Sentenza n. 502/2000

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SENTENZA N. 502

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO

- Massimo VARI

- Cesare RUPERTO

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della delibera della Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi del 29 marzo 2000, recante “Comunicazione politica, messaggi autogestiti, informazione e tribune della concessionaria del servizio radiotelevisivo pubblico per la campagna referendaria 2000”, promosso con ricorso dei signori Daniele Capezzone, Michele De Lucia e Mariano Giustino, nella qualità di promotori e presentatori di referendum abrogativi indetti per il 21 maggio 2000, notificato il 18 maggio 2000, depositato in Cancelleria il 2 giugno 2000 ed iscritto al n. 26 del registro conflitti 2000.

Visto l’atto di costituzione della Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi;

udito nell’udienza pubblica del 26 settembre 2000 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti;

uditi l’avvocato Nicolò Zanon per i signori Daniele Capezzone, Michele De Lucia e Mariano Giustino e l’Avvocato dello Stato Danilo Del Gaizo per la Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi.

Ritenuto in fatto

1. ― Daniele Capezzone, Michele De Lucia e Mariano Giustino, nella qualità di promotori e presentatori di referendum abrogativi indetti con d.P.R. 29 marzo 2000 (Gazzetta Ufficiale del 4 aprile 2000, n. 79) per il 21 maggio 2000, hanno sollevato conflitto di attribuzione nei confronti della Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi (in seguito, Commissione parlamentare) e dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (in seguito, Autorità per le garanzie), in relazione, rispettivamente, agli artt. 1, comma 2, 2, comma 1, lettere c) e d), 7, comma 2, della deliberazione approvata il 29 marzo 2000, recante “Comunicazione politica, messaggi autogestiti, informazione e tribune della concessionaria del servizio radiotelevisivo pubblico per la campagna referendaria 2000” ed all’art. 8 della deliberazione n. 55/00/CSP, approvata il 29 marzo 2000, dell’Autorità per le garanzie, pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale del 1° aprile 2000, n. 77, in riferimento all’art. 75 della Costituzione, chiedendo, in linea preliminare la sospensione di entrambi gli atti.

2. ― Relativamente alla deliberazione della Commissione parlamentare, i ricorrenti sostengono che l’atto non avrebbe correttamente attuato i principi stabiliti dalla legge 22 febbraio 2000, n. 28 (Disposizioni per la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie e per la comunicazione politica) e, perciò, avrebbe influito sulla formazione della volontà dei cittadini chiamati ad esprimere il loro voto, vulnerando le attribuzioni costituzionalmente garantite del comitato promotore del referendum.

Essi premettono che la legge n. 28 del 2000 disciplina la cd. “comunicazione politica” nei periodi di campagna elettorale e referendaria, disponendo (artt. 5, comma 1, e 9) che i mezzi di comunicazione devono fornire un’informazione obbiettiva e neutrale sul significato e sulle modalità del voto. In particolare, l’art. 9 di detta legge disciplinerebbe la “comunicazione istituzionale” che identificherebbe il servizio informativo che le amministrazioni pubbliche dovrebbero offrire ai cittadini, allo scopo di permettere che i diritti garantiti dalla Costituzione e, in particolare, quello di voto (art. 48 della Costituzione), siano esercitati con piena consapevolezza, sicché le norme che la riguardano sarebbero connotate da <<profili di obbligatorietà costituzionale>>, in quanto attuative degli artt. 1, 48, 3, comma secondo, e 75 della Costituzione.

