Sentenza 265 del 2005

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SENTENZA N. 265

ANNO 2005

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Piero Alberto              CAPOTOSTI                       Presidente

- Guido                         NEPPI MODONA                Giudice

- Annibale                     MARINI                                     "

- Franco                         BILE                                           "

- Giovanni Maria           FLICK                                        "

- Francesco                    AMIRANTE                               "

- Ugo                             DE SIERVO                               "

- Romano                      VACCARELLA                        "

- Paolo                           MADDALENA                          "

- Alfonso                       QUARANTA                             "

- Franco                         GALLO                                      "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 707 del codice penale, promossi, nell’ambito di diversi procedimenti penali, dal Tribunale di Viterbo con due ordinanze del 27 novembre 2003, iscritte ai numeri 704 e 822 del registro ordinanze del 2004 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36 e n. 43, prima serie speciale, dell’anno 2004.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 4 maggio 2005 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.

Ritenuto in fatto

1. - Con due ordinanze di identico tenore il Tribunale di Viterbo ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 707 del codice penale (Possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli), in riferimento agli artt. 3, 13, 24, secondo comma, 25, secondo comma, 27, primo, secondo e terzo comma, della Costituzione.

Facendo proprie le considerazioni del pubblico ministero che ha prospettato il dubbio di costituzionalità, il rimettente osserva  che l’art. 707 cod. pen. «appartiene alla generale categoria dei reati c.d. ‘senza offesa’», della cui conformità a Costituzione si dubita «per contrasto con il principio di offensività, in ragione dell’eccessivo grado di anticipazione della tutela del bene giuridico-penale». In particolare, l’art. 707 configurerebbe un reato «di sospetto», incriminando comportamenti in se stessi non lesivi né pericolosi, «che lasciano presumere l’avvenuta commissione non accertata o la futura commissione di reati», e sarebbe «annoverabile anche nella sotto-specie […] dei così detti ‘reati ostativi’ […] che non colpiscono comportamenti offensivi di un bene, ma tendono a prevenire il realizzarsi di azioni effettivamente lesive o pericolose, mediante la punizione di atti che sono la premessa idonea per la commissione di altri reati».

La disposizione censurata anticipa a tal punto la tutela penale da sanzionare una condotta che rappresenta «soltanto un pericolo di una situazione pericolosa per il bene», ponendosi in tal modo in contrasto in primo luogo con i principî costituzionali di materialità e di offensività, enucleabili dall’art. 25, secondo comma, Cost. L’art. 707 cod. pen. incriminerebbe «una condotta esteriore (id est: il possesso di certe cose)» che rappresenta soltanto un fatto «indiziante, anche in connessione con determinate condizioni personali, di reati non accertati od ancora da compiere». La norma, «in palese trasgressione della ratio garantista sottesa al moderno diritto penale del fatto», punirebbe perciò dei semplici stati soggettivi. Sicché la sentenza n. 14 del 1971 della Corte costituzionale, che ha negato «il contrasto dell’art. 707 cod. pen. con il principio di materialità del reato», qualificando il possesso come conseguenza di una condotta presupposta, si fonderebbe su una argomentazione «apodittica ed opinabile».

Quanto alla violazione del principio di offensività, desumibile non solo dall’art. 25, ma anche dagli artt. 27 e 13 Cost., la norma censurata, rendendo «legittimo» il sospetto che certi oggetti posseduti da chi è stato condannato per delitti determinati da motivi di lucro servano per commettere reati contro il patrimonio, penalizzerebbe (come tutti i reati di pericolo presunto) la mera «violazione del dovere di obbedienza alle norme statali, pure in mancanza di un pericolo concreto». Al riguardo, il giudice a quo lamenta che nella sentenza n. 370 del 1996 la Corte costituzionale abbia escluso l’illegittimità dell’art. 707 cod. pen. tralasciando «del tutto in sede motiva il profilo dell’inoffensività della condotta, limitandosi a ribadire la non irragionevolezza dell’incriminazione e la sufficiente determinatezza della fattispecie».

