Ordinanza n. 365/2001

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ORDINANZA N. 365

ANNO 2001

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Fernando SANTOSUOSSO, Presidente

- Massimo VARI         

- Riccardo CHIEPPA  

- Gustavo ZAGREBELSKY  

- Valerio ONIDA        

- Carlo MEZZANOTTE         

- Fernanda CONTRI   

- Guido NEPPI MODONA    

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI    

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK        

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 91 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso con ordinanza emessa l’8 giugno 1999 dal Tribunale di Potenza sul reclamo proposto dal Curatore del Fallimento di Cuccaro Vincenzo e Salzarulo Caterina, iscritta al n. 853 del registro ordinanze 2000 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2001.

Visti l’atto di costituzione del Curatore del Fallimento di Cuccaro Vincenzo e Salzarulo Caterina nonchè l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 26 settembre 2001 il Giudice relatore Fernando Santosuosso.

Ritenuto che, a seguito del reclamo del curatore avverso un provvedimento del giudice delegato del fallimento con il quale era stata respinta la richiesta di rimborso delle spese anticipate dal difensore della procedura, con addebito all’erario, il Tribunale di Potenza ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 23, 35 e 36 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 91 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) nella parte in cui non prevede che tra gli "atti richiesti dalla legge", per i quali l’Erario deve anticipare le spese giudiziali, rientrino anche le azioni necessarie per la ricostruzione dell’attivo fallimentare;

che, secondo quanto premesso dal Tribunale, il giudice delegato al fallimento aveva autorizzato il curatore a proporre azione revocatoria per il recupero, nella massa attiva, di un appartamento venduto dai falliti, e il difensore aveva proceduto alla notifica dell’atto di citazione, alla iscrizione a ruolo della causa e alla trascrizione della domanda, anticipando la somma di lire ottocentomila, della quale aveva chiesto il rimborso, negatogli dal giudice di prime cure;

che, a parere del Collegio, la giurisprudenza prevalente interpreta la nozione di "atti richiesti dalla legge", contenuta nell’art. 91 menzionato, come riferibile ai soli atti "interni al fallimento", ossia a tutti quelli necessari e indispensabili agli adempimenti connessi alla sentenza dichiarativa del fallimento e al decreto di chiusura della procedura (apposizione di sigilli, inventario, ecc.), con esclusione di ogni attività pur utile al suo scopo (es. azioni revocatorie);

che tale interpretazione restrittiva non dovrebbe essere seguita in ragione delle caratteristiche pubblicistiche proprie del fallimento, le quali esigono che le decisioni del giudice delegato all’amministrazione del dissesto devono ritenersi atti necessari per la procedura, rientranti fra quelli di cui all’art. 91 della legge fallimentare;

che tali caratteristiche, miranti a far conseguire il soddisfacimento paritario dei creditori e, perciò, a realizzare una peculiare prospettiva distributiva, verrebbero ad improntare tutta l’attività degli organi fallimentari; con la conseguenza che le attività svolte nell’interesse del fallimento, in mancanza di fondi, dovrebbero essere poste a carico dell’erario;

che la questione sarebbe rilevante per la decisione della controversia, atteso che solo la rimozione del "diritto vivente" sopra indicato potrebbe consentire di far riferimento alla diversa interpretazione dell’articolo 91 della legge fallimentare;

che vi sarebbe una violazione del principio di uguaglianza per il diverso trattamento riservato al fallimento del tutto sprovvisto di liquidità, costretto a ricorrere all’istituto del gratuito patrocinio, rispetto a quello del fallimento con attivo, il quale potrebbe fruire dell’accettazione dell’incarico da parte di professionisti certi di conseguire un vantaggio, negato in quell’altro caso;

che vi sarebbe anche violazione del principio di ragionevolezza poichè, se il fallimento é attivo, le decisioni del giudice delegato sarebbero sufficienti a far avanzare la procedura, mentre, se la liquidità (o l’attivo) manchi del tutto, occorrerebbe trovare concorde il giudizio sul probabile esito favorevole della causa da parte dell’apposita Commissione per il gratuito patrocinio;