La “comunicazione istituzionale”, proseguono i ricorrenti, avrebbe <<un ruolo costituzionale ancora più chiaro nel caso delle campagne referendarie>>, nonostante la Corte abbia affermato che elezioni e referendum possono essere disciplinati con modalità identiche (sentenza n. 161 del 1995). Nelle campagne referendarie, la formazione della libera e consapevole volontà del cittadino chiamato alle urne e lo scopo di ottenere che l’eventuale astensione sia frutto di una scelta ponderata richiederebbero infatti che sia offerta un’adeguata informazione sui contenuti dei quesiti e sul significato del “sì” e del “no”, anche in considerazione del carattere abrogativo del referendum e della complessità delle materie oggetto dei quesiti. In tal senso, secondo gli istanti, sarebbero emblematiche le modalità con le quali in Svizzera e negli Stati Uniti d’America è disciplinata l’informazione in occasione del referendum, nonché, in Italia, l’attribuzione all’Ufficio centrale per il referendum del potere di stabilire la denominazione del referendum. L’art. 9 della legge n. 28 del 2000 costituirebbe, quindi, una norma costituzionalmente necessaria, in quanto diretta ad assicurare che le amministrazioni pubbliche svolgano con neutralità ed obiettività un’informazione adeguata, essendo riservato alla Commissione parlamentare il potere di stabilire criteri e regole per l’applicazione della legge alla campagna referendaria.

2.1. ― Secondo i ricorrenti, le direttive impugnate non avrebbero correttamente attuato la legge n. 28 del 2000, in quanto l’art. 4 si limita a stabilire che, dal giorno della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dei decreti di indizione dei referendum, <<la Rai cura l’illustrazione dei quesiti referendari, ed informa sulle modalità di votazione, sulla data e sugli orari della consultazione>>.

Analoghe carenze connoterebbero: l’art. 1, comma 2, il quale si limita a stabilire che gli spazi vanno ripartiti in misura eguale tra soggetti favorevoli e contrari ai quesiti e detti spazi, <<negli intendimenti della Commissione>>, dovrebbero esaurire ogni possibilità di comunicazione in tema di referendum; l’art. 2, comma 1, lettera c), il quale contiene un generico riferimento ad un’informazione da assicurare mediante notiziari ed approfondimenti e non reca criteri direttivi in ordine alla responsabilità della testata giornalistica; l’art. 2, comma 1 lettera d), che vieta la possibilità di fare riferimento ai referendum al di fuori della tipologia di trasmissioni da esso prevista; l’art. 7, comma 2, che reca una mera parafrasi dell’art. 9, della legge n. 28 del 2000. Ad avviso dei ricorrenti, le censure sarebbero confortate dalla constatazione che nel calendario delle tribune referendarie approvate dalla Rai non sono previste trasmissioni di approfondimento ed i dibattiti sono confinati in orari che non garantirebbero un’adeguata audience.

Inoltre, secondo i ricorrenti, sussisterebbe altresì il tono costituzionale del conflitto, in quanto l’atto impugnato - non sindacabile dal giudice amministrativo - è diretto a realizzare il principio del pluralismo e costituirebbe espressione di un’attribuzione di livello costituzionale, nella specie non correttamente esercitata.

2.2. ― I ricorrenti, in linea gradata, sostengono che, qualora la Corte ritenga che la delibera abbia correttamente applicato la legge n. 28 del 2000, <<la lesione dei principi di cui agli artt. 1, 3, comma secondo, 48 e 75, Cost. dovrebbe essere direttamente imputata alla legge stessa, nelle disposizioni specificamente dedicate alla comunicazione di carattere istituzionale>>, da ritenersi viziate <<in quanto non contengono una disciplina sufficiente ad assicurare l’esistenza, costituzionalmente necessaria, di una reale ed efficace comunicazione istituzionale>>. Essi chiedono, quindi, che la Corte, previa sospensione del giudizio per conflitto di attribuzione, sollevi di fronte a sé questione di legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 1, e 9 della legge n. 28 del 2000, <<nella parte in cui non prevedono le misure legislative minime atte ad assicurare la presenza e l’efficacia>> della comunicazione istituzionale, in riferimento agli artt. 1, 3, comma secondo, 21, 48 e 75 della Costituzione.

3. ― Questa Corte, con ordinanza del 12 maggio 2000, n. 137, ha dichiarato inammissibile il conflitto sollevato nei confronti dell'Autorità per le garanzie ed ha invece dichiarato ammissibile il conflitto sollevato nei confronti della Commissione parlamentare, ritenendo insussistenti i presupposti per l'accoglimento della domanda cautelare.