Il reato in esame violerebbe anche i principî di eguaglianza, di «colpevolezza» (art. 27, primo comma, Cost.) e della finalità rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.), facendo dipendere la punibilità del soggetto «non dal fatto in sé, bensì da elementi a questo del tutto estranei […] rispetto ai quali non può muoversi alcun rimprovero ‘colpevole’ all’imputato» e trasformando in elementi costitutivi del reato «fatti per i quali è già intervenuta una condanna irrevocabile».

Il rimettente rileva poi che in successive e più recenti pronunce la Corte avrebbe però sostenuto che «lo status personale di condannato per taluni delitti» non può legittimare la sanzione penale. In particolare, la sentenza n. 354 del 2002 conterrebbe affermazioni che, «mutatis mutandis, possono e debbono essere fatte proprie anche per l’art. 707 cod. pen.», posto che in tale norma «l’avere riportato una precedente condanna per delitti determinati da motivi di lucro, o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio, […], rende punibile una condotta che, se posta in essere da qualsiasi altro soggetto, non assume alcun disvalore sul piano penale». La contravvenzione avrebbe, perciò, «i tratti di una sorta di reato d’autore, in aperta violazione del principio di offensività del reato, che nella sua accezione astratta costituisce un limite alla discrezionalità legislativa in materia penale».

Infine la norma censurata violerebbe gli artt. 24 e 27, secondo comma, Cost., in quanto, facendo carico all’imputato di «giustificare» il possesso fornendo la prova della destinazione lecita degli oggetti indicati nella previsione normativa, imporrebbe al giudice di presumerne, nel dubbio, l’illegittima destinazione, in contrasto con la presunzione di non colpevolezza e con il diritto di difesa garantiti dalla Costituzione.

2. - E’ intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

L’Avvocatura premette che analoghe questioni sono già state dichiarate infondate dalla Corte costituzionale con le sentenze numeri 14 del 1971, 236 del 1975, 370 del 1996, e manifestamente infondate con le ordinanze numeri 146 del 1977 e  36 del 1990; del pari la Corte di cassazione ne ha più volte escluso la non manifesta infondatezza. 

In particolare, non sarebbe ravvisabile la violazione dell’art. 3 Cost., da un lato perché è ragionevole che si «tenga conto dell’eventualità che stia per commettere un reato chi, colto in possesso di grimaldelli, chiavi ecc., sia stato già condannato per i reati specificati nell’art. 707 cod. pen.» (sentenza n. 236 del 1975), dall’altro perché ben diversa è la situazione di colui che risulti pregiudicato per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione dei delitti contro il patrimonio rispetto a chi non sia mai stato condannato per tali reati.

Neppure sussisterebbe alcuna violazione del principio di colpevolezza, in quanto l’art. 707 cod. pen. prevede la punizione per una condotta che certamente può essere evitata, essendo ovvio che se il possesso non è volontario il reato non sussiste.

Inoltre il rimettente fonderebbe le censure sull’assunto, più volte sconfessato dalla Corte, che l’art. 707 cod. pen. incrimini «uno stato soggettivo e non una condotta»; al contrario, la norma punisce il possesso, volontario e senza valida ragione, di «certi arnesi», vietandone la detenzione a chi può ragionevolmente ritenersi ne farebbe «cattivo uso» per commettere reati contro il patrimonio (sentenze n. 14 del 1971 e n. 236 del 1975).

Il divieto e la conseguente sanzione non sarebbero perciò affatto in contrasto con il principio di offensività; anzi, «il possesso ingiustificato degli arnesi di cui all’art. 707 cod. pen. […] è comunemente sentito come una situazione pericolosa per la società». A differenza dell’art. 708 cod. pen., la norma censurata costituirebbe tuttora un «utile strumento di difesa sociale».

