Sentenza n. 326 del 1996

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SENTENZA N. 326

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Avv. Mauro FERRI, Presidente

-     Prof. Luigi MENGONI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 91 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso con ordinanza emessa il 22 luglio 1995 dal Tribunale di Alessandria sull'istanza proposta da Gatti Elio, curatore del fallimento di Picariello Paolo, iscritta al n. 713 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 20 marzo 1996 il Giudice relatore Francesco Guizzi.

Ritenuto in fatto

1. -- Il Tribunale di Alessandria, con sentenza in data 30 settembre 1994, revocava il fallimento di Picariello Paolo e, disattendendo la domanda dell'opponente volta alla condanna per colpa del creditore istante, avanzata ai sensi dell'art. 21, terzo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), compensava le spese del giudizio di opposizione nella misura del 50 per cento e poneva la parte residua a carico del fallimento e del creditore procedente in solido. Allo stesso giudice, in sede amministrativa, venivano sottoposte le questioni attinenti al compenso richiesto dal curatore, alle spese sostenute dalla procedura, alla destinazione del denaro restante dopo le operazioni fallimentari e giacente sul libretto aperto dal curatore.

Con provvedimento del 10 luglio 1995, il Tribunale disponeva che, ai sensi dell'art. 91 della legge fallimentare, si facesse carico all'erario delle spese sostenute dal curatore e che le somme residue - accreditate sul libretto di deposito intestato al fallito - fossero restituite al Picariello, mentre non vi fosse luogo a provvedere, per effetto della sentenza di questa Corte n. 46 del 1975, sulla domanda di compenso presentata dal curatore. In ordine alle spese legali accollate al fallimento dalla sentenza di revoca, in solido con il creditore istante, il Tribunale ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 35 e 36 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 91 della legge fallimentare di cui al regio decreto n. 267 del 1942.

2. -- Va ricordato che il decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 23 agosto 1946, n. 153 (Norme circa la soppressione del ruolo degli amministratori giudiziari e la liquidazione del fondo speciale) ha soppresso il ruolo degli amministratori giudiziari e ha stabilito la liquidazione del fondo speciale, entrambi previsti dalla legge 10 luglio 1930, n. 995 (Disposizioni sul fallimento, sul concordato preventivo e sui piccoli fallimenti); e va soggiunto che la citata sentenza n. 46 del 1975 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 21 della legge fallimentare, nella parte in cui consentiva che le spese inerenti alla procedura e al compenso del curatore fossero da ascrivere al debitore, anche in caso di accoglimento dell'opposizione alla dichiarazione di fallimento.

Ad avviso del Collegio rimettente, la rigorosa applicazione della sentenza n. 46, quando la pronuncia di accoglimento dell'opposizione non affermi la responsabilità del creditore procedente, farebbe sorgere il problema della imputazione delle spese. Sebbene considerato non responsabile della dichiarazione di fallimento, il creditore è stato infatti condannato, nel caso di specie, al pagamento di una parte soltanto delle spese processuali sostenute dall'opponente, non potendosi queste accollare al debitore che abbia visto prevalere le proprie ragioni, in base alla sentenza n. 46, né tanto meno potendosi imputare ad altri per l'impossibilità di far ricorso al disposto dell'art. 91 della legge fallimentare - il quale non fa più gravare sull'erario le spese di cui si tratta - essendo stata abrogata la citata legge n. 995 del 1930.

E' vero che alcuni giudici di merito hanno applicato l'art. 91 della legge fallimentare al fine di ricomprendere gli oneri in questione nell'ambito delle spese anticipate dall'erario, ma a tale interpretazione il Collegio rimettente non ritiene di aderire. Sia perché l'art. 91 regolerebbe soltanto il caso in cui manchi danaro liquido nella disponibilità della curatela (e l'erario, per il preminente interesse pubblico, non potrebbe che effettuare l'anticipazione); sia perché la dottrina e la giurisprudenza della Cassazione si sarebbero da tempo orientate univocamente, adottando un'interpretazione restrittiva della norma. Del resto, accogliendo l'opposta interpretazione non si saprebbe se nel concetto di "spese giudiziali" possano rientrare anche gli onorari e i compensi di qualsiasi specie.

