Sentenza n. 223/2000

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SENTENZA N. 223

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Francesco GUIZZI, Presidente

- Cesare MIRABELLI

- Fernando SANTOSUOSSO 

- Massimo VARI 

- Cesare RUPERTO 

- Riccardo CHIEPPA 

- Gustavo ZAGREBELSKY 

- Valerio ONIDA 

- Carlo MEZZANOTTE 

- Fernanda CONTRI 

- Guido NEPPI MODONA 

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI 

- Franco BILE  

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5, della legge 8 luglio 1998, n. 230 (Nuove norme in materia di obiezione di coscienza), promossi con ordinanze emesse il 7 ottobre 1998 dal Tribunale militare di Padova (n. 3 ordinanze) e il 4 maggio 1999 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Torino, rispettivamente iscritte ai nn. 13, 24, 25 e 542 del registro ordinanze 1999 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 4 e 41, prima serie speciale, dell’anno 1999.

 Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 udito nella camera di consiglio del 9 febbraio 2000 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.

Ritenuto in fatto

 1.1. – Con tre ordinanze, tra loro di identico contenuto, emesse in data 7 ottobre 1998 nell’ambito di distinti giudizi penali concernenti reati di mancanza alla chiamata (r.o. 13/99) ovvero di diserzione (r.o. 24 e 25/99), il Tribunale militare di Padova ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5, della legge 8 luglio 1998, n. 230 (Nuove norme in materia di obiezione di coscienza), in riferimento all’art. 3 della Costituzione.

 Premette il Tribunale militare che nei giudizi principali è appunto applicabile l’impugnato art. 14, comma 5, il quale stabilisce che sia esonerato dall’obbligo di prestare il servizio militare chi, essendo condannato per avere rifiutato totalmente la prestazione del servizio medesimo, senza addurre motivi di tale rifiuto ovvero adducendo motivi comunque non riconducibili a quelli (“di coscienza”) indicati dall’art. 1 della legge n. 230, abbia espiato, per il rifiuto suddetto, la pena della reclusione per un periodo complessivamente non inferiore alla durata del servizio militare di leva. Nella specie, si tratta di giudizi promossi nei confronti di soggetti che, già condannati in precedenza per analoghe imputazioni, proseguono, sempre senza addurre motivi, nel loro rifiuto della prestazione militare di leva, commettendo in tal modo (ulteriori) reati di diserzione (art. 148 cod. pen. mil. pace) o di mancanza alla chiamata (art. 151 cod. pen. mil. pace).

 Nel sollevare la questione, il Tribunale militare di Padova muove da due pronunce della Corte costituzionale.

Con la prima – sentenza n. 409 del 1989 – la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 8, secondo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772, che in precedenza disciplinava l’obiezione di coscienza al servizio militare, in quanto esso stabiliva per il reato di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza una pena (reclusione da due a quattro anni) superiore a quella (da sei mesi a due anni) posta dall’art. 151 cod. pen. mil. pace per il reato di mancanza alla chiamata.

 Osserva il Tribunale che a tale declaratoria, con la “sostituzione” della sanzione verso il livello più basso, la Corte è pervenuta, in particolare, in base al rilievo che “per quanto subiettivamente diversificati, i delitti di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza e di mancanza alla chiamata ex art. 151 cod. pen. mil. pace ledono, con modalità oggettive analoghe, uno stesso interesse, quello ad una regolare incorporazione degli obbligati al servizio di leva nell’organizzazione militare”.

 Attraverso una sostanziale identificazione delle due fattispecie incriminatrici, accomunate dalla connotazione di “rifiuto” del servizio – prosegue il rimettente -, la Corte costituzionale ha tratto dunque la conclusione della ingiustificata differenziazione dei livelli di pena edittale.

 Inoltre, nella medesima sentenza, la Corte avrebbe individuato nella clausola di esonero dal servizio, a pena espiata, l’unica soluzione possibile, per il legislatore, al fine di evitare la reiterazione delle condanne, affermando che “l’esonero in discussione, conseguenza di una libera, discrezionale scelta del legislatore non appare violare la Carta fondamentale ... né è irrazionale: non essendo ipotizzabili altre sanzioni adeguate al caso particolarissimo in discussione, il legislatore ritiene di interrompere la spirale delle condanne a catena nella presunzione che, ormai, anche la sanzione penale non può più raggiungere gli effetti educativi di cui all’art. 27, terzo comma, della Costituzione”.