Non pertinente sarebbe d’altro canto il confronto con l’art. 688, secondo comma, cod. pen., dichiarato illegittimo dalla sentenza n. 354 del 2002, posto che il possesso ingiustificato a cui si riferisce l’art. 707 cod. pen. genera «uno specifico (per concretezza ed intensità) pericolo di delitti contro il patrimonio», mentre un analogo pericolo «di delitti contro la vita o l’incolumità fisica delle persone o più in generale di fatti violenti» non è riscontrabile nello stato di ubriachezza di chi ha riportato una delle condanne indicate nell’art. 688, secondo comma, cod. pen.

Sotto altro profilo l’Avvocatura sottolinea che l’art. 707 non pone affatto a carico dell’imputato l’onere di provare la liceità del possesso, ma esige soltanto che sia fornita «un’attendibile e circostanziata giustificazione, da valutarsi, in concreto, nelle singole fattispecie, secondo i principî della libertà delle prove e del libero convincimento» (sentenza n. 14 del 1971), sì che deve escludersi qualsiasi violazione degli artt. 24 e 27 Cost. (sentenza n. 236 del 1975).

Infine nessun contrasto può ravvisarsi con il principio della finalità rieducativa della pena. L’assunto del rimettente sarebbe viziato dall’erroneo presupposto che l’art. 707 punisca uno stato personale, mentre la norma in esame incrimina un fatto specifico.

Considerato in diritto

1. – Con due ordinanze di identico tenore, il Tribunale di Viterbo dubita, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, secondo comma, 25, secondo comma, 27, primo, secondo e terzo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 707 del codice penale (Possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli). Il rimettente adduce la violazione dei principî di ragionevolezza e di eguaglianza, della presunzione di non colpevolezza, della finalità rieducativa della pena e del diritto di difesa, ma il nucleo centrale delle censure si basa sul contrasto con i principî di materialità e, soprattutto, di offensività del reato, riconducibili all’art. 25, secondo comma, anche in collegamento con gli artt. 13 e 27, primo, secondo e terzo comma, Cost., dalla cui violazione discenderebbe la lesione degli altri parametri evocati.

Stante l’identità delle argomentazioni e delle questioni sollevate dalle ordinanze di rimessione, va disposta la riunione dei relativi giudizi.

2. – Le questioni non sono fondate.

3. - Quanto alla violazione del principio di materialità, il rimettente lamenta che la fattispecie in esame non descrive una condotta oggettivamente apprezzabile, ma dei meri «stati soggettivi», in quanto la condotta esteriore, ravvisabile nel possesso di alcune cose, costituirebbe soltanto un fatto «indiziante, anche in connessione con determinate condizioni personali, di reati non accertati od ancora da compiere».

Sin dalle prime sentenze che hanno preso in esame analoghe questioni di legittimità costituzionale, questa Corte ha avuto occasione di rilevare che il reato di cui all’art. 707 cod. pen. «presuppone una necessaria condotta, di cui il possesso attuale di determinate cose che, quoad personam, inducono al sospetto, non è che una conseguenza» (sentenza n. 14 del 1971), ribadendo poi, in conformità a quanto sostenuto in dottrina, che «il possesso concreta già una condotta o, comunque, fa seguito ad una condotta, tanto è vero che se il possesso non è volontario […], il reato non sussiste» (sentenza n. 236 del 1975). In effetti, la fattispecie in esame è caratterizzata non solo da una condotta positiva, rappresentata, appunto, dal possesso – ovviamente cosciente e volontario - di chiavi o di «strumenti atti ad aprire o a sforzare serrature», ma anche dalla presenza di un requisito ‘negativo’, costituito – come meglio si vedrà in seguito - dalla mancanza di elementi idonei a giustificare l’attuale destinazione di tali oggetti.

4. - Escluso che la norma censurata si ponga in contrasto con il principio di materialità del reato, quanto alla asserita violazione del principio di offensività, ad avviso del rimettente l’art. 707 cod. pen. incriminerebbe, in mancanza di un pericolo concreto, la mera «violazione del dovere di obbedienza», e configurerebbe «una sorta di reato d’autore» a carico di chi ha riportato precedenti condanne per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio, a prescindere dall’offesa o dalla messa in pericolo di un interesse penalmente rilevante.