I ricorrenti hanno notificato l'ordinanza alla Commissione parlamentare il 18 maggio 2000, depositandola presso la cancelleria della Corte il 2 giugno 2000.

4. ― Nel giudizio si è costituita la Commissione parlamentare, rappresentata e difesa dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che il conflitto sia dichiarato inammissibile e, comunque, che sia rigettato.

La difesa erariale, preliminarmente, contesta che l'atto impugnato incida sulle attribuzioni costituzionalmente garantite spettanti ai promotori del referendum ex art. 75 della Costituzione, perché tra esse non rientrerebbe la cd. "comunicazione istituzionale" (art. 9, comma 2, della legge n. 28 del 2000), la quale riguarda l'attività di informazione obiettiva e neutrale che, evidentemente, non può essere svolta dai predetti. A suo avviso, siffatta conclusione è confortata dalle decisioni della Corte concernenti gli atti di disciplina dell'attività di propaganda svolta da soggetti portatori di una visione politica di parte. In particolare, dalla sentenza n. 161 del 1995 e dalla sentenza n. 49 del 1998, la quale ha affermato che la Commissione parlamentare deve formulare indirizzi rispettosi del principio del pluralismo della propaganda ed ha contrapposto la partecipazione dei comitati promotori e dei soggetti organizzati al ciclo delle trasmissione televisive.

Secondo la resistente, questa interpretazione sarebbe suffragata dalla circostanza che l'art. 52 della legge 25 maggio 1970, n. 352 attribuisce ai promotori del referendum la facoltà di partecipare direttamente alla competizione elettorale ed alla relativa propaganda, che evidentemente è incompatibile con lo scopo di offrire un’informazione obiettiva ed imparziale.

4.1. ― Nel merito, la Commissione parlamentare premette che l'art. 9, comma 2, della legge n. 28 del 2000 non disciplina la "comunicazione istituzionale" e contesta che le norme di detta legge siano "costituzionalmente necessarie", poiché tale tipo di comunicazione non è prevista dall'art. 75 della Costituzione, ed è stata disciplinata esclusivamente da quando è venuta meno l'aspettativa della tendenziale neutralità ed imparzialità dei media televisivi privati, in quanto parti direttamente interessate dalle consultazioni referendarie.

Ad avviso della difesa erariale, è inesatto che l’informazione debba essere svolta con le modalità indicate dai ricorrenti, sulla scorta di considerazioni <<del tutto opinabili o arbitrarie>>, basate su indimostrate petizioni di principio o su premesse erronee, facendo peraltro riferimento alla disciplina stabilita in Paesi nei quali l’istituto referendario ha caratteri profondamente diversi da quello italiano.

In particolare, la censura riferita all'art. 4 - neppure indicato nell'intestazione del ricorso e nelle conclusioni - sarebbe frutto di una mera illazione, dato che esso non è meramente riproduttivo dell'art. 9, comma 2, della legge n. 28 del 2000 e, tra l'altro, stabilisce che la Rai <<cura l'illustrazione dei quesiti referendari>>, ossia deve assicurare proprio quelle informazioni ritenute indispensabili dai ricorrenti. Peraltro, il comma 2 dell'art. 4 disciplina le modalità di attuazione dell'informazione, disponendo che i relativi programmi devono essere trasmessi alla Commissione parlamentare ed assicurando il costante contatto tra il Presidente di quest’ultima e l'Ufficio di presidenza della Rai, sicché è chiara la congruità delle direttive rispetto allo scopo di garantire l’adeguatezza dell’informazione. Dalla documentazione prodotta risulta infatti sia che l'informazione della Rai ha avuto ad oggetto anche l'illustrazione dei quesiti e degli effetti del voto e della scelta di astenersi, sia che la Commissione parlamentare ha vigilato sulla idoneità degli spot ad informare i cittadini.