 Con la seconda sentenza (n. 43 del 1997), poi, la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità (in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 19 e 21, primo comma, della Costituzione) dell’art. 8, secondo e terzo comma, della legge n. 772 del 1972, nella parte in cui tali disposizioni non escludevano la possibilità di più di una condanna per il reato di chi, al di fuori dei casi di ammissione ai benefici previsti dalla legge suddetta, rifiuta, in tempo di pace, prima di assumerlo, il servizio militare di leva, adducendo i motivi di coscienza di cui all’art. 1 della medesima legge.

 Nella motivazione di questa seconda pronuncia, in particolare, si è affermato che “per tener ferma la esigenza di non consentire la spirale di condanne, la Corte, non potendo negare in generale la applicabilità degli istituti della sospensione e della estinzione della pena al reato previsto dall’art. 8, secondo comma, deve invece negare l’assolutezza della previa espiazione della pena come elemento condizionante la ragione d’essere delle norme in esame”.

 Con ciò – ad avviso del Tribunale - la Corte, onde scongiurare la spirale di condanne nei confronti dell’obiettore di coscienza “totale”, e al contempo evitare la inapplicabilità di istituti generali di favore, come la sospensione o l’estinzione della pena (che, restando non espiata, avrebbe comportato la reiterazione della chiamata), ha ricollegato l’esonero dal servizio alla condanna, in luogo dell’espiazione della pena.

 E’ alla stregua degli anzidetti enunciati della giurisprudenza costituzionale, prosegue il rimettente, che deve ora valutarsi la razionalità della nuova disciplina, che, nel riformulare le ipotesi di reato, ha regolato diversamente il rifiuto “totale” tipico, cioè dettato da motivi di coscienza, rispetto al rifiuto immotivato o atipico, cioè basato su motivi diversi da quelli di coscienza ovvero realizzato senza alcun motivo: nel primo caso (art. 14, comma 2, della legge n. 230 del 1998) alla condanna per il reato consegue l’esonero dal servizio, nel secondo caso (art. 14, comma 5, impugnato) l’esonero stesso è previsto solo a seguito dell’espiazione della pena.

 Mentre il reato di rifiuto “motivato” riprende in definitiva la disciplina preesistente, adattandola agli interventi della Corte costituzionale, il comma 5 dell’art. 14 è posto al fine di dare una regola esplicita per i casi di chi, “rifiutando” il servizio, realizzi un reato del codice penale militare, come la mancanza alla chiamata o la diserzione, in conformità all’ulteriore affermazione della giurisprudenza costituzionale che ha esteso anche a tale categoria l’applicazione della clausola di esonero dal servizio a pena espiata (sentenza n. 343 del 1993).

 Ma è proprio questa regola che appare incongrua al Tribunale militare: se la finalità di essa è quella di evitare il fenomeno della “spirale di condanne” conseguente alla persistenza del rifiuto di prestare servizio, osserva il rimettente che tale finalità può essere in concreto elusa, giacché il collegamento tra espiazione ed esonero rende pur sempre possibile la reiterazione del giudizio – e della condanna – quantomeno nel periodo che corre tra l’irrevocabilità della prima condanna e la materiale esecuzione della pena con essa inflitta; con ciò contraddicendosi l’esigenza di evitare una pressione morale continuativa, esigenza che, secondo il Tribunale militare, varrebbe anche in rapporto alle ipotesi e alle condotte cui ha riguardo il comma 5 (rifiuto “immotivato” o atipico).

 Inoltre la norma in discorso si porrebbe in contrasto con il principio di uguaglianza, nel raffronto con il più volte citato comma 2 dello stesso art. 14, poiché la impossibilità di plurime condanne per il reato di obiezione totale e viceversa la possibilità di più sentenze di condanna per taluno degli altri reati espressivi di “rifiuto” denoterebbe una valutazione legislativa immotivatamente differenziata a fronte di fatti analoghi e di analogo disvalore, come ha ritenuto la Corte nella menzionata sentenza n. 409 del 1989.

