Ordinanza n. 513/2000

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ORDINANZA N.513

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Francesco GUIZZI

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI

- Cesare RUPERTO

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5, della legge 8 luglio 1998, n. 230 (Nuove norme in materia di obiezione di coscienza), promosso con ordinanza emessa l’8 ottobre 1999 dal Tribunale militare di Torino nel procedimento penale a carico di G. T., iscritta al n. 10 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2000.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 ottobre 2000 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.

Ritenuto che con ordinanza dell’8 ottobre 1999 il Tribunale militare di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 13, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5, della legge 8 luglio 1998, n. 230 (Nuove norme in materia di obiezione di coscienza), in relazione all’art. 151 cod. pen. mil. pace (Mancanza alla chiamata), "nella parte in cui non prevede l’esonero dalla prestazione del servizio di leva del militare già condannato alla pena della reclusione militare per un periodo non inferiore alla durata attuale del medesimo" servizio;

che il Tribunale rimettente ricorda in primo luogo che il reato di mancanza alla chiamata – per il quale si procede nel giudizio principale - é integrato dalla mancata presentazione del militare chiamato ad adempiere il servizio di leva, nei cinque giorni successivi a quello stabilito, senza giusto motivo, e che la giurisprudenza ha costantemente ritenuto che tale reato abbia carattere permanente, cosicchè una eventuale condanna interrompe la permanenza e una successiva mancata presentazione al reparto perfeziona un nuovo ulteriore reato di cui all’art. 151 cod. pen. mil. pace e dunque implica una ulteriore condanna;

che ciò, osserva il Tribunale militare, comporta la possibilità che si riproponga il problema della "spirale delle condanne" che poteva verificarsi, nella disciplina anteriore (legge 15 dicembre 1972, n. 772), nei riguardi di chi, senza addurre la propria obiezione di coscienza secondo le procedure della legge, si fosse rifiutato di prestare il servizio militare; un problema, prosegue il giudice a quo, sul quale la Corte é intervenuta più volte, ampliando la possibilità di giovarsi della clausola legislativa di esonero dall’obbligo di prestazione militare, una volta espiata una pena pari alla durata del servizio di leva, e ciò sia per l’ipotesi del rifiuto totale del servizio, manifestato adducendo motivi di coscienza dopo averlo assunto (sentenza n. 467 del 1991), sia per l’ipotesi del rifiuto totale espresso adducendo motivi diversi da quelli di coscienza o senza addurre motivo alcuno (sentenze nn. 343 e 422 del 1993);

che il quadro legislativo, rileva il Tribunale, é ora mutato, avendo la legge n. 230 del 1998 previsto, nel suo art. 14, comma 5, che "coloro che in tempo di pace, adducendo motivi diversi da quelli indicati nell’art. 1 o senza addurre motivo alcuno, rifiutano totalmente, prima o dopo averlo assunto, la prestazione del servizio militare di leva, sono esonerati dall’obbligo di prestarlo quando abbiano espiato per il suddetto rifiuto la pena della reclusione per un periodo complessivamente non inferiore alla durata del servizio militare di leva";

che, secondo il Tribunale militare, questa disposizione prevederebbe "la possibilità per il solo obiettore totale per motivi diversi da quelli di coscienza" di essere esonerato dal servizio, una volta espiata una pena di durata pari a quella del servizio militare, ciò che non sarebbe invece possibile, sempre ad avviso del Tribunale militare, per il mancante alla chiamata: quest’ultimo, scegliendo di non svolgere il servizio e "rifiutandolo implicitamente", verrebbe in tal modo a essere soggetto a una serie indeterminata di condanne penali, fino al compimento del quarantacinquesimo anno di età che segna il limite di soggezione alla leva;

che appunto di tale ritenuta impossibilità di giovarsi della clausola di esonero dal servizio a pena espiata per il mancante alla chiamata il Tribunale militare di Torino si duole, svolgendo, ai fini della prospettata incostituzionalità, profili e argomenti riconducibili a quelli che già in precedenza la giurisprudenza costituzionale ha considerato, in relazione al fenomeno della "spirale delle condanne", e deducendo pertanto, in sintesi, la violazione: a) dell’art. 2 della Costituzione, poichè la libertà morale dell’individuo, diritto inviolabile, sarebbe coartata e annullata da uno "stillicidio" di condanne conseguente alla ripetizione dell’obbligo; b) dell’art. 3, primo comma, della Costituzione, poichè coloro che risultino mancanti alla chiamata ex art. 151 cod. pen. mil. pace subirebbero, per effetto della disciplina descritta, una discriminazione irragionevole, a fronte dell’analogo comportamento di chi rifiuti il servizio senza addurre alcun motivo; c) degli artt. 13, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, in quanto il bene della libertà personale sarebbe limitato senza valida giustificazione e senza proporzione rispetto all’interesse perseguito, perchè, se l’incriminazione in discorso (art. 151 citato) può giustificare un certo sacrificio della libertà personale, questo non può tuttavia spingersi fino al punto di esporre la persona a "una serie di condanne penali così lunga e pesante da poterne distruggere la sua intima personalità umana e la speranza di una vita normale" (sentenze nn. 467 del 1991 e 343 del 1993 di questa Corte), risultandone altresì compromessa la finalità rieducativa della pena;

che infine, sulla rilevanza della questione, il Tribunale militare osserva che l’imputato é stato già in precedenza condannato, per il medesimo titolo di reato, alla pena di un anno di reclusione militare e che pertanto, ove fosse accolta la questione, il rimettente potrebbe assolvere l’imputato per insussistenza del fatto;

che nel giudizio così promosso é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che, sulla premessa dell’identità tra la questione in discorso e altra sollevata dal Giudice per le indagini preliminari presso lo stesso Tribunale militare di Torino (r.o. 542/1999), ha richiamato integralmente per relationem l’atto di intervento depositato nel relativo giudizio, concludendo per l’infondatezza della questione.

