rito societario sono in realtà contraddette dall’art. 7 del d.lgs. n. 5 del 2003, che di fatto consente lo scambio «di almeno altre tre memorie per ciascuna delle parti in causa»; ciò comporta che vietare all’attore la formulazione di qualsiasi ulteriore richiesta istruttoria nel caso in questione contrasta col principio della parità processuale delle parti «che si attua per il tramite del diritto al contraddittorio» di cui all’art. 111, secondo comma, della Costituzione.

3.–– Nel corso di un giudizio civile, proposto per l’annullamento di una delibera di una società a responsabilità limitata ai sensi dell’art. 2377 cod. civ., il Tribunale di Avellino, in composizione collegiale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 8, comma 2, lettera c), del d.lgs. n. 5 del 2003 «nella parte in cui preclude la possibilità all’attore di depositare una memoria di replica a seguito dell’istanza di fissazione di udienza da parte del convenuto».

Rileva il Tribunale che la società convenuta ha chiesto il rigetto della domanda attrice e, con successiva istanza, la fissazione dell’udienza ai sensi della disposizione censurata. L’attore, successivamente a tale istanza, ha depositato una memoria di replica deducendo l’illegittimità costituzionale della norma in esame, sollecitando la declaratoria di ammissibilità della propria memoria e, in subordine, la rimessione in termini al fine di esibire nuovi documenti e svolgere nuove deduzioni. Il giudice relatore nel frattempo designato ha dichiarato l’inammissibilità della memoria di replica e ha disposto la rimessione in termini della parte attrice, fissando l’udienza collegiale.

All’esito della discussione avvenuta in quest’ultima sede, il Tribunale di Avellino dichiara di ritenere non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla parte attrice nei propri scritti difensivi.

La disposizione censurata, infatti, prevede che, qualora sia notificata l’istanza di fissazione di udienza, nessun nuovo termine possa essere assegnato all’attore per il deposito di memorie di replica; la possibilità che la legge offre in tal modo al convenuto di impedire la presentazione della memoria di replica appare tale da ledere la parità delle rispettive posizioni tra attore e convenuto, perché le domande dell’attore restano cristallizzate «nel modo in cui questi le aveva formulate prima di conoscere le eccezioni di controparte». Tale disparità risulta aggravata, a parere del giudice a quo, dalla previsione dell’art. 10, comma 2-bis, del d.lgs. n. 5 del 2003, in base al quale i fatti allegati dalle parti e non specificamente contestati vengono dati per pacifici; in questo modo una comparsa di risposta che contenga l’introduzione di fatti nuovi, accompagnata dalla richiesta di immediata fissazione di udienza, fa sì che l’attore si trovi, in sostanza, costretto a prestare acquiescenza alle nuove deduzioni del convenuto, senza poter in alcun modo replicare.

Ad avviso del Tribunale, la possibilità per la parte di replicare «appare espressione dei principi costituzionali di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., di difesa di cui all’art. 24 Cost. e del contraddittorio», mentre la norma impugnata consentirebbe al convenuto di precludere all’attore l’esercizio di siffatti diritti.

La questione, infine, si palesa rilevante in quanto dal suo accoglimento deriverebbe la possibilità di ritenere ammissibile la memoria di replica depositata dall’attore.

4.— Nel corso di un giudizio civile promosso da alcuni privati nei confronti di Banca Intesa s.p.a., il Presidente del Tribunale di Monza ha sollevato, in riferimento all’art. 24 della Costituzione, questione di legittimità dell’art. 8, comma 2, lettera a), del d. lgs. n. 5 del 2003.

Rileva in punto di fatto il giudice a quo che la Banca convenuta, dopo aver notificato la propria comparsa di risposta in data 6 giugno 2005, ha notificato, il successivo 9 giugno, l’istanza di fissazione di udienza, alla quale gli attori si sono opposti, deducendone l’inammissibilità. A sostegno di tale opposizione, essi hanno affermato che le difese della banca conterrebbero delle eccezioni non rilevabili d’ufficio, il che comporta la sussistenza di un loro diritto di replica prima che i convenuti possano chiedere la fissazione dell’udienza. Ciò in quanto, dopo l’introduzione del comma 2-bis nell’art. 10 del d.lgs. n. 5 del 2003, le circostanze dedotte dalla convenuta potrebbero essere ritenute pacifiche in seguito alla mancata contestazione da parte degli attori, contestazione che questi non sono stati messi in condizione di effettuare.

