Ordinanza n. 182 del 2004

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ORDINANZA N.182

ANNO 2004

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

- Gustavo                      ZAGREBELSKY          Presidente

- Valerio                        ONIDA                           Giudice

- Carlo                           MEZZANOTTE                    "

- Fernanda                    CONTRI                                "

- Guido                         NEPPI MODONA                "

- Piero Alberto              CAPOTOSTI                         "

- Annibale                     MARINI                                "

- Franco                        BILE                                      "

- Giovanni Maria          FLICK                                   "

- Francesco                   AMIRANTE                          "

- Ugo                            DE SIERVO                          "

- Romano                      VACCARELLA                   "

- Paolo                          MADDALENA                     "

- Alfio                           FINOCCHIARO                   "

- Alfonso                      QUARANTA                        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 295 del codice di procedura civile promosso con ordinanza del 28 dicembre 2001 dalla Corte di appello di Venezia nel procedimento civile vertente tra Bastoni Giuliano e De Carlo Loredana, iscritta al n. 307 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell'anno 2003.

    Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 28 aprile 2004 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro.

    Ritenuto che la Corte d'appello di Venezia, nell'ambito di un giudizio di separazione con richiesta di addebito, con ordinanza del 28 dicembre 2001 (pervenuta alla Corte costituzionale il 15 aprile 2003) ha sollevato, in riferimento all'art. 24 della Costituzione, questione di costituzionalità dell'art. 295 del codice di procedura civile., nella parte in cui non prevede la sospensione necessaria del processo civile in attesa della definizione del processo penale, quando il giudice civile deve giudicare di un fatto-reato;

    che il giudice a quo – premesso che il Tribunale ha fondato l'addebito della separazione al marito, ora motivo di appello, su un unico fatto storico di atti libidinosi nei confronti di una nipote, in base alle deposizioni di testi di parte della moglie, e che per il reato pende procedimento penale – espone che, secondo costante giurisprudenza di legittimità, nell'ordinamento non esiste più la cosiddetta pregiudiziale penale, la quale prevedeva la sospensione necessaria del processo civile nelle more del processo penale influente, stante l'abrogazione dell'art. 3 cod. proc. pen. del 1930 e la nuova formulazione dell'art. 295 cod. proc. civ., avendo il legislatore abbandonato il principio della prevalenza del giudizio penale su quello civile in favore di quello della completa autonomia dei due giudizi;

    che il remittente ravvisa il contrasto con l'art. 24 della Costituzione ogniqualvolta il giudice deve giudicare ai fini civili di un fatto penale senza le garanzie proprie del processo penale; a tal fine sottolinea, nel contesto delle differenze tra i due processi, che la contestazione civile è generica e non specifica come nel capo d'imputazione; che il giudice civile non ha poteri di approfondire le indagini, essendo vincolato alle allegazioni di parte e dovendo decidere in base alle presunzioni, ben diverse dagli indizi univoci e concordanti rilevanti nel diritto penale; che l'eventuale rifiuto di rispondere all'interrogatorio nel processo civile è valutato ai sensi dell'art. 232 cod. proc. civ., mentre nel giudizio penale l'imputato può avvalersi della facoltà di non rispondere; che nell'eventualità di un'assoluzione sussisterebbe un insanabile conflitto di giudicati, non risolvibile neppure con la revocazione, senza contare le conseguenze morali non più risarcibili, e che, infine, allo scopo è inidoneo l'istituto della sospensione regolato dall'art. 296 cod. proc. civ., stante il periodo limitato ed il presupposto dell'accordo delle parti;

    che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata, sulla base del rilievo che la scelta del legislatore di abbandonare il principio dell'unità della giurisdizione a favore di quello dell'autonomia del giudizio civile da quello penale – di cui la mancata previsione della sospensione necessaria per pregiudizialità penale costituisce un corollario – è stata il frutto di un lungo processo di elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, volto ad assicurare alla parte privata il soddisfacimento dei propri diritti in sede penale o civile, evitando che la scelta della seconda strada comportasse una compressione del diritto di azione;

    che, secondo la difesa erariale, con riferimento ai casi di contemporanea pendenza di un giudizio civile, diverso da quello per il risarcimento del danno, non sussiste alcuna pregiudizialità in senso tecnico, quale relazione di antecedenza logico-giuridica tra l'uno e l'altro accertamento, atteso che in entrambi i giudizi sono in discussione solo gli stessi fatti materiali, i quali devono essere accertati con finalità diverse;

    che, aggiunge l'Avvocatura, nel processo civile esistono adeguati strumenti di difesa per contrastare le allegazioni avversarie, in ossequio al principio di disponibilità che lo caratterizza, mentre la possibile contraddittorietà delle pronunce è stata stimata sopportabile dal legislatore della riforma a fronte di altre priorità, quali l'esigenza della sollecita definizione dei giudizi.

    Considerato che la Corte d'appello di Venezia – nel giudicare in sede di appello avverso una pronuncia di separazione con addebito al marito per avere commesso atti libidinosi nei confronti di una nipote, in relazione ai quali pende processo penale – dubita che l'art. 295 cod. proc. civ., nella parte in cui non prevede la sospensione necessaria del processo civile in attesa della definizione del processo penale quando il giudice civile deve giudicare di un fatto-reato, contrasti con l'art. 24 della Costituzione, risultando leso il diritto di difesa a causa della mancanza nel processo civile delle garanzie proprie del processo penale;

    che, secondo quanto il giudice a quo mostra di conoscere, con la riforma del codice di procedura penale, non esiste più la cosiddetta pregiudizialità penale e che, nel nuovo contesto, la giurisprudenza ha espresso, più in generale, il disfavore nei confronti del fenomeno sospensivo in quanto tale, così che la sospensione necessaria del giudizio civile non di danno è subordinata, oltre che all'avvenuto esercizio dell'azione penale, all'esistenza di una espressa previsione di legge, ovvero alla condizione che la previa definizione della controversia penale, per il suo carattere pregiudiziale, costituisca l'inevitabile antecedente logico-giuridico dal quale dipende la decisione della causa pregiudicata ed il cui accertamento sia richiesto con efficacia di giudicato;

    che il giudice rimettente, pur avendo l'obiettivo di reintrodurre il vecchio principio della prevalenza del giudizio penale su quello civile, si limita ad enunciare la duplice pendenza dei giudizi senza motivare sul rapporto tra i due processi, quantomeno in termini di “influenza” (per usare il criterio del vecchio codice di procedura penale) dell'uno sull'altro;

    che, conseguentemente, la questione proposta difetta di motivazione sulla rilevanza, atteso che l'ordinanza di rimessione non spiega come l'eventuale accoglimento sia destinato a spiegare effetto sulla causa pendente in sede civile, data, appunto, la mancata dimostrazione di una “influenza” fra le controversie;

    che l'ordinanza non è quindi idonea a dare valido ingresso al giudizio di legittimità costituzionale (ex plurimis: ordinanze n. 149 del 2004; n. 366 del 2003; n. 452 del 2002) e che la relativa questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.

    Visti gli art. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

 

   per questi motivi

 

    LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 295 del codice di procedura civile sollevata, in riferimento all'art. 24 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Venezia, con l'ordinanza in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 giugno 2004.

    Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente

    Alfio FINOCCHIARO, Redattore

    Depositata in Cancelleria il 22 giugno 2004.