4.2. ― Relativamente alle censure concernenti l'art. 7, comma 2, la resistente osserva che esso riguarda i "programmi di informazione nei mezzi radiotelevisivi" (art. 5 della legge n. 28 del 2000) e che la libertà di informazione (art. 21 della Costituzione) non permetterebbe di predeterminare rigidamente il contenuto dei programmi, avendo comunque la Commissione parlamentare verificato costantemente l'attività della Rai. Inoltre, secondo la difesa erariale, dette argomentazioni dimostrerebbero la correttezza dell'art. 2, comma 1, lettera c), anche perché <<la Commissione parlamentare non poteva non ricondurre i notiziari ed i relativi approfondimenti alla responsabilità di specifiche testate giornalistiche registrate>>.

Le censure riferite all'art. 1, comma 2, sarebbero infondate sia in quanto esso riguarda la comunicazione politica, sia in quanto la documentazione prodotta dimostra che lo spazio concesso ai soggetti favorevoli ed a quelli contrari all'abrogazione non ha esaurito l'informazione in materia referendaria. L'art. 2, comma 1, lettera d), non contrasterebbe con l'auspicio contenuto nella lettera o) della premessa, poiché l'art. 4, comma 2, a sua volta, ha espressamente stabilito l'obbligo di realizzare programmi di informazione con caratteristiche di spot autonomo. Il calendario delle tribune referendarie approvato dalla Rai non conforterebbe le censure, tenuto conto che esso riguarda la comunicazione politica e che l'inadeguatezza dell'informazione realizzata nelle fasce orarie da esso previste costituisce una affermazione apodittica ed indimostrata. Siffatte argomentazioni, conclude infine la Commissione parlamentare, dimostrerebbero altresì che la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, commi 1 e 9, della legge n. 28 del 2000, sollevata in via subordinata, è inammissibile e comunque infondata.

5. ― I ricorrenti, nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, insistono per l’accoglimento delle conclusioni rassegnate nell’atto introduttivo, sostenendo preliminarmente che lo svolgimento dei referendum non escluderebbe l’interesse a ricorrere.

A loro avviso, sarebbe inoltre infondata l’eccezione di inammissibilità del conflitto sotto il profilo oggettivo, dato che, secondo la giurisprudenza costituzionale, il comitato promotore sarebbe legittimato ad agire a tutela della corretta formazione della volontà dei cittadini, che costituirebbe un <<interesse obiettivo dell’ordinamento tutelato implicitamente dall’art. 75 Cost.>>.

I ricorrenti sostengono, quindi, che la “comunicazione istituzionale” costituirebbe proiezione degli artt. 3 e 97 della Costituzione e sarebbe preordinata a prevenire il rischio di una distorsione della relativa consultazione ed a realizzare la parità delle chances tra i partecipanti alla competizione elettorale. Peraltro, l’espletamento di un’attività di informazione neutrale, obiettiva ed imparziale sarebbe costituzionalmente obbligatoria (artt. 1, 3, comma secondo, 21, 48 e 75 della Costituzione) e non potrebbe essere lasciata al comitato promotore, il quale non è organo dello Stato-persona e non può sostituirsi a questo nell’espletamento del compito di assicurare il corretto esercizio della sovranità popolare nella forma del referendum abrogativo.

A loro avviso, siffatti principi costituirebbero il nucleo costituzionale irrinunciabile di un obbligo positivo di fare a carico delle amministrazioni pubbliche, in particolare del servizio radiotelevisivo, che <<lascia ampio spazio alla discrezionalità legislativa in materia>>, potendo tradursi in modalità informative anche molto diverse tra loro, la cui scelta è rimessa appunto al legislatore, e che però non può essere leso da <<decisioni legislative insufficienti>> o da un’insufficiente attuazione della legge, mentre l’identificazione in dettaglio del contenuto e delle modalità dell’informazione non può essere attribuita ad occasionali contatti tra la Presidenza della Commissione parlamentare e la Rai.

6. ― La Commissione parlamentare, nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, insiste nel contestare l’ammissibilità del conflitto sotto il profilo oggettivo, sostenendo che i ricorrenti si dolgono di comportamenti che non incidono sulle attribuzioni costituzionalmente garantite del comitato promotore.

