Ordinanza n. 296 del 2007

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ORDINANZA N. 296

ANNO 2007

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-      Franco                             BILE                                      Presidente

-      Giovanni Maria               FLICK                                      Giudice

-      Francesco                        AMIRANTE                                 "

-      Ugo                                 DE SIERVO                                 "

-      Paolo                               MADDALENA                            "

-      Alfio                                FINOCCHIARO                          "

-      Franco                             GALLO                                        "

-      Luigi                                MAZZELLA                                "

-      Gaetano                           SILVESTRI                                  "

-      Sabino                             CASSESE                                     "

-      Maria Rita                       SAULLE                                       "

-      Giuseppe                         TESAURO                                    "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 5, ovvero, in alternativa, dell’art. 7 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), promosso dal Tribunale di Monza, nel procedimento civile vertente tra Fallimento Decori & Decori s.r.l. e C. A. S. ed altri, con ordinanza del 4 luglio 2005, iscritta al n. 124 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell’anno 2007.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 20 giugno 2007 il Giudice relatore Francesco Amirante.

Ritenuto che, nel corso di un giudizio promosso dal curatore del fallimento di una società a responsabilità limitata nei confronti degli amministratori e sindaci della medesima per ottenere la loro condanna al risarcimento dei danni, il Presidente del Tribunale di Monza ha sollevato, in riferimento all’art. 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 5, ovvero, in alternativa, dell’art. 7 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366);

che, nel ricostruire la vicenda processuale sottoposta al suo esame, il giudice remittente riferisce che la causa era iniziata con il rito ordinario innanzi al medesimo Tribunale di Monza e che  i convenuti costituendosi, ad eccezione di uno rimasto contumace, avevano eccepito, tra l’altro, che, essendo stato introdotto il giudizio (nei confronti di alcuni dei convenuti medesimi) in data successiva all’entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2003, esso avrebbe dovuto proseguire con il rito societario;

che erano state quindi tenute, davanti al giudice istruttore, l’udienza di cui all’art. 180 del codice di  procedura civile e quella di cui all’art. 183 dello stesso codice, in esito alla quale il giudice, con ordinanza del 4 novembre 2004, comunicata in data 17 novembre 2004, aveva disposto il mutamento del rito, contestualmente provvedendo alla cancellazione della causa dal ruolo;

che la decisione era stata assunta sul rilievo per cui il rito societario dovesse prevalere su quello ordinario, benché per alcuni convenuti la notificazione dell’atto di citazione fosse avvenuta prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2003;

che, ricevuta comunicazione dell’ordinanza citata, i convenuti avevano immediatamente notificato alle altre parti (attore compreso) l’istanza di fissazione di udienza, cui si era opposta la curatela del fallimento, e quindi il Presidente del Tribunale aveva fissato l’udienza per la decisione sull’ammissibilità o meno di tale istanza;

che, secondo il giudice a quo, occorre essenzialmente stabilire se – una volta intervenuta l’ordinanza di mutamento del rito dopo che le parti erano comparse per l’udienza di cui all’art. 180 cod. proc. civ. ed avevano svolto memorie difensive – fosse consentito o meno ai convenuti notificare immediatamente l’istanza di fissazione di udienza;

che, a questo proposito, il remittente ricorda come l’art. 1, comma 5, del d.lgs. n. 5 del 2003 prescriva che «dalla comunicazione dell’ordinanza decorrono, se emessa a seguito dell’udienza di prima comparizione, i termini di cui all’articolo 6 ovvero, in ogni altro caso, i termini di cui all’articolo 7»;

che, nel caso specifico, il giudice originariamente adito col rito ordinario, nel disporre la cancellazione della causa dal ruolo, ha anche concesso alle parti i termini di cui al suindicato art. 6, mentre – osserva il remittente – il discrimine temporale indicato dal menzionato art. 1, comma 5, è l’udienza di prima comparizione di cui all’art. 180 cod. proc. civ., sicché dovrebbero applicarsi i termini di cui all’art. 7 del d.lgs. n. 5 del 2003, senza alcuna «valutazione di opportunità da parte del giudice che emette l’ordinanza di mutamento del rito»;

che da ciò consegue che, nel giudizio in corso, la notificazione dell’istanza di fissazione di udienza da parte dei convenuti deve ritenersi legittima in quanto il legislatore, una volta tenutasi la prima udienza di comparizione, non ha voluto consentire all’attore la “mossa successiva”, quando – come nella specie – essendosi la conversione del rito verificata dopo la citata udienza, l’attore abbia già avuto modo di fissare il thema decidendum nella successiva udienza di cui all’art. 183 cod. proc. civ.;