Considerato che il Tribunale militare dubita della legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5, della legge n. 230 del 1998, sul presupposto che l’esonero dal servizio militare ivi previsto per quanti abbiano espiato la pena della reclusione per un periodo complessivamente non inferiore alla durata del servizio di leva non si applichi nei riguardi di chi abbia commesso un reato di assenza dal servizio - nella specie, quello di mancanza alla chiamata previsto dall’art. 151 cod. pen. mil. pace - e che in base al medesimo presupposto chiede a questa Corte una pronuncia di incostituzionalità dell’art. 14, comma 5, che ne comporti l’estensione ai casi, come quello dedotto nel giudizio principale, che il giudice a quo ritiene non compresi dalla norma;

che la premessa interpretativa del giudice militare é contraddetta dalla giurisprudenza di questa Corte – peraltro richiamata dallo stesso rimettente - che in primo luogo ha esplicitamente affermato il carattere generale della clausola di esonero dal servizio posta dalla disciplina previgente (art. 8, terzo comma, della legge n. 772 del 1972), sottolineando, con la sentenza n. 422 del 1993, come la precedente pronuncia di incostituzionalità della norma che poneva detta clausola, resa in base agli artt. 3 e 27 della Costituzione in correlazione con il reato di diserzione di cui all’art. 148 cod. pen. mil. pace (sentenza n. 343 del 1993), dovesse rivestire portata generale, "nel senso ... [di] estende[re] i suoi effetti a tutti i militari imputati di reati comportanti forme di rifiuto del servizio militare che si vengano a trovare assoggettati alla spirale delle condanne", essendo "l’effetto della spirale delle condanne a porsi, di per sè, in contrasto con i valori e i fini espressi" dagli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione;

che la suddetta connotazione dell’art. 8, terzo comma, citato, come norma di generale applicazione, secondo la giurisprudenza costituzionale resa su di essa, é stata altresì ribadita successivamente dalla sentenza n. 223 del 2000 che, nel ricostruire le vicende normative in materia di obiezione di coscienza al servizio militare, ha rilevato come, per effetto delle pronunce di incostituzionalità nn. 343 e 422 del 1993, la Corte fosse pervenuta a generalizzare il sistema dell’esonero quale conseguenza dell’espiazione della pena irrogata, sempre alla condizione della durata pari a quella del servizio militare di leva, per ogni fatto di sottrazione agli obblighi di leva che fosse tale da integrare una fattispecie penale di assenza dal servizio;

che, ancora con la richiamata sentenza n. 223 del 2000, é stato ulteriormente rilevato che il legislatore del 1998, nel porre il comma 5 dell’art. 14 oggi impugnato, ha tenuto conto proprio della precedente giurisprudenza costituzionale, estendendo l’applicazione dell’esonero e facendolo dipendere, per le fattispecie ivi considerate, dall’espiazione della pena, conformemente a quanto statuito nelle due pronunce del 1993 (sentenza n. 223 del 2000 citata, punto 4.2 del diritto);

che, alla luce degli enunciati sopra sintetizzati, la lettura che il giudice rimettente dà della norma denunciata, oltre a non essere argomentata e a non chiarire a quali eventuali altre tipologie di reati essa sia in grado di riferirsi, risulta in contrasto con l’interpretazione che ne é stata data nelle decisioni di questa Corte e rende manifesta l’inesattezza della premessa interpretativa dalla quale muove il rimettente medesimo per sollevare la questione di legittimità costituzionale;

che, una volta ritenuta, alla stregua delle osservazioni che precedono, l’applicabilità del comma 5 dell’art. 14 della legge n. 230 del 1998 a ogni ipotesi di reato previsto dal codice penale militare di pace che sia espressiva del "rifiuto" manifestato "adducendo motivi diversi da quelli indicati dall’articolo 1 [della stessa legge] o senza addurre motivo alcuno", secondo la formulazione di sintesi della norma, non v’é motivo di seguire il ragionamento del giudice a quo circa il verificarsi del fenomeno della "spirale delle condanne", questo essendo appunto escluso dall’interpretazione anzidetta, idonea a superare il dubbio prospettato;

che pertanto la questione, sollevata in base a un presupposto interpretativo erroneo, deve essere dichiarata manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5, della legge 8 luglio 1998, n. 230 (Nuove norme in materia di obiezione di coscienza), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 13, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale militare di Torino, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 novembre 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Gustavo ZAGREBELSKY, Redattore

Depositata in cancelleria il 20 novembre 2000.