Precisa il giudice a quo di non condividere l’impostazione degli attori, poiché la banca convenuta non ha, in realtà, proposto né domande riconvenzionali né eccezioni non rilevabili d’ufficio, sicché deve riconoscersi che alla medesima spetta il diritto di chiedere immediatamente la fissazione dell’udienza, secondo il disposto dell’impugnato art. 8. Siffatta scelta del legislatore, che corrisponde all’esigenza «di assicurare la concentrazione del procedimento e la riduzione dei termini processuali», non consente al giudice alcuna interpretazione diversa da quella letterale; proprio da tale preclusione della possibilità di sviluppare un adeguato contraddittorio, tuttavia, deriverebbe, secondo il remittente, un grave pregiudizio dei principi costituzionali in tema di giusto processo e di diritto di difesa. Nel caso di specie, infatti, la convenuta ha dedotto elementi di fatto ed ha articolato fatti estintivi delle pretese degli attori, senza che a costoro venga permesso di prendere posizione sui tali fatti nuovi o diversi, oggetto di mezzi istruttori all’uopo indicati; in una situazione del genere consentire al convenuto di chiudere immediatamente la fase della litis contestatio, senza ammettere l’attore ad un effettivo contraddittorio, si risolve in una lesione del diritto di difesa di quest’ultimo.

Il Presidente del Tribunale di Monza, quindi, solleva questione di legittimità costituzionale della disposizione censurata nella parte in cui non prevede che tra le ipotesi preclusive all’immediata fissazione di udienza da parte del convenuto «vi siano anche deduzione di fatti modificativi, impeditivi o estintivi della domanda attrice o l’articolazione di prova contraria “indiretta”»; questione rilevante nel giudizio poiché la norma da scrutinare non consente all’attore, allo stato, di esercitare alcuna facoltà istruttoria, il che imporrebbe di accogliere l’istanza di fissazione di udienza da parte della banca convenuta.

5.–– In tutti e quattro i giudizi in esame è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con atti di contenuto identico, concludendo per l’inammissibilità o la manifesta infondatezza delle questioni.

Osserva l’Avvocatura dello Stato che il nuovo rito societario può essere distinto in tre fasi: la fase preparatoria, volta a fissare in via definitiva il thema decidendum ed il thema probandum; la fase che va dalla designazione del giudice relatore al deposito del decreto di fissazione di udienza; la fase dell’udienza di discussione davanti al collegio, comprensiva della trattazione, eventuale istruzione e decisione della controversia. La prima fase si svolge esclusivamente tra le parti, senza la partecipazione del giudice, con lo scambio dei reciproci atti difensivi. Essa si caratterizza perché ognuno può rinunciare alla propria replica, chiedendo la fissazione dell’udienza, nella consapevolezza che l’avversario può fare altrettanto; ciascuna parte, cioè, sa che la controparte è in condizioni di far scattare il meccanismo delle preclusioni (tramite la richiesta di fissazione dell’udienza) ove non proponga domande, eccezioni o prove nuove. Tale meccanismo stimola le parti alla completezza degli atti e, nello stesso tempo, consente a chi è interessato, rinunciando alla propria facoltà di replica, di accelerare i tempi del processo.

Fin dalla proposizione degli atti introduttivi, perciò, «a ciascun ampliamento del thema decidendum e/o delle offerte probatorie formulate da una parte deve conseguire la possibilità di ulteriore risposta dell’altra», sicché solo in assenza di tale adempimento ciascuna parte può decidere di chiudere la fase preparatoria ed aprire quella successiva. Qualora la comparsa di risposta del convenuto non determini alcun allargamento dell’oggetto del processo, questi ha la possibilità di chiedere immediatamente la fissazione dell’udienza, cui segue la tendenziale definizione e cristallizzazione del thema decidendum, delle produzioni documentali e delle richieste istruttorie, con il maturarsi di decadenze che sono comunque soggette ad eccezione di parte.