Nel merito, ad avviso dell’Avvocatura, il ricorso sarebbe basato su premesse, <<per molti versi, contraddittorie con le censure>>. Infatti, i ricorrenti, nonostante abbiano precisato che le censure riguardano le modalità di esercizio dei poteri della Commissione parlamentare in materia di “comunicazione istituzionale”, formulano doglianze concernenti il contenuto e le fasce orarie delle tribune referendarie della Rai, ossia relative a trasmissioni riconducibili alla “comunicazione politica”. Secondo la Commissione parlamentare, il contenuto e l’orario di svolgimento delle tribune referendarie, poiché hanno lo scopo di permettere di illustrare le ragioni a favore o contro il quesito, non potrebbero affatto essere confuse con l’informazione obiettiva e neutrale sul significato oggettivo del voto.

L’eccezione di legittimità costituzionale sollevata in linea gradata, conclude infine la difesa erariale, è inammissibile, in quanto, secondo la giurisprudenza costituzionale, la pronunzia di sentenze cosiddette additive di principio è essenzialmente limitata ai casi nei quali l’incostituzionalità di una norma deriva dalla violazione del principio di eguaglianza ed è altresì identificabile nell’ordinamento una disposizione dalla quale è ricavabile la disciplina idonea a riempire il vuoto normativo determinato dalla sentenza, ovvero che permette di offrire al legislatore opportune indicazioni per rimediarvi. La generica formulazione della questione, in quanto caratterizzata dalla mancata indicazione di detti parametri, sarebbe quindi inammissibile e comunque infondata.

7. ― All’udienza pubblica le parti hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni rassegnate nelle difese scritte.

Considerato in diritto

1. ― Il conflitto di attribuzione tra poteri proposto, con il ricorso in epigrafe, dai promotori e presentatori dei referendum abrogativi del 21 maggio 2000 nei confronti della Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, ha ad oggetto gli artt. 1, comma 2, 2, comma 1, lettere c) e d), 7, comma 2, della deliberazione del 29 marzo 2000 recante "Comunicazione politica, messaggi autogestiti, informazione e tribune della concessionaria del servizio radiotelevisivo pubblico per la campagna referendaria 2000" in riferimento all'art. 75 della Costituzione.

Secondo i ricorrenti, la deliberazione predetta, dato che nelle parti impugnate "non contiene la effettiva attuazione dei principi previsti nella legge" n. 28 del 2000, "determina restrizioni allo svolgimento della campagna referendaria tali da incidere sulla formazione della volontà di coloro che esprimono il loro voto nel referendum" e conseguentemente nella sfera di attribuzioni garantita, ai sensi dell'art. 75 della Costituzione, al Comitato promotore. A loro avviso, infatti, sarebbe configurabile il "cattivo uso" dei poteri spettanti alla Commissione parlamentare per la disciplina della c.d. "comunicazione istituzionale", prevista in particolare dall'art. 9 della legge n. 28 e connotata da profili di obbligatorietà costituzionale, in riferimento agli artt. 1, 3, comma secondo, 48 e 75 della Costituzione, in quanto finalizzata ad assicurare, nelle campagne referendarie, l'esistenza di un'informazione neutrale ed obiettiva e con modalità tali da garantire la formazione della libera e consapevole volontà dell'elettore.

In via gradata i ricorrenti chiedono che la Corte costituzionale, qualora ritenga che le direttive impugnate abbiano correttamente applicato la legge n. 28 del 2000, sollevi innanzi a sé medesima questione di legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 1, e 9 della citata legge n. 28, in riferimento agli artt. 1, 3 comma secondo, 21, 48 e 75 della Costituzione "in quanto non contengono una disciplina sufficiente ad assicurare l'esistenza, costituzionalmente necessaria, di una reale ed efficace comunicazione istituzionale".

2. ― Preliminarmente va confermata la ammissibilità, ai sensi dell'art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, del conflitto di attribuzione in esame, già ritenuta, in via di sommaria delibazione, nell'ordinanza n. 137 del 2000.