che il giudice a quo, peraltro, pur affermando essere questa la corretta interpretazione del sistema vigente, ne fa derivare «un serio problema di costituzionalità» in quanto l’art. 7 del d.lgs. n. 5 del 2003 consente alla parte convenuta di richiedere la fissazione dell’udienza immediatamente dopo la comunicazione dell’ordinanza di cambiamento del rito, così precludendo «definitivamente alla parte attrice di svolgere le sue difese che, nel rito ordinario, ben avrebbero potuto essere proposte […] nella successiva fase delle memorie» di cui all’art. 184 cod. proc. civ.;

che, secondo il remittente, in questo modo, la scelta di un rito piuttosto che di un altro si risolve in una lesione del diritto di difesa dell’attore, poiché il convenuto ha la possibilità di troncare l’articolazione delle domande da parte dell’attore il quale legittimamente non ha ancora compiutamente dispiegato la propria linea processuale;

che siffatta lesione emergerebbe ancor più chiaramente dal confronto tra le disposizioni censurate e l’art. 426 cod. proc. civ., riguardante la conversione del rito in caso di passaggio dal rito ordinario al rito del lavoro;

che, ad avviso del giudice a quo, nel caso in esame sussistono, quindi, due diverse questioni di illegittimità costituzionale, prospettate «in via alternativa»: una relativa all’art. 1, comma 5, nella parte in cui non prevede che i termini per lo svolgimento delle fasi di scambio difensivo siano collegati sempre all’art. 6 anziché all’art. 7; un’altra avente ad oggetto l’art. 7, nella parte in cui «prevede direttamente la possibilità della parte convenuta di esercitare il potere di presentare l’istanza di fissazione di udienza di discussione senza imporre che comunque alla parte attrice debba essere offerto il termine di cui alla seconda parte dell’art. 7 (la fissazione di un termine, non inferiore a venti giorni dalla notificazione, per una ulteriore replica)»;

che, quanto alla rilevanza delle questioni, si osserva come l’eventuale accoglimento anche di una sola delle due condurrebbe all’inammissibilità dell’istanza di fissazione di udienza, mentre in caso di rigetto si dovrebbe pervenire alla decisione opposta;

che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o l’infondatezza delle questioni.

Considerato che il Presidente del Tribunale di Monza, ha sollevato, in riferimento all’art. 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 5, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366);

che, in via espressamente dichiarata alternativa alla prima, il remittente ha sollevato, sempre con riferimento all’art. 24 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 7 del d.lgs. n. 5 del 2003;

che tali questioni sono insorte nell’ambito di un procedimento civile avente ad oggetto l’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società contro gli amministratori e sindaci della medesima, instaurato con il rito ordinario e nel quale è intervenuta, ai sensi dell’art. 1, comma 5, del suindicato decreto legislativo, ordinanza di trasformazione del rito dopo che si erano svolte le udienze di cui agli artt. 180 e 183 cod. proc. civ., con l’espressa indicazione che si sarebbero dovuti applicare i termini di cui all’art. 6 del d.lgs. n. 5 del 2003;

che è stata proposta, da parte di alcuni dei convenuti, istanza di fissazione dell’udienza, sulla cui ammissibilità è stato chiamato a pronunciarsi il remittente Presidente del Tribunale, ai sensi dell’art. 8, comma 5, del medesimo d.lgs. n. 5 del 2003;

che il giudice a quo – premesso che l’indicazione del giudice sui termini da osservare in prosieguo è irrilevante perché contraria alle previsioni di legge le quali si riferiscono, nella specie, ai termini di cui all’art. 7 del d.lgs. n. 5 del 2003 – sostiene che dal delineato sistema normativo, quale risulta dagli artt. 1, comma 5, 7, e 10 dello stesso decreto, deriva la lesione del diritto di difesa di parte attrice, privata del potere di dedurre prove;

che il remittente prospetta, per ricondurre il sistema a legittimità costituzionale, la possibilità di un intervento di questa Corte in via alternativa o sull’art. 1, comma 5, oppure sull’art. 7 menzionati;

che la proposizione di questioni concernenti disposizioni diverse in rapporto di alternatività irrisolta è manifestamente inammissibile, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis ordinanze n. 215 del 2005, n. 185 del 2006, n. 62 del 2007).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 5, e dell’art. 7 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), sollevate, in riferimento all’art. 24 della Costituzione, dal Presidente del Tribunale di Monza con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 luglio 2007.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Francesco AMIRANTE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 luglio 2007.