 L’assetto normativo censurato, dunque, sarebbe irragionevole in quanto determinerebbe una complessiva sproporzione sanzionatoria tra le due ipotesi considerate, nonché in quanto – conclude il giudice a quo – produrrebbe effetti diversi tra le stesse ipotesi, relativamente all’applicabilità del beneficio della sospensione condizionale della pena: mentre colui che rifiuta adducendo motivi di coscienza può giovarsi della sospensione condizionale senza che ciò interferisca con l’esonero dal servizio, discendente dalla sola condanna, colui che rifiuta altrimenti il servizio, senza addurre motivi legalmente considerati, potrà usufruire, alternativamente, o del solo beneficio della sospensione o dell’esonero, poiché, nel primo caso, la sospensione condizionale determina l’inesecuzione della pena e dunque la inoperatività della clausola di esonero.

 1.2. – In uno dei tre giudizi così promossi (r.o. 24/99) è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto una pronuncia di infondatezza della questione.

 L’Avvocatura osserva che l’argomentazione del giudice rimettente si basa sulla affermazione del principio espresso varie volte dalla Corte costituzionale in merito alla illegittimità costituzionale delle disposizioni della legge n. 772 del 1972 che consentivano il verificarsi della “spirale delle condanne” per il reato di rifiuto del servizio militare. Ma la Corte – prosegue l’Avvocatura – in particolare nella sentenza n. 43 del 1997 invocata dallo stesso rimettente ha chiarito che ciò che non è conforme a Costituzione è la previsione – con la possibilità di plurime condanne e pene nei riguardi dell’obiettore di coscienza – di strumenti di “pressione” miranti a provocare un mutamento dei convincimenti individuali.

 Ancora nella citata decisione, si è inoltre chiarito che la protezione dei “diritti della coscienza” non è illimitata, spettando al legislatore di determinare “il punto di equilibrio tra la coscienza individuale e le facoltà che essa reclama, da un lato, e i complessivi, inderogabili doveri di solidarietà politica economica e sociale che la Costituzione impone, dall’altro”.

 Su queste premesse si è pertanto ritenuta legittima la qualificazione di illecito e la previsione di una sanzione penale per un atto dettato da motivi di coscienza che si pone in contrasto con un dovere posto dalla Costituzione e dalla legge; inoltre, si è ritenuta legittima la pretesa di esigere l’espiazione di una pena, come corrispettivo della sottrazione al dovere costituzionale di difesa della Patria di cui all’art. 52 della Costituzione, restringendosi la valutazione di irragionevolezza alle sole norme attraverso le quali fosse possibile la reiterata comminatoria di sanzioni quali fattori di coercizione morale dell’individuo.

 Questi principi, conclude l’Avvocatura, non possono invocarsi a base della questione prospettata, poiché la norma impugnata concerne un caso – il rifiuto del servizio militare “immotivato” o “atipico”, cioè non dettato da ragioni di coscienza – del tutto diverso da quello del rifiuto originato da obiezione di coscienza, potendosi solo a quest’ultimo, e non al primo, riferire le argomentazioni suddette; la differenziazione legislativa, anzi, appare coerente con le affermazioni di principio contenute nelle sentenze della Corte costituzionale.

 2.1. – Questione analoga a quelle precedentemente dette è stata sollevata dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Torino (r.o. 542/99), in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione.

 Nel sollevare la questione, il rimettente si sofferma preliminarmente a illustrare la vicenda giudiziaria: nel caso di specie, è imputato di diserzione un soggetto che già in precedenza ha più volte realizzato condotte di sistematica inosservanza dell’obbligo di prestazione del servizio di leva.

 In particolare, il rimettente riferisce che l’imputato ha precedentemente riportato: dapprima, due condanne (nel 1996), per episodi di diserzione e altri reati commessi nel 1993, a complessivi quattro mesi e quindici giorni di reclusione militare; poi, una ulteriore condanna (nel 1997) a sei mesi di reclusione militare, sempre in relazione a fatti di assenza dal servizio, condanna con la quale è stata altresì disposta la revoca della sospensione condizionale concessa con le prime due pronunce. In definitiva, l’imputato ha riportato condanne esecutive, per episodi tutti riconducibili al rifiuto totale di prestare servizio militare di leva, ma sempre senza addurre alcun motivo di coscienza, per complessivi dieci mesi e quindici giorni di reclusione militare, cioè per una durata superiore a quella (dieci mesi) stabilita per il servizio di leva; ma, in concreto, benché tuttora in stato di detenzione e in attesa di pronuncia su una sua istanza di misura alternativa, non ha espiato per tale reiterato rifiuto una pena non inferiore alla durata del servizio militare.