Ne consegue, ad avviso dell’Avvocatura, che il rito societario non comprime in alcun modo il diritto di difesa, né altera il principio della “parità delle armi”, poiché la fissazione definitiva dell’oggetto del processo non è rimessa all’iniziativa unilaterale di una parte. Nel caso in cui, quindi, la necessità di replicare sia sorta per l’attore in conseguenza dell’attività difensiva del convenuto – il quale, evidentemente, non si è limitato ad una mera negazione delle ragioni dell’avversario – potrebbe darsi che al convenuto non sia consentito chiedere immediatamente la fissazione dell’udienza, in quanto all’attore dovrebbe essere data facoltà di controdedurre, di precisare o modificare le domande, depositando documenti e formulando ulteriori richieste istruttorie. Qualora, invece, «le nuove esigenze difensive dell’attore derivino dalle mere difese e dalle allegazioni contenute in una comparsa di risposta in cui formalmente manchino domande riconvenzionali, eccezioni non rilevabili d’ufficio o chiamate in causa di terzi», vi è sempre la possibilità di avvalersi della rimessione in termini, appositamente prevista dall’art. 13, comma 5, del d.lgs. n. 5 del 2003. Questa norma consente comunque al giudice di conferire alla parte il potere di riequilibrare quella parità che sia stata eventualmente lesa.

Da tanto discenderebbe, pertanto, l’infondatezza della questione.

Considerato in diritto

1.— Sono state sollevate questioni di legittimità costituzionale di alcune disposizioni del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366).

In particolare, il giudice relatore del Tribunale di Alba in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 76 della Costituzione, il Presidente del Tribunale di Verbania, evocando i primi tre degli articoli suindicati, il Tribunale di Avellino, in composizione collegiale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., hanno censurato l’art. 8, comma 2, lettera c), del d.lgs. n. 5 del 2003; il Presidente del Tribunale di Verbania anche il richiamo fattone nell’art. 4, comma 2, dello stesso decreto; il Presidente del Tribunale di Monza, in riferimento al solo art. 24 Cost., ha censurato l’art. 8, comma 2, lettera a), del suddetto decreto legislativo.

Tutti i remittenti lamentano che dal combinato disposto dell’art. 8, comma 2, lettera c) – il quale dà facoltà al convenuto di presentare istanza di fissazione dell’udienza entro venti giorni dalla propria costituzione qualora non abbia proposto domande riconvenzionali, né sollevato eccezioni non rilevabili di ufficio, né chiesto di chiamare in causa un terzo – e dell’art. 10, comma 2, del d.lgs. n. 5 del 2003 – che, nella ipotesi suindicata, commina la decadenza dell’attore dal diritto di modificare la domanda o di proporne di nuove, di dedurre prove ed esibire documenti, quindi globalmente di replicare – deriva una grave lesione del diritto di difesa dell’attore qualora il convenuto abbia dedotto fatti dall’attore stesso non allegati e abbia formulato istanze istruttorie. Tutto ciò avendo anche riguardo alla disposizione del comma 2-bis del medesimo art. 10, introdotto con l’art. 4 del decreto legislativo 28 dicembre 2004, n. 310, il quale stabilisce che l’istanza di fissazione dell’udienza rende pacifici i fatti allegati dalle parti e in precedenza non specificamente contestati.

Le eccezioni sono state sollevate in controversie aventi ad oggetto rapporti di intermediazione finanziaria tra privati e istituti bancari, ad eccezione di quella del Tribunale di Avellino, proposta in una causa d’impugnazione di una delibera sociale.

Secondo i remittenti Tribunali di Alba, di Verbania e di Avellino, la Corte dovrebbe dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 2, lettera c), del d.lgs. n. 5 del 2003 (recte: della sua prima parte, e cioè dalle parole «al di fuori» alla parola «ovvero») e secondo il Tribunale di Verbania anche del richiamo fattone nell’art. 4, comma 2, dello stesso decreto; secondo il Tribunale di Monza occorrerebbe, invece, incidere sull’art. 8, comma 2, lettera a), «nella parte in cui non prevede che tra le ipotesi preclusive alla immediata fissazione di udienza da parte del convenuto (proposizione di domanda riconvenzionale ovvero sollevamento di eccezioni non rilevabili d’ufficio) vi siano anche le deduzioni di fatti modificativi, impeditivi o estintivi della domanda attrice».