Nel caso in esame la questione verte su titoli incontestabili, in quanto attiene al compenso richiesto da professionisti che hanno svolto la loro attività in favore della massa. Sì che - non essendo utilizzabile l'art. 91 della legge fallimentare - ne conseguirebbe l'impossibilità di decidere sulle richieste avanzate dai professionisti, con evidente lesione dei principi di cui agli artt. 3, 35 e 36 della Costituzione.

La disparità di trattamento nei confronti di questa categoria di lavoratori autonomi si paleserebbe a seconda che il fallimento sia o meno capiente; e vi sarebbe, comunque, un'ingiustificata minor tutela di tale attività autonoma, che questa Corte ha invero ritenuto meritevole di attenzione.

3. -- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, concludendo per l'inammissibilità e, nel merito, per la infondatezza della questione.

Secondo l'interventore vi sarebbero tre motivi di inammissibilità.

Il primo, poiché il giudice a quo non avrebbe adeguatamente argomentato sulle ragioni che non gli hanno consentito di accollare al debitore le spese: la citata sentenza n. 46 del 1975, infatti, non avrebbe carattere assoluto e non impedirebbe di porre a carico del debitore le spese del fallimento revocato se e in quanto "sia incorso in comportamenti che abbiano indotto il giudice all'errato convincimento dell'esistenza degli estremi necessari per la dichiarazione successivamente revocata". Avendo la Corte pronunciato una declaratoria parziale di illegittimità costituzionalità dell'art. 21, terzo comma, della legge fallimentare, la norma residua permetterebbe, tuttora, l'accollo delle spese di procedura al debitore responsabile della dichiarazione di fallimento risultata illegittima: l'ordinanza di rimessione non avrebbe invero esaminato - come pure avrebbe dovuto - la sussistenza d'una eventuale responsabilità, escludendo a priori che le spese potessero restare a carico del debitore.

Il secondo, per la richiesta d'una sentenza additiva al fine di applicare l'art. 91 della legge fallimentare, recuperandone la disciplina al caso in esame. Ma tale soluzione rappresenta uno dei possibili rimedi, ben potendosi, ad esempio, con altro tipo d'intervento, modificare la prima parte del terzo comma dell'art. 21 della stessa legge, in modo da uniformarne la disciplina al principio generale della soccombenza contenuto nell'art. 91, primo comma, del codice di procedura civile.

Il terzo, perché il giudice a quo avrebbe omesso di apprezzare la "salvezza" posta nel citato primo comma dell'art. 21, con riferimento agli effetti degli atti già compiuti legalmente dagli organi del fallimento anteriormente alla revoca. Fra questi dovrebbe ricomprendersi anche l'autorizzazione a resistere alla richiesta revoca della sentenza dichiarativa di fallimento, sì che il giudice - prima di disporre le restituzioni conseguenti alla revoca della stessa - avrebbe dovuto indagare se l'obbligazione contratta dagli organi fallimentari non potesse ritenersi conservata e, pertanto, posta a carico delle attività residue, costituite dalle somme affluite sul deposito acceso a nome della curatela.

Nel merito la questione sarebbe infondata, perché basata sull'accostamento di due situazioni fra loro diverse, e dunque non comparabili, qual è quella del fallimento capiente e quella del fallimento revocato. Sarebbe, inoltre, del tutto fuori causa il diritto del professionista a svolgere un'attività lavorativa liberamente scelta, in quanto oggetto della tutela accordata dall'art. 35, primo comma, della Costituzione; né sarebbe pertinente il riferimento all'art. 36, primo comma, giacché non verrebbe in rilievo alcun problema di remunerazione della prestazione d'opera, ma soltanto quello di sopportazione del relativo onere.