 In questo quadro, e nel persistere dell’atteggiamento costante di rifiuto del servizio, non si è verificato l’esonero dal servizio medesimo non essendovi (ancora) stata una espiazione della pena nella misura sopra detta; l’interessato è pertanto nuovamente sottoposto a procedimento penale per diserzione.

 Tutto ciò premesso, il giudice a quo ritiene che l’art. 14, comma 5, della legge n. 230 del 1998, in quanto subordina l’esonero dal servizio militare alla espiazione della pena della reclusione per un periodo non inferiore a quello della leva “anziché alla sola sentenza di condanna alla reclusione nella medesima misura” sia in contrasto con i parametri costituzionali invocati.

 Vigente la legge n. 772 del 1972, la Corte costituzionale era intervenuta sulla norma che regolava l’esonero (art. 8, terzo comma), originariamente stabilito soltanto per coloro che rifiutavano il servizio per motivi di coscienza ex art. 1 della stessa legge; con le sentenze nn. 343 e 442 del 1993, infatti, la clausola di esonero era stata estesa anche agli obiettori “atipici” (cioè che realizzano reati militari espressivi di rifiuto del servizio), ma alla condizione, posta dalle stesse decisioni, dell’espiazione di una pena, per quei reati, almeno pari alla durata del servizio militare.

 Queste pronunce si basavano sul rilievo della possibilità di reiterazione continua di incriminazioni per i soggetti condannati per reati militari di rifiuto del servizio, fino al limite di età di quarantacinque anni; una possibilità per un verso contrastante con l’analogia delle condotte variamente espressive del rifiuto e con la corrispondente identità del bene giuridico oggetto di tutela (la regolare prestazione del servizio di leva), per altro verso rivelatrice di sproporzione sanzionatoria tra il reato di vera e propria obiezione e gli altri reati “generici”, nonché confliggente con il principio del finalismo rieducativo di cui all’art. 27 della Costituzione.

 Nell’apprestare la nuova disciplina (legge n. 230 del 1998), il legislatore si è in effetti attenuto alle indicazioni della giurisprudenza costituzionale (sentenze nn. 343 e 442 del 1993 citate), prevedendo l’esonero come effetto dell’espiazione di pena per gli “obiettori atipici” (art. 14, comma 5); ma – rileva il giudice rimettente – è la disciplina di raffronto che è radicalmente mutata: mentre infatti in precedenza per ogni forma di rifiuto, tipica o atipica, l’esonero dal servizio conseguiva comunque alla espiazione di una pena (salva la ulteriore condizione della durata minima posta, per i casi di rifiuto non motivato, dalle sentenze della Corte), oggi, secondo il comma 4 dell’art. 14, l’obiettore che, in qualunque momento, adduca a ragione del rifiuto totale i motivi di coscienza di cui all’art. 1 della legge, consegue l’esonero per il solo fatto della condanna.

 E’ dunque cambiato lo schema del raffronto: da un lato la semplice condanna, dall’altro l’espiazione di una pena pari al tempo del servizio militare, quale causa di esonero da esso.

 Si verifica così che il giudice ordinario, oggi competente a conoscere dei reati di “obiezione” in senso proprio, possa condannare – o applicare una pena concordata – con il beneficio sospensivo o possa applicare una pena pecuniaria in sostituzione di pena detentiva, comunque derivandone l’esonero; mentre il giudice militare, che rimane competente a conoscere dei reati di diserzione, di mancanza alla chiamata, di disobbedienza, si trova a condannare a una pena che non potrà essere inferiore a quella del servizio, senza poter concedere il beneficio della sospensione condizionale, sia perché l’esonero richiede appunto l’espiazione della pena sia perché sarebbe prassi giurisprudenziale consolidata quella di non concedere il beneficio in relazione a tali imputazioni.

 Se si tiene altresì presente che spesso si procede nei confronti di imputati contumaci o irreperibili, difficilmente assoggettabili di fatto alla effettiva espiazione, si ripropone ancora una volta la possibilità, incostituzionale, del fenomeno della spirale delle condanne.

 La differenziazione di disciplina ora posta dalla legge n. 230 del 1998 risulta dunque, per il rimettente, ingiustificata, discriminando chi, non informato o sprovveduto, si limiti all’assenza o ad altre forme di inosservanza dell’obbligo del servizio, rispetto a chi, magari solo per calcolo, riconduca le medesime condotte a motivi di coscienza, oltretutto in nessun modo verificabili.