Sussistono invero, alla stregua della costante giurisprudenza della Corte, i requisiti soggettivi del conflitto d'attribuzione tra poteri, giacché è pacifica sia la legittimazione dei promotori della richiesta di referendum abrogativo, competenti a dichiarare definitivamente, nell'ambito della procedura referendaria, la volontà della frazione del corpo elettorale titolare del potere di iniziativa previsto dall'art. 75 della Costituzione, sia la legittimazione della Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, competente a dichiarare definitivamente, nell'ambito della materia di sua spettanza, la volontà delle due Camere (ex plurimis, sentenza n. 49 del 1998).

Sussiste anche il requisito oggettivo del conflitto di attribuzione tra poteri, poiché non è accoglibile l'eccezione dell'Avvocatura dello Stato, secondo cui gli atti ed i comportamenti dei quali i ricorrenti si dolgono "non incidono sulle attribuzioni di rilievo costituzionale spettanti ai promotori nello svolgimento della campagna referendaria, in tale ambito non rientrando la c.d. <<comunicazione istituzionale>>". Va invece osservato che, secondo la prospettazione del ricorso, gli atti ed i comportamenti impugnati possono configurare una ipotesi di "cattivo uso" dei poteri spettanti alla Commissione parlamentare per l'indirizzo e la vigilanza; "cattivo uso" che appare astrattamente suscettibile di influire, nell'ambito della campagna elettorale referendaria, sulla formazione della volontà degli elettori, così da ridondare in una lesione della sfera di attribuzione dei ricorrenti (sentenza n.161 del 1995).

Non si può infine ritenere che sia venuto meno, a seguito dello svolgimento delle procedure referendarie e del loro esito, l'interesse dei ricorrenti ad ottenere una decisione di merito sulla spettanza delle attribuzioni costituzionali in contestazione, giacché non sono state prospettate argomentazioni che possano indurre un mutamento dell'orientamento favorevole fino ad ora seguito sul punto dalla Corte (cfr. sentenze n. 49 del 1998).

3. ― Nel merito, il ricorso è infondato.

I ricorrenti censurano, con riferimento alle parti impugnate della deliberazione del 29 marzo 2000, il "cattivo uso" dei poteri spettanti alla Commissione parlamentare per l'indirizzo e la vigilanza, in quanto essa non avrebbe adeguatamente attuato la legge n. 28 del 2000, che, secondo la loro interpretazione, disciplinerebbe, accanto alla c.d. "comunicazione politica", cioè la diffusione di "programmi contenenti opinioni e valutazioni politiche" (art. 2, comma 2), anche la c.d. "comunicazione istituzionale", cioè l'informazione "imparziale, neutra ed obiettiva circa il significato e la portata dei quesiti referendari". In particolare, i ricorrenti sostengono che la formazione della libera e consapevole volontà del cittadino impone alle amministrazioni pubbliche l'obbligo, costituzionalmente rilevante, di fornire, nell'ambito della campagna referendaria, una informazione "neutrale, obiettiva ed imparziale" sui contenuti dei quesiti e sul significato del "si" e del "no", in considerazione del tecnicismo delle materie, della complessità dei quesiti ed anche al fine di consentire che l'eventuale astensione dal voto sia frutto di una scelta consapevole e ragionata. Gli stessi ricorrenti ammettono però che tale obbligo informativo "lascia ampio spazio alla discrezionalità legislativa in materia", potendo esplicarsi secondo modalità anche molto diverse tra loro.

In questa prospettiva, premesso che la Corte costituzionale ha da tempo affermato che "il diritto all'informazione" va determinato e qualificato in riferimento ai principi fondanti della forma di Stato delineata dalla Costituzione, i quali esigono che "la nostra democrazia sia basata su una libera opinione pubblica e sia in grado di svilupparsi attraverso la pari concorrenza di tutti alla formazione della volontà generale" (sentenza n. 112 del 1993), va sottolineata, in relazione alla necessaria democraticità del processo politico referendario, l'esigenza che "sia offerta dal servizio pubblico radiotelevisivo la possibilità che i soggetti interessati (...) partecipino alla informazione ed alla formazione dell'opinione pubblica" in modi e forme idonei e congrui rispetto alla finalità da perseguire (sentenza n. 49 del 1998). Al riguardo deve essere tenuto altresì presente "l'imperativo costituzionale" secondo cui il diritto all'informazione, garantito dall'art. 21 della Costituzione, è qualificato e caratterizzato, innanzi tutto, dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie, cosicché il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali e politici contrastanti (cfr. sentenza n. 112 del 1993).

