Sentenza n. 75/2000

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 75

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici

- Francesco GUIZZI, Presidente

- Cesare MIRABELLI

- Massimo VARI

- Cesare RUPERTO

- Riccardo CHIEPPA

- Gustavo ZAGREBELSKY

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE

- Fernanda CONTRI

- Guido NEPPI MODONA

- Piero Alberto CAPOTOSTI

- Annibale MARINI

- Franco BILE

- Giovanni Maria FLICK

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 17, della legge 15 maggio 1997, n. 127 (Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo) promossi con 3 ordinanze emesse il 30 aprile 1998 dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, rispettivamente iscritte ai nn. 825, 833 e 834 del registro ordinanze 1998 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 1998.

 Visto l’atto di costituzione del Comune di Venezia nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 udito nell’udienza pubblica del 22 febbraio 2000 il Giudice relatore Cesare Ruperto;

 uditi l’avv.to Maria Morino per il Comune di Venezia e l’Avvocato dello Stato Giuseppe Nucaro per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

 1.- Nel corso di tre distinti giudizi, di analogo oggetto, in cui i ricorrenti, dipendenti comunali, avevano chiesto l’annullamento delle delibere con le quali, in adempimento al disposto dell’art. 6, comma 17, della legge 15 maggio 1997, n. 127, la Giunta comunale aveva annullato le deliberazioni concernenti il loro inquadramento (in quanto effettuato in difformità dal d.P.R. n. 347 del 1983), contestualmente indicendo i concorsi interni per la copertura dei posti in tal modo resisi vacanti, il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, con tre identiche ordinanze - emesse tutte in data 30 aprile 1999 - ha sollevato, in riferimento agli artt.3, 5, 24, 97 e 128 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 17, della legge citata.

 Osserva anzitutto il rimettente che l’art. 3, comma 6- bis, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, introdotto dalla legge 28 ottobre 1994, n. 596, di conversione del decreto-legge 27 agosto 1994, n. 515 - disposizione dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 1 del 1996 - recitava: «I provvedimenti deliberativi riguardanti il trattamento del personale degli enti locali che, adottati prima del 31 agosto 1993, abbiano previsto profili professionali od operato inquadramenti in modo difforme dalle disposizioni contenute nel d.P.R. 25 giugno 1983, n. 347, e successive modificazioni e integrazioni, sono validi ed efficaci.

 La disposizione del presente comma si applica agli enti locali ancorché dissestati i cui organici, per effetto dei provvedimenti di cui sopra, non superino i rapporti dipendenti-popolazione previsti dal comma 14 del presente articolo, così come modificato dall'art. 2 del decreto-legge 27 agosto 1994, n. 515».

 La Corte costituzionale aveva ritenuto - rileva il TAR - che l'ampiezza della disposizione realizzasse una sorta di "sanatoria in bianco" per tutti i provvedimenti illegittimi, cioè non conformi al d.P.R. n. 347 del 1983, e dunque ne vanificasse la finalità di operare una razionale organizzazione degli uffici, osservando come la citata disposizione fosse troppo ampia ed indeterminata, tale da non consentire di distinguere i provvedimenti sanati e da realizzare invece una negazione del principio di buon andamento e di razionale organizzazione dell'attività amministrativa. Inoltre l'effetto premiale realizzava un ingiusto vantaggio per autori e beneficiari dei provvedimenti illegittimi, dava un esempio dì "diseducazione civile" e causava una lesione della regola del concorso e delle relative garanzie di efficienza.

 Secondo la tesi del rimettente, la stessa Corte costituzionale avrebbe osservato come non sarebbe ben chiara l'ampiezza degli effetti della disposizione di sanatoria dichiarata incostituzionale. Ad avviso di lui, essa era applicabile soprattutto ai casi di provvedimenti degli enti locali annullati dagli organi di controllo o dal giudice amministrativo, o impugnati davanti a quest'ultimo; mentre più difficilmente sarebbe ipotizzabile che la norma potesse applicarsi anche a provvedimenti esecutivi ormai divenuti inoppugnabili.

 Ma il legislatore, con la norma impugnata (contenuta nell'art. 6, comma 17, della legge n. 127 del 1997) avrebbe equivocato la portata e il significato della pronuncia della Corte, e avrebbe rimesso in discussione tutti i provvedimenti di inquadramento del personale degli enti locali, ordinando a questi ultimi di autoannullare quelli difformi dal d.P.R. n. 347 del 1983 e dagli accordi collettivi successivi fino al d.P.R. n. 333 del 1990 (che è l'ultimo accordo collettivo adottato in base all'abrogata legge quadro del pubblico impiego n. 93 del 1983, prima della privatizzazione e della contrattualizzazione disposta dal decreto legislativo n. 29 del 1993 e successive modificazioni).