In considerazione dell’identità dell’interesse che è leso nelle due ipotesi, e dell’analogia delle modalità obiettive del comportamento, non potrebbe ammettersi – conclude il rimettente – che le conseguenze in ordine all’esonero siano così sproporzionatamente diversificate, e perciò lesive del principio di uguaglianza; una sproporzione, quella censurata, rilevabile, in particolare, nella possibilità di applicazioni reiterate di pena, fino al raggiungimento del livello di parità con la durata della leva militare.

 La disciplina denunciata appare d’altra parte al giudice rimettente in contrasto con l’art. 27, terzo comma, della Costituzione, in quanto il verificarsi di nuovi ulteriori reati (di diserzione, mancanza alla chiamata e così via) dipende, più che dalla volontà del soggetto di non ripresentarsi alle armi, dalla circostanza, casuale ed esterna, del ritardo nell’emissione dell’ordine di carcerazione. Anche sotto questo ultimo profilo, quindi, la norma rimessa allo scrutinio di costituzionalità appare dubbia, giacché comporta che la sussistenza di un reato segua non al comportamento dell’interessato ma alla tempestività con la quale l’autorità giudiziaria disponga l’esecuzione della pena già inflitta ovvero, sospesa l’esecuzione, adotti la procedura di cui all’art. 656 cod. proc. pen. e provveda sull’eventuale istanza di affidamento in prova al servizio sociale, così come si verifica nella specie.

 2.2. – E’ intervenuto nel giudizio così promosso il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.

 Secondo l’Avvocatura, l’impostazione della questione è contraddetta dalla giurisprudenza costituzionale, che, pur nel censurare le norme che rendevano possibile la “spirale delle condanne”, ha tuttavia sempre differenziato la fattispecie di rifiuto determinata da inderogabili motivi di coscienza rispetto alle altre, legittimando per queste ultime un trattamento sanzionatorio più grave (così ad esempio proprio la sentenza n. 409 del 1989).

 Inoltre, nella sentenza n. 422 del 1993, la Corte ha esplicitamente affermato la non comparabilità, alla stregua dell’art. 3 della Costituzione, delle diverse condotte concernenti, rispettivamente, il rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza e il rifiuto puro e semplice.

 Alla luce di questa differenziazione deve dunque leggersi la disciplina legislativa del 1998, che mantiene, senza contrastare con l’art. 3 della Costituzione, le diversità connesse ai tratti propri di ciascuna delle ipotesi considerate.

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale militare di Padova, con tre ordinanze di analogo contenuto, pronunciate in altrettanti giudizi, solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 14, comma 5, della legge 8 luglio 1998, n. 230 (Nuove norme in materia di obiezione di coscienza), in riferimento all'art. 3 della Costituzione. Altra questione sulla medesima disposizione è sollevata dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Torino, in riferimento, oltre che all'art. 3, all'art. 27, terzo comma, della Costituzione.

La norma sospettata di illegittimità costituzionale prevede l’esonero dall’obbligo di prestazione del servizio militare per coloro che abbiano espiato la pena della reclusione per un periodo complessivamente non inferiore alla durata del servizio militare di leva – pena comminata a coloro che, in tempo di pace, rifiutano totalmente, prima o dopo averlo assunto, la prestazione del servizio militare di leva per motivi diversi da quelli di coscienza o senza addurre motivo alcuno. Secondo il comma 4 della medesima disposizione, invece, l’esonero consegue non all’espiazione della pena ma alla sentenza penale di condanna per coloro che, nelle medesime condizioni, abbiano rifiutato la prestazione del servizio militare adducendo motivi di coscienza che ostano alla prestazione del servizio militare stesso.

I giudici rimettenti dubitano della razionalità dell’anzidetta diversa dipendenza dell’esonero, nel primo caso, dall’espiazione della pena inflitta e, nel secondo, dalla sola condanna. Sulla duplice premessa che le due ipotesi siano accomunate dall’identità dell’interesse leso e dalla somiglianza delle modalità oggettive di commissione dei reati, e che in ogni caso si tratti di un «sostanziale» rifiuto del servizio di leva, rispetto al quale la natura dei motivi o addirittura l’assenza di essi non dovrebbero assumere valore distintivo di ipotesi diverse, giuridicamente diversificabili, si ritiene che la menzionata diversità di disciplina si risolva in un’irrazionalità della legge: irrazionalità che sarebbe da superare tramite l’estensione del sistema previsto dal comma 4 alle ipotesi indicate nel comma 5, facendo dipendere così, in ogni caso, l’esonero dall’obbligo militare dalla sola sentenza di condanna (per il solo Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Torino, alla condizione che la pena inflitta sia non inferiore alla durata del servizio militare di leva).