2.— I giudizi, aventi ad oggetto questioni in parte identiche, in parte strettamente connesse, devono essere riuniti per essere decisi con unica sentenza.

3.— La questione proposta dal giudice relatore del Tribunale di Alba è inammissibile.

Questa Corte, riguardo alla legittimazione a sollevare questioni di legittimità costituzionale di un singolo magistrato facente parte di un organo collegiale, ha sempre ritenuto che essa esista qualora il dubbio di costituzionalità concerna norme che egli nella sua specifica qualità (di istruttore, di relatore, di giudice delegato, di presidente) debba applicare, ancorché il suo giudizio sia suscettibile di essere eventualmente modificato in prosieguo del processo (ex plurimis, sentenze n. 125 del 1980, n. 157 del 1989, n. 415 del 2006, ordinanze n. 552 del 2000, n. 391 del 2002).

L’art. 8, comma 5, del d.lgs. n. 5 del 2003, stabilisce che «l’istanza di fissazione presentata fuori dei casi del presente articolo è dichiarata inammissibile, su richiesta della parte interessata depositata in cancelleria nel termine perentorio di dieci giorni dalla notifica dell’istanza, dal presidente che, sentite le parti, provvede con ordinanza non impugnabile…».

Dalle premesse di fatto dell’ordinanza di rimessione risulta che la parte attrice aveva presentato istanza «per la declaratoria di inammissibilità della richiesta di fissazione dell’udienza» e che il presidente aveva ritenuto che l’istanza di fissazione dell’udienza fosse conforme al disposto dell’art. 8, comma 2, lettera c), nonché al disposto dell’art. 4, comma 2, nominando, quindi, il relatore. A quest’ultimo, quindi, competeva emettere il decreto di fissazione dell’udienza (nel cui ambito rientrava l’ammissione dei mezzi di prova) sul presupposto della legittimità della suindicata istanza, sulla quale già si era espresso positivamente il presidente, il cui giudizio avrebbe potuto essere eventualmente riesaminato dal collegio ai sensi dell’art. 16, comma 4. Il giudice relatore remittente si è, pertanto, attribuita la legittimazione a sollevare la questione di legittimità costituzionale con una motivazione carente, in quanto non tiene conto del sistema normativo di riferimento (si veda la sentenza n. 415 del 2006) e, in particolare, non considera che la legge non prevede un riesame da parte del giudice relatore del giudizio del presidente sull’ammissibilità dell’istanza di fissazione dell’udienza, costituente il presupposto della stessa nomina del relatore.

4.— Le altre ordinanze non presentano, invece, problemi riguardo alla legittimazione degli organi remittenti.

Le questioni, pertanto, devono essere scrutinate nel merito nei termini in cui sono poste con le ordinanze dei Tribunali di Verbania, di Avellino e di Monza.

Va premesso che non spetta a questa Corte fornire una ricostruzione del sistema processuale introdotto con i provvedimenti legislativi cui appartengono le disposizioni censurate, né è possibile nel caso in esame il recepimento, quale base dello scrutinio di costituzionalità, di esiti interpretativi accettati dalla giurisprudenza comune (cosiddetto diritto vivente). Si tratta, infatti, di un complesso normativo di recente entrato in vigore, riguardo al quale si riscontrano orientamenti non concordi della magistratura di merito e sui quali la Corte di cassazione non ha ancora avuto modo di pronunciarsi.

Tuttavia, secondo opinioni non controverse, il cosiddetto rito societario è ispirato alla finalità della maggiore possibile rapidità del processo, da raggiungere, anzitutto, con l’identificazione dell’oggetto della lite nei suoi elementi soggettivi ed oggettivi, con la delimitazione di ciò che è oggetto di controversia nella ricostruzione dei fatti, e quindi di prova, rispetto a quanto è pacifico, e con la previsione di una prima fase, a tal fine predisposta, che si svolge esclusivamente tra le parti.