Questa Corte ha già avuto modo di precisare che il principio di offensività opera su due piani, rispettivamente della previsione normativa, sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo, di un bene o interesse oggetto della tutela penale («offensività in astratto»), e dell’applicazione giurisprudenziale («offensività in concreto»), quale criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato (v. sentenze numeri 360 del 1995, 263 e 519 del 2000, ove viene appunto definita la duplice sfera di operatività, in astratto e in concreto, del principio di necessaria offensività, quale criterio di conformazione legislativa delle fattispecie incriminatrici e quale canone interpretativo per il giudice).

La censura del giudice rimettente è ovviamente riferita alla violazione del principio di offensività in astratto, in quanto gli elementi che concorrono a descrivere il modello legale del reato di cui all’art. 707 cod. pen. non consentirebbero di individuare alcun interesse meritevole di tutela penale, ma l’analisi dell’insieme degli elementi costitutivi della contravvenzione in esame consente di delineare in termini sufficientemente determinati l’oggettività giuridica della norma.

Ove si tenga presente, da un lato, che il soggetto attivo deve essere persona già condannata per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio, dall’altro che la condotta si sostanzia nel fatto che l’agente «è colto in possesso di chiavi alterate o contraffatte, ovvero di chiavi genuine o di strumenti atti ad aprire o a sforzare serrature», senza essere in grado di giustificarne l’attuale destinazione, la fattispecie in esame - come del resto si ricava dalla intitolazione della sottosezione in cui la stessa è collocata - mira evidentemente a prevenire, sotto forma di reato di pericolo, la commissione di delitti contro il patrimonio. Appare infatti non irragionevole la previsione che quel determinato soggetto, colto in possesso di quei determinati strumenti, stia per commettere reati contro il patrimonio mediante violenza sulle cose (quali, ad esempio, furti in alloggi, in altri luoghi muniti di difese a tutela della proprietà, ovvero su autovetture).

L’insieme degli elementi costitutivi descritti dall’art. 707 cod. pen. consente pertanto di concludere che la norma è volta a tutelare, sotto forma di esposizione a pericolo, un interesse penalmente rilevante, nel rispetto del principio dell’offensività in astratto.

Si deve però tenere presente che la particolare configurazione della contravvenzione in esame lascia aperta la possibilità che si verifichino casi in cui alla conformità del fatto al modello legale non corrisponde l’effettiva messa in pericolo dell’interesse tutelato. Il giudice chiamato a fare applicazione della norma dovrà pertanto operare uno scrutinio particolarmente rigoroso circa la sussistenza del requisito dell’offensività in concreto, verificando la specifica attitudine funzionale degli strumenti ad aprire o forzare serrature (v. ordinanza n. 36 del 1990, nonché sentenza n. 370 del 1996), e valutando - soprattutto quando gli strumenti di cui l’imputato è colto in possesso non denotino di per sé tale univoca destinazione - le circostanze e le modalità di tempo e di luogo che accompagnano la condotta, dalle quali desumere l’attualità e la concretezza del pericolo di commissione di delitti contro il patrimonio.

5. - L’individuazione della materialità della condotta incriminata e dell’interesse tutelato dall’art. 707 cod. pen., nonché la conseguente possibilità di condurre in sede di applicazione della norma un incisivo controllo circa la sussistenza del requisito dell’offensività in concreto, dimostrano l’infondatezza delle censure sollevate in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost. Rimangono così privi di autonomo rilievo gli ulteriori profili di incostituzionalità, aventi portata sussidiaria e conseguente, dedotti con riferimento ai parametri di cui agli artt. 3, 13, 24, secondo comma, 27, primo, secondo e terzo comma, Cost.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 707 del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, secondo comma, 25, secondo comma, 27, primo, secondo e terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Viterbo con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2005.

Piero Alberto CAPOTOSTI, Presidente

Guido NEPPI MODONA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 7 luglio 2005.