Si osserva inoltre che il denunciato comma 5, condizionando l’esonero all’espiazione della pena, non esclude la possibilità di ripetizione dei processi e delle condanne quando la prima pena inflitta non sia effettivamente espiata (come avviene, ad esempio, nel caso di concessione della sospensione condizionale) o, comunque, quando una nuova iniziativa giudiziaria sia promossa nel tempo che intercorre tra il passaggio in giudicato della prima condanna e la sua esecuzione, possibilità che si risolverebbe in violazione dei principi costituzionali, come elaborati dalla Corte costituzionale in particolare nella sentenza n. 43 del 1997. A quest’ultimo rilievo si collega infine il dubbio sulla legittimità costituzionale della norma impugnata, in riferimento all’art. 27, terzo comma, della Costituzione, per violazione della finalità rieducativa della pena, in quanto la ripetibilità del reato, delle condanne e delle pene potrebbe dipendere da fattori estranei, non riconducibili al comportamento dell’interessato, come la celerità dei tempi di messa in esecuzione della pena inflitta per il primo reato.

2. – Poiché le questioni sollevate si riferiscono tutte alla stessa disposizione di legge e gli argomenti costituzionali addotti coincidono in gran parte, convergendo nell’attesa dello stesso risultato, i relativi giudizi possono essere riuniti per essere decisi con un’unica sentenza.

3. – Le questioni non sono fondate.

I commi 4 e 5 dell’art. 14 della legge n. 230 del 1998, che i rimettenti mettono a confronto in vista di un giudizio sulla razionalità della diversa disciplina dei presupposti dell’esonero dal servizio militare, rappresentano una traduzione legislativa del difficile equilibrio tra molteplici esigenze, quali la repressione dei comportamenti contrastanti con l’obbligo di prestazione del servizio militare; il riconoscimento della rilevanza che, in materia, spetta alla coscienza individuale; l’intento di porre limiti alla sequela indiscriminata di condanne e di pene in materia di inadempimento degli obblighi militari; la necessità, comunque, di termini ragionevoli di durata della pena, in caso di cumulo; l’applicabilità anche rispetto ai reati in questione di istituti di portata generale, quali la sospensione condizionale della pena e, in genere, le misure che incidono sull’esecuzione o sulla durata di essa.

Il punto d’incontro tra tali molteplici esigenze è rappresentato, nei commi 4 e 5 dell’art. 14 della legge n. 230, dalla disciplina dell’esonero dagli obblighi di leva e delle sue condizioni: una disciplina differenziata a seconda che il mancato adempimento degli obblighi militari in questione sia o non sia dipeso da ragioni di coscienza.

Le questioni di legittimità costituzionale ora all’esame, contestando la scelta del legislatore proprio sul punto della ratio differenziatrice suddetta, tendono a una pronuncia parificatoria che estenda a tutte le ipotesi la disciplina dell’esonero prevista per i casi di coscienza dal comma 4 dell’art. 14 della legge n. 230. Già questo rilievo rende perplessi sulla plausibilità dell’operazione richiesta alla Corte. Non è qui questione di specialità – e quindi di inestensibilità - della disciplina dettata in funzione del rilievo da assegnare alle ragioni di coscienza, rispetto a quella dettata in relazione alle ipotesi in cui tali ragioni non assumono rilievo. Ma è certo in questione la plausibilità di una differenziazione che viene a dare rilievo a ragioni della coscienza che, in materia di doveri connessi all’adempimento degli obblighi militari, il legislatore e la stessa giurisprudenza di questa Corte hanno ritenuto rilevanti. Più in generale, il senso della proposta omologazione – la generalizzazione della disciplina dettata specificamente per i casi di coscienza – solleva l’interrogativo se una simile linea di tendenza non si ponga in contrasto con il vigente principio costituzionale dell’obbligatorietà del servizio militare (art. 52, secondo comma, della Costituzione), principio che non esclude il riconoscimento della coscienza individuale e dei suoi diritti ma a condizione, ovviamente, che la normativa dettata in funzione di tale riconoscimento non pretenda di valere come regola generale.