Alla soddisfazione di tale esigenza di rapidità sono preordinate la fissazione di termini brevi e coordinati per le rispettive attività delle parti e la previsione di preclusioni, ma, come è ovvio, il risultato della rapidità del processo non può essere conseguito se non nel pieno rispetto di quei principi costituzionali, i quali riguardano specificamente il processo, come il diritto di difesa, o che devono realizzarsi anche nel processo, come il principio di eguaglianza, il quale, secondo l’esplicitazione fattane con la modifica dell’art. 111 Cost., nel linguaggio giuridico corrente si esprime con la locuzione di “principio di parità delle armi”; parità riguardo alla giurisdizione che questa Corte ha definito come uno degli essenziali principi alla base dello Stato di diritto (sentenza n. 24 del 2004).

5.— Tutto ciò premesso, è fondata la questione proposta dal Presidente del Tribunale di Monza.

La motivazione che sorregge la proposizione di tutte le questioni, nel loro nucleo essenziale comune a tutti i remittenti, consiste nell’addurre la violazione del principio di eguaglianza (artt. 3 e 111 Cost.) in tema di disciplina dell’esercizio del diritto di difesa (art. 24 Cost.). Essa si fonda sui seguenti argomenti: a) il convenuto può ritualmente presentare l’istanza di fissazione dell’udienza fuori dei casi indicati dall’art. 8, comma 2, lettere a) e b), del decreto n. 5 del 2003 – e, quindi, anche se ha allegato fatti diversi da quelli prospettati dall’attore in citazione – entro venti giorni dalla propria costituzione, eventualmente prima che l’attore abbia potuto replicare e anteriormente alla scadenza del relativo termine; b) l’istanza di fissazione dell’udienza, ai sensi dell’art. 10, comma 2, del d.lgs. n. 5 del 2003, determina la decadenza di tutte le parti – nei casi in esame di parte attrice – dal potere di proporre nuove eccezioni, di precisare o modificare domande o eccezioni già proposte, nonché di formulare ulteriori istanze istruttorie e depositare nuovi documenti e, quindi, del diritto in sé di proporre la memoria di replica; c) siffatte decadenze, nelle ipotesi, ricorrenti nei giudizi a quibus, di deduzione da parte del convenuto di circostanze di fatto diverse da quelle prospettate da parte attrice e idonee a privare queste ultime in tutto o in parte degli effetti che ad esse si riconnettono, ledono il diritto di difesa dell’attore nei suoi profili di facoltà di allegazione dei fatti e di contestazione di quelli da altri dedotti e di potere di prova, venendo a determinare una posizione illegittima di vantaggio per il convenuto; d) non ha alcun rilievo il fatto che le decadenze suddette non siano rilevabili di ufficio, ma debbano essere eccepite dalla parte che vi abbia interesse nel primo atto successivo, ai sensi dell’art. 157 cod. proc. civ.; e) non ha rilievo la disposizione che prevede la possibilità della remissione in termini, in quanto, da un lato, essa non fonda un diritto della parte ma prevede una mera facoltà del giudice, dall’altro, essa ha come presupposto l’eventualità di irregolarità nello svolgimento del processo e non può essere quindi un correttivo del fisiologico svolgimento di questo.

Le esposte ragioni devono essere nella loro sostanza condivise.

Infatti, contrariamente al presupposto implicito nel censurato combinato disposto e cioè che soltanto le ipotesi espressamente previste nelle lettere a) e b) del comma 2 dell’art. 8 del decreto n. 5 del 2003 determinano un allargamento dell’oggetto della controversia, questo può derivare anche da altre deduzioni difensive del convenuto, che non è possibile circoscrivere dettagliatamente. In tali ipotesi, l’attore deve poter esercitare pienamente il proprio diritto di difesa e tutte le facoltà e i poteri che ad esso si riconnettono. E a tal proposito non ha rilievo stabilire, compito del resto estraneo a quelli propri di questa Corte nel presente giudizio, se nel sistema del d.lgs. n. 5 del 2003 l’istanza di fissazione dell’udienza presentata dal convenuto nel termine previsto dall’art. 8, comma 2, lettera c), comporti la decadenza dell’attore dal diritto di notificare la memoria di replica, oppure le decadenze specificamente indicate nell’art. 10, fermo restando il diritto di notificare la memoria di replica, perché ciò che conta è la privazione ingiustificata dell’esercizio di fondamentali poteri insiti nel diritto di difesa (di allegazione e contestazione delle allegazioni altrui, di deduzione di prove, di modificazione delle proprie domande in conseguenza delle difese di controparte).