In questa ottica, proprio per evitare che da un'informazione unilaterale possano derivare effetti distorsivi sulla pubblica opinione, tali da ledere il fondamentale principio di garantire il "voto libero" nelle competizioni elettorali, non appare affatto irragionevole la scelta che l'informazione sul merito, cioè sul significato e la portata dei quesiti referendari -e non su dati meramente estrinseci: denominazione del referendum e modalità di voto- si svolga attraverso la partecipazione dialettica di tutti i soggetti interessati, anziché essere affidata ad un'unica fonte, per quanto impersonale, obiettiva e neutrale possa essere. Ed infatti, sebbene i ricorrenti sottolineino l'importanza concettuale del mutamento dell'espressione "propaganda istituzionale", propria della previgente legislazione, con l'espressione "comunicazione istituzionale", usata dalla legge n. 28, rimane tuttavia alto il rischio che, nella prassi operativa, la distinzione tra queste due tipologie informative possa finire con il perdersi. Ed in questo senso è significativo che il comma 2 dell'art. 9 della citata legge n. 28 del 2000 assegni alle emittenti radiotelevisive pubbliche e private il compito di informare direttamente i cittadini soltanto sulle modalità di voto e sugli orari dei seggi elettorali, proprio per evitare, stabilendo tale contenuto minimo di comunicazione, forme improprie di svolgimento di attività propagandistica, tanto più grave in considerazione dell’incidenza sul momento elettorale.

D'altronde, proprio la rilevata complessità dei quesiti elettorali induce a ritenere che ragionevolmente non sia stato affidato -come invece vorrebbero i ricorrenti- alla comunicazione "istituzionale" delle amministrazioni pubbliche il compito di chiarire "il significato e la portata dei quesiti referendari". La tecnicità dei quesiti stessi e l'individuazione precisa della c.d. normativa di risulta possono infatti porre questioni interpretative così complesse e controverse, che appare incongruo pretendere al riguardo da soggetti "istituzionali" una comunicazione imparziale ed esauriente su questi delicatissimi profili di merito, i quali invece possono essere più adeguatamente chiariti e approfonditi attraverso una informazione equilibrata che si sviluppi nel contraddittorio tra i diversi soggetti interessati, secondo modalità rimesse appunto alla discrezionalità del legislatore. Il valore del pluralismo dell'informazione, sotto il profilo passivo oltre che attivo, deve infatti trovare la massima espansione proprio nell'ambito delle competizioni elettorali, dominate dal principio della parità di opportunità tra i concorrenti.

D'altra parte, la stessa disposizione invocata dai ricorrenti a sostegno della assoluta necessità della c.d. comunicazione "istituzionale" sul significato e la portata dei quesiti referendari, e cioè l'art. 9 della citata legge n. 28 del 2000, va interpretata, nel comma 1, nel senso che il divieto alle amministrazioni pubbliche di "svolgere attività di comunicazione" durante la campagna elettorale è proprio finalizzato ad evitare il rischio che le stesse possano fornire, attraverso modalità e contenuti informativi non neutrali sulla portata dei quesiti, una rappresentazione suggestiva, a fini elettorali, dell'amministrazione e dei suoi organi titolari.