Considerato in diritto

1. -- Viene all'esame della Corte, in relazione agli artt. 3, 35 e 36 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 91 della legge fallimentare di cui al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, avente a oggetto le anticipazioni delle spese del fallimento effettuate dall'erario, nella parte in cui non estende l'applicazione anche all'ipotesi del fallimento revocato con sentenza, a seguito di opposizione del debitore, la quale ultima non abbia attribuito, ai sensi dell'art. 21 della stessa legge, la responsabilità al creditore procedente, così assicurando minore tutela all'attività lavorativa dei professionisti legali e determinando, conseguentemente, una evidente disparità di trattamento a seconda che il fallimento sia o meno capiente.

2. -- Vanno preliminarmente esaminate le eccezioni di inammissibilità sollevate dall'Avvocatura dello Stato - due per irrilevanza e una per pluralità di soluzioni - innanzitutto perché il giudice a quo non avrebbe preventivamente valutato la possibilità di accollare al debitore gli onorari del difensore della procedura; quindi, perché non avrebbe esaminato quella del pagamento con il residuo esistente sul deposito intestato al fallimento; e, infine, perché la soluzione prospettata non sarebbe l'unica possibile.

3. -- Le eccezioni per irrilevanza della questione vanno entrambe disattese. La prima, in quanto la possibilità di accollare al debitore il pagamento degli onorari del difensore della procedura fallimentare, costituitasi nel giudizio di opposizione, non eliminerebbe il problema dell'imputazione della metà delle spese sostenute dal debitore medesimo e poste, dalla sentenza di accoglimento dell'opposizione, a carico del fallimento in solido con il creditore istante. La seconda, in quanto la revoca della sentenza di fallimento fa tornare in bonis il debitore, al quale soltanto spetta il potere di disporre dei propri beni, ivi comprese le somme depositate sul libretto intestato alla procedura.

4. -- La terza eccezione va invece accolta, perché il problema che è alla base della questione è ascrivibile alla piena discrezionalità del legislatore, pure nei limiti e con l'osservanza dei principi costituzionali: primo fra tutti quello della ragionevolezza, in considerazione della normativa vigente in materia di regolamento delle spese giudiziali nel processo civile.

La questione all'esame delle Corte attiene all'art. 91 della legge fallimentare, che regola l'anticipazione delle spese occorrenti allo svolgimento e all'autoalimentazione della procedura effettuata dall'erario. Il giudice rimettente ne propone l'estensione del campo di applicazione - fino a ricomprendere al suo interno anche il caso del fallimento chiuso per revoca della sentenza dichiarativa - e chiede una pronuncia di accoglimento, non essendo possibile l'espansione della norma né per via interpretativa né per via analogica. Ma l'art. 91 denunciato è del tutto estraneo al problema che s'intende risolvere nel giudizio a quo, giacché non riguarda la materia dell'anticipazione delle spese bensì quella del loro definitivo regolamento. La disposizione censurata è normalmente applicabile quando la procedura concorsuale si conclude in uno dei suoi modi "fisiologici" - che, certo, non è quello della revoca della dichiarazione di fallimento - e vi si ricorre per la momentanea difficoltà di far procedere l'esecuzione concorsuale. In tale ipotesi l'anticipazione delle spese da parte dell'erario risponde a una finalità pubblicistica, destinata ad alimentare la procedura, che sarà poi in grado di autoalimentarsi, tanto da permettere la restituzione all'erario di ciò che ha anticipato.

5. -- La mancanza d'una soluzione ragionevole al caso sorto nel corso della procedura pendente davanti al Tribunale di Alessandria, e in quelli di fallimento incapiente o revocato, anche in ragione delle vicende normative già ricordate, non può, tuttavia, condurre all'accoglimento della questione. Anzitutto, perché il problema, che pure esiste e necessita di una soluzione adeguata, non potrebbe essere affrontato, per la sua evidente estraneità al caso, facendo ricorso alla cennata disposizione; in secondo luogo, perché comporterebbe la scelta fra una molteplicità di soluzioni possibili, tutte ascrivibili alla discrezionalità del legislatore quali, ad esempio, il pagamento a carico dell'erario o il diverso regolamento delle spese.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 91 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 35 e 36 della Costituzione, dal Tribunale di Alessandria con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 luglio 1996.

Mauro FERRI, Presidente

Francesco GUIZZI, Redattore

Depositata in cancelleria il 29 luglio 1996.