6.— Una volta accertato che dalle norme censurate deriva la violazione degli evocati parametri costituzionali nei quali trovano la loro radice diritti fondamentali quali il diritto di difesa considerato di per sé e con riguardo alla posizione delle controparti nel processo, e cioè quale diritto di parità (artt. 3, 24 e 111 Cost.), la Corte deve farsi carico del rimedio.

A tal proposito è da ritenere che il tipo di rimedio possa essere ricavato dallo stesso sistema processuale del quale fanno parte le disposizioni censurate.

Si può, infatti, rilevare che in numerose disposizioni che prevedono e regolano il diritto di replica delle parti si fa riferimento, con locuzioni diverse ma sostanzialmente equivalenti, alla circostanza che sia la linea difensiva della controparte a determinare il diritto di replica.

L’art. 6, comma 2, nel disciplinare il contenuto della memoria di replica dell’attore, stabilisce che egli può «proporre nuove domande ed eccezioni che siano conseguenza […] delle difese proposte dal convenuto» (lettera b) e che può chiedere di «chiamare un terzo […] se l’esigenza è sorta dalle difese del convenuto» (lettera c); a sua volta l’art. 7, nel disciplinare le repliche ulteriori, prevede l’esercizio di poteri che siano conseguenza della linea difensiva posta in essere dalla controparte.

Si può quindi constatare che il sistema processuale, posto che l’esigenza di soddisfare il contraddittorio attiene alla tutela di diritti fondamentali, modella il diritto di replica in funzione di tale esigenza, avendo presente non un contraddittorio astratto e puramente ipotetico, ma quello che, attraverso le deduzioni delle parti, viene in concreto a delinearsi come correlativo all’effettivo, specifico oggetto della controversia.

Sulla base di tali considerazioni, sarebbe rimedio eccessivo dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 2, lettera c), escludendo la possibilità di un’immediata istanza di fissazione dell’udienza anche nell’ipotesi di comparsa di risposta che neghi il fondamento della domanda senza in alcun modo ampliare l’oggetto della controversia, sicché, per questa parte, non sono fondate le questioni come proposte dai Tribunali di Verbania e Avellino.

Viceversa, la disposizione sulla quale incidere, come prospettato dal Tribunale di Monza, è quella dell’art. 8, comma 2, lettera a). Essa, infatti, disciplina il diritto di replica ed assicura lo svolgimento del contraddittorio in casi specifici di allargamento del thema decidendum. E’ la specificità delle ipotesi a rendere illegittima la norma, sicché a queste va aggiunta, per identità di ratio e in conformità al sistema del d.lgs. n. 5 del 2003, la generale prescrizione che il diritto di replica sia conseguenza delle difese del convenuto.

Deve essere, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 2, lettera a), del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, nella parte in cui non prevede anche l’ipotesi che il convenuto abbia svolto difese dalle quali sorga l’esigenza dell’esercizio del diritto di replica dell’attore.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 2, lettera a), del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), nella parte in cui non prevede anche l’ipotesi che il convenuto abbia svolto difese dalle quali sorga l’esigenza dell’esercizio del diritto di replica dell’attore;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 2, lettera c), del medesimo decreto legislativo n. 5 del 2003, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 76 della Costituzione, dal giudice relatore del Tribunale di Alba, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 2, lettera c), dello stesso decreto legislativo n. 5 del 2003, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 e 111 della Costituzione, dal Presidente del Tribunale di Verbania e dal Tribunale di Avellino, in composizione collegiale, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 luglio 2007.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Francesco AMIRANTE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 luglio 2007.