4. ― La scelta legislativa di limitare la diretta informazione radiotelevisiva alla denominazione dei quesiti e alle modalità di voto e di riservare invece precipuamente al confronto dialettico tra i soggetti interessati il chiarimento e l'approfondimento del significato e della portata dei quesiti referendari non è dunque, per le considerazioni proposte, irragionevole. Appare così destituita di fondamento l'interpretazione dei ricorrenti in ordine alla qualificazione della legge n. 28 del 2000 come attuativa di un principio in base al quale sarebbe costituzionalmente necessaria, durante le campagne referendarie, la c.d. informazione "istituzionale", vertente proprio sul merito, cioè sul significato e la portata dei quesiti. Ed appare, di conseguenza, infondata anche la censura di "cattivo uso" dei poteri spettanti alla Commissione parlamentare per l'indirizzo e la vigilanza, per non avere adeguatamente attuato, in relazione ai diversi profili della deliberazione impugnata, i principi della medesima legge.

In effetti, la deliberazione in oggetto è conforme alla ratio della citata legge n. 28, modulando la disciplina concreta della comunicazione radiotelevisiva nella campagna referendaria 2000, secondo criteri rispettosi del valore del pluralismo nell'informazione. In questo senso, va respinta la censura che gli artt. 4, comma 1, e 7, comma 2, della stessa delibera siano meramente ripetitivi dell'art. 9 della legge n. 28 e comunque insufficienti in ordine all'informazione che la concessionaria pubblica del servizio radiotelevisivo doveva fornire, in particolare, sulla facoltà dell'astensione dal voto e sulle relative conseguenze. Va in proposito ricordato, innanzi tutto, che i predetti articoli prevedono espressamente, integrando così il disposto dell'art. 9, che la Rai illustri imparzialmente, con diverse tipologie di trasmissione, il contenuto dei quesiti referendari, oltre ad informare sulle modalità di votazione, sulla data e sugli orari della consultazione. Risulta poi dalla documentazione presentata dalla difesa della Commissione parlamentare non solo che l'identificazione in dettaglio di contenuti e modalità dell'informazione avveniva sotto la vigilanza della Commissione stessa, ma anche che vi era una costante sottolineatura delle condizioni necessarie per la validità delle consultazioni referendarie.

Così pure va respinta la censura, relativa all'art. 1, comma 2, di mancata concessione di spazi radiotelevisivi ai sostenitori dell'astensione, poiché risulta dalla documentazione prodotta che la disposizione in questione, la quale riguarda espressamente, come riconoscono gli stessi ricorrenti, la comunicazione "politica", è stata attuata in modo tale che lo spazio concesso ai soggetti favorevoli ed a quelli contrari all'abrogazione non esaurisse affatto tutta l'informazione sui singoli quesiti referendari.

Sono infondate altresì le censure, relative all'art. 2, comma 1, lett. c) e d), sia di carenza di criteri in ordine alla responsabilità delle testate giornalistiche, sia di insufficiente programmazione di trasmissioni di approfondimento e di dibattito, in quanto tutte queste doglianze sono riferibili all'ambito dei "programmi di informazione" nei mezzi radiotelevisivi, disciplinati dall'art. 5, comma 1, della legge n. 28, che non prevede una rigida predeterminazione di criteri e contenuti informativi, risultando comunque dalla documentazione presentata in giudizio che la Commissione parlamentare aveva stabilito i necessari criteri procedurali e costantemente verificato che l'attività informativa della concessionaria pubblica si svolgesse secondo canoni di comportamento e modalità operative corrispondenti.

5. ― E' da rilevare infine che, in base alle motivazioni adottate nella presente decisione, risultano manifestamente infondati i dubbi di legittimità costituzionale prospettati in via gradata dai ricorrenti in ordine agli artt. 5, comma 1, e 9 della citata legge n. 28 del 2000, cosicché viene meno uno dei presupposti perché la Corte possa accogliere la proposta istanza di autoremissione della relativa questione di costituzionalità.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara che spetta alla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi adottare la disciplina contenuta negli artt. 1, comma 2, 2, comma 1, lettere c) e d), 7, comma 2, della deliberazione approvata il 29 marzo 2000, recante "Comunicazione politica, messaggi autogestiti, informazione e tribune della concessionaria del servizio radiotelevisivo pubblico per la campagna referendaria 2000".

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 novembre 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Piero Alberto CAPOTOSTI, Redattore

Depositata in cancelleria il 17 novembre 2000.