4. – Specificamente, quanto alla contestata razionalità della differenziazione dei presupposti dell’esonero dagli obblighi di leva risultante dai commi 4 e 5 dell’art. 14, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici rimettenti, esistono precise ragioni giustificative della scelta operata dal legislatore.

4.1. – Con la sentenza n. 409 del 1989, questa Corte ha respinto i dubbi di costituzionalità, sollevati sull’allora vigente art. 8, terzo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772, il quale prevedeva l’esonero dagli obblighi di leva in conseguenza dell’espiazione della pena irrogata per il rifiuto totale del servizio militare, motivato da ragioni di coscienza, esonero allora non previsto fuori di tale caso, cioè per reati di violazione degli obblighi di leva «comuni», vale a dire non motivati da ragioni di coscienza, come quello di «mancanza alla chiamata», previsto dall’art. 151 cod. pen. mil. pace. La previsione dell’esonero in un caso e non nell’altro era messa in relazione alla «diversità (subiettiva)» delle situazioni ricadenti nella previsione dell’art. 8, terzo comma, della legge allora vigente, diversità che «era causa» della particolarità di quella ragione di esonero dagli obblighi di leva.

L’apprezzamento di tale «diversità subiettiva» è alla base anche della successiva sentenza n. 43 del 1997 di questa Corte con la quale si ritenne che il sistema dell’esonero conseguente all’espiazione della pena, e non alla sentenza di condanna, determinasse conseguenze, insieme, contraddittorie e incostituzionali, nei casi di rifiuto del servizio militare di chi, non essendo stato ammesso ai «benefici» previsti dalla legge del 1992 (servizio militare non armato o servizio civile), avesse rifiutato il servizio militare di leva, adducendo i motivi di coscienza che la legge stessa indicava nel suo primo articolo. La contraddizione - si ritenne - stava negli effetti negativi sulla posizione dell’obiettore di coscienza condannato (mancato esonero e quindi prevedibile ripetizione del reato e delle condanne, dettata dal perdurare dei medesimi motivi di coscienza, giuridicamente rilevanti) che sarebbero derivati da provvedimenti per loro natura favorevoli, come tutti quelli che incidono sull’esecuzione della pena, escludendola, riducendone la durata e sospendendola, posticipandola se del caso, subordinatamente al verificarsi di eventi successivi; per effetto di tali provvedimenti, non potendosi realizzare la condizione prevista per l’esonero, l’obiettore di coscienza si sarebbe trovato esposto a misure plurime di chiamata alla leva, sanzionate penalmente, comportanti una sorta di continuativa coartazione morale della persona che questa Corte ritenne contrastare con diverse disposizioni della Costituzione. E’ evidente, da quanto appena riferito, che le ragioni le quali, per evitare tali conseguenze ritenute non conformi alla Costituzione, indussero a statuire che l’esonero dovesse dipendere non dall’espiazione della pena ma dalla sua irrogazione, valgono per le ipotesi in cui entra in gioco il fattore della coscienza. Al di fuori, esse non avrebbero ragione di valere.

Ora, il legislatore del 1998, nei due commi dell’art. 14 che regolano l’esonero dagli obblighi di leva ha per l’appunto tenuto conto della differenza delle fattispecie a seconda che entrino o non entrino in gioco fattori di coscienza, differenza che si impone di per sé e che la giurisprudenza, nelle decisioni ricordate, ha riconosciuto. E, pertanto, cade la censura che gli viene mossa di avere irrazionalmente differenziato la normativa di fattispecie analoghe.