che, pur in presenza di uno scrutinio negativo della stessa disposizione, compiuto con le sentenze n. 488 del 1993 e n. 326 del 1996 da questa Corte, in riferimento agli artt. 3, 35 e 36 della Costituzione, il Tribunale ritiene di dover investire nuovamente della questione il Giudice delle leggi, per la necessità "di un intervento della Corte costituzionale che chiarisca una volta per tutte ed in maniera inconfutabile il disposto di cui all’art. 91" della legge fallimentare;

che nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, a mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o il rigetto della questione: la prima, oltre che per l’assoluto difetto di motivazione in relazione ai parametri costituiti dagli artt. 23, 35 e 36 della Costituzione solo formalmente evocati, perchè nella specie non verrebbe in rilievo un problema di anticipazione ma di rimborso delle spese anticipate; la seconda, per la giurisprudenza della Corte, espressa nelle citate decisioni;

che si é altresì costituito il fallimento, in persona del curatore, chiedendo l’accoglimento della questione e depositando un’ulteriore memoria illustrativa in prossimità della discussione in camera di consiglio.

Considerato che ritorna all’esame della Corte la questione di legittimità costituzionale dell’art. 91 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) sollevata, in riferimento agli artt. 3, 23, 35 e 36 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che tra gli "atti richiesti dalla legge" rientrino anche le azioni giudiziarie autorizzate dagli organi fallimentari, e rese necessarie per la ricostruzione dell’attivo, sostanzialmente già oggetto di scrutinio negativo da parte di questa Corte (ordinanze n. 368 del 1994 e n. 488 del 1995 e sentenza n. 302 del 1985);

che il giudice rimettente non precisa la sua scelta, nè motiva, in ordine al presupposto interpretativo che é alla base della questione sollevata, ma si riporta alla "giurisprudenza prevalente", senza far sua, questa o quella linea ermeneutica;

che, nel caso in esame, non può affermarsi (come invece sembra sostenere il giudice a quo, in alcuni passaggi della sua ordinanza) l’esistenza di un diritto vivente, in quanto nella materia dell’anticipazione delle spese si fronteggiano due diversi orientamenti giurisprudenziali (e dottrinali) che non hanno ancora dato segni di assestamento e, tanto meno, di consolidamento;

che, pertanto, la questione di costituzionalità risulta sollevata, in ultima analisi, al fine di ottenere un avallo all’interpretazione preferita dal rimettente, con la conseguente attribuzione a questa Corte di un compito che rientra tra quelli del giudice della controversia, il quale – quando siano prospettabili diverse interpretazioni della disposizione censurata, di cui una sola sia conforme alla Costituzione – ha il dovere di farla propria, promuovendo il giudizio di costituzionalità solo quando risulti impossibile seguire l’interpretazione costituzionalmente corretta (vedi, da ultimo, l’ordinanza n. 233 del 2000);

che il Tribunale rimettente, al contrario, dopo aver motivato in ordine alla maggior correttezza della tesi estensiva, svolta in base a criteri teleologici e sistematici, pone a fondamento della presente questione l’altra tesi, dal medesimo non condivisa, ma ritenuta prevalente nella -giurisprudenza di merito;

che, pertanto, secondo quanto più volte affermato da questa Corte (da ultimo con le ordinanze n. 233, n. 158 e n. 93 del 2000), finalità estranee alla logica del giudizio incidentale (quali l’avallo all’emananda pronuncia) portano alla dichiarazione di manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale non correttamente sollevate.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi innanzi alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 91 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 23, 35 e 36 della Costituzione, dal Tribunale di Potenza, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 novembre 2001.

Fernando SANTOSUOSSO, Presidente e Redattore

Depositata in Cancelleria il 16 novembre 2001.