4.2. – Come sottolineano i rimettenti, questa Corte ha ravvisato profili di somiglianza tra le fattispecie di sottrazione agli obblighi di leva che sono qui in considerazione, e precisamente con riguardo alla lesione del medesimo bene giuridico (l’interesse alla “regolare incorporazione degli obbligati al servizio di leva nell’organizzazione militare”) tramite comportamenti che possono presentare modalità oggettive comuni (sentenza n. 409 del 1989). Ma tale rilevata somiglianza (che non riguarda, come si è detto, gli «aspetti subiettivi» delle condotte) era assunta dalla Corte soltanto per rilevare l’irragionevole, macroscopica disparità di trattamento sanzionatorio previsto nelle due ipotesi, palesemente sproporzionata in senso sfavorevole a chi si fosse sottratto agli obblighi militari o agli obblighi alternativi (servizio militare non armato o servizio civile) per motivi di coscienza, rispetto a chi avesse realizzato il reato di «mancanza alla chiamata», reato rispetto al quale tali motivi non assumono rilievo. E, ulteriormente, con le sentenze nn. 343 e 422 del 1993, questa Corte ha fatto valere il rilievo circa l’identità di bene giuridico protetto e la possibile coincidenza delle condotte materiali dei reati comportanti la sottrazione agli obblighi di leva ed è giunta a generalizzare il sistema dell’esonero quale conseguenza dell’espiazione della pena irrogata per il primo reato commesso, sistema originariamente riguardante soltanto i reati, connotati da motivi di coscienza, previsti nei primi due commi dell’art. 8 della legge del 1972. Ma, anche in questi casi, si trattava di problemi di sproporzione delle pene che, stante l’eventualità di quella che è stata denominata la «spirale delle condanne», potevano finire per gravare sul disertore recidivo.

In altri termini, non si trattava della parificazione rispetto alla disciplina dell’esonero dettata da una affermata, obbiettiva identità dei reati, ma del richiamo, e dell’estensione di tale disciplina come mezzo per addivenire al risultato pratico di impedire l’abnorme accumulo di pene conseguente alla condotta recidivante di quanti si fossero sottratti agli obblighi di leva senza addurre ragioni di coscienza.

Il legislatore del 1998, nel comma 5 dell’art. 14, anche di questo ha tenuto conto estendendo l’applicazione dell’esonero, facendolo dipendere, per le fattispecie ivi considerate, dall’espiazione della pena, conformemente a quanto statuito da questa Corte nelle due pronunce appena citate. In tal modo è venuto incontro all’esigenza di porre un limite alla ripetizione delle condanne onde evitare la sproporzione del trattamento sanzionatorio – obbiettivo costituzionalmente necessario – senza peraltro giungere all’equiparazione della disciplina con quella stabilita nel comma 4, prevista per i reati determinati da motivi di coscienza – equiparazione, invece, costituzionalmente non necessaria -.

La possibilità, denunciata dai rimettenti, che, sia pure in casi eccezionali, non dandosi luogo all’esecuzione della pena irrogata per la prima violazione dell'obbligo di leva, alla prima condanna possa seguirne una seconda per una nuova violazione del medesimo obbligo, non contrasta di per sé con alcun canone di costituzionalità. In assenza dell’elemento unificatore della coscienza e del divieto di influire sulle sue determinazioni con la minaccia di nuove condanne e nuove pene, ogni condotta lesiva dell’obbligo di leva può infatti assumere autonomo rilievo, entro i limiti di proporzionalità di cui si è detto, dei quali il legislatore, nella norma denunciata, ha tenuto conto.

5. – Anche sotto il profilo della dedotta violazione dell’art. 27, terzo comma, della Costituzione, la questione è infondata. Ritiene il giudice rimettente, in relazione alla possibilità or ora indicata, che il mancato esonero conseguente alla mancata esecuzione della pena per un periodo almeno pari alla durata del servizio di leva, derivante, in ipotesi, dalla concessione della sospensione condizionale o da ritardo nell’attivazione delle procedure, esponga l’interessato a una (nuova) condanna non determinata da un proprio comportamento. Da ciò la conseguenza che la pena, in tal caso, risulterebbe, per così dire, gratuita, in assenza di un comportamento riprovevole. Ma, così ragionando, si trascura il fatto che la (nuova) condanna dipende pur sempre da una nuova violazione dell’obbligo di leva, ascrivibile all’interessato, mentre la maggiore o la minore celerità della messa in atto delle procedure di esecuzione o la concessione di benefici rappresentano elementi di fatto esterni alla norma denunciata, le cui conseguenze non sono a essa ascrivibili.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5, della legge 8 luglio 1998, n. 230 (Nuove norme in materia di obiezione di coscienza), sollevate dal Tribunale militare di Padova, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, e dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Torino, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 giugno 2000.

Francesco GUIZZI, Presidente

Gustavo ZAGREBELSKY, Redattore

Depositata in cancelleria il 22 giugno 2000.