 Una disposizione legislativa così vincolante e così generale sembra al TAR del Veneto incorrere, anch'essa, ed ancor più di quella censurata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 1 del 1996, nella violazione di alcuni principi costituzionali, e precisamente:

 1) degli articoli 3 e 97 Cost., perché una norma di tale ampiezza ed "impatto" su posizioni giuridiche da tempo consolidate rappresenta essa stessa la negazione dei princìpi di buon andamento e di razionale e coerente azione amministrativa, che si esprimono nella regola per cui l'autotutela va esercitata non solo per il formale ripristino della legalità violata, ma tenendo conto anche delle esigenze di pubblico interesse e del consolidamento delle situazioni giuridiche soggettive, come effetto del tempo trascorso (in proposito vengono richiamate le sentenze n. 459 del 1994 e n. 236 del 1992 della Corte costituzionale);

 2) ancora degli stessi articoli 3 e 97 Cost., per la violazione dei princìpi di efficienza e di razionalizzazione organizzativa, essendo imposto autoritativamente uno strumento amministrativo ormai difforme dalla disciplina privatistica e contrattualistica che governa il pubblico impiego dopo il decreto legislativo n. 29 del 1993 e successive modificazioni;

 3) degli articoli 5 e 128 Cost., perché appare violato il principio di autonomia degli enti locali, essendo loro imposto l'utilizzo vincolato di uno strumento, l'autotutela, che per principio dovrebbe essere affidato a valutazioni discrezionali nel suo esercizio;

 4) degli artt. 3 e 24 Cost., per la disparità di trattamento e la deteriore tutela giudiziaria che vengono a colpire coloro che hanno beneficiato di inquadramenti in base ai tre accordi collettivi sopra citati ed il restante personale (inquadrato in base a normative diverse), nonché tra coloro che possono partecipare ai concorsi interni per la copertura dei posti resisi vacanti a seguito dell'annullamento dei provvedimenti di inquadramento e coloro che non possono parteciparvi per la mancanza dei requisiti previsti dall'ultimo comma dell'articolo 6, comma 17.

 Su tali punti il giudice a quo osserva:

 a) che la finalità di giustizia sostanziale e di adeguamento alla pronuncia della Corte costituzionale appare eccessiva e comunque indeterminata nei suoi effetti, perché, mentre la citata norma - di "sanatoria in bianco" - dichiarata incostituzionale incideva su provvedimenti invalidi o inefficaci, l'autotutela obbligatoria e straordinaria incide invece su provvedimenti allo stato validi ed efficaci, la cui invalidità è ancora da dimostrare;

 b) che la valutazione di conformità o difformità degli inquadramenti rispetto ai citati accordi collettivi è pur sempre affidata ad interpretazioni delle norme contrattuali che non sono affatto scontate, che hanno prodotto a suo tempo notevole contenzioso e che in prospettiva altro ne produrranno rinviando nel tempo la definizione di situazioni sino ad oggi basate su atti ritenuti inoppugnabili;

 c) che l'esercizio vincolato dell'autotutela va ad incidere su posizioni ormai consolidate e che traggono il loro fondamento da provvedimenti spesso molto risalenti nel tempo, in evidente violazione dei princìpi di affidamento e di garanzia che limitano l'esercizio dell'autotutela;

 d) che l'azzeramento di tali posizioni non può non riflettersi sulla funzionalità degli uffici, con pregiudizio quindi del pubblico interesse;

 e) che neppure l'obbligo imposto agli enti locali di bandire, contestualmente all'annullamento dei provvedimenti di inquadramento, i concorsi per i posti resisi vacanti appare una misura equa e idonea ad evitare un irrimediabile pregiudizio alle posizioni dei dipendenti che dopo molti anni, in una situazione ampiamente consolidata, rischiano di perdere il posto occupato, in quanto non tutti i dipendenti sono (come accade nel caso di specie) in possesso dei requisiti per partecipare a detti concorsi;

 f) che anche per coloro i quali possiedono i requisiti per partecipare ai concorsi interni, il sistema di nuova copertura dei posti in tal modo resisi vacanti si profila alquanto aleatorio ed il pregiudizio irreparabile non è escluso, atteso che, nell'eventualità che essi non risultino vincitori dei concorsi interni, la loro sorte all'interno dell'amministrazione resterebbe indefinita, non essendo indicato in quale posizione della pianta organica essi andrebbero a ricollocarsi;

 g) che il danno per chi non riuscisse a recuperare la posizione con il concorso interno è comunque maggiore di quello che avrebbe comportato un annullamento tempestivo dell'inquadramento, in quanto, negli anni trascorsi sino ad oggi, l'affidamento riposto su provvedimenti inoppugnabili e consolidati può averli indotti a trascurare altre possibilità o opportunità di carriera che altrimenti avrebbero potuto perseguire;

 h) che sussiste disparità di trattamento tra i dipendenti in servizio, colpiti dalla revisione obbligata dell'inquadramento, ed i colleghi in pensione, che non subiscono alcuna conseguenza negativa pur trovandosi nella identica situazione rispetto alla finalità della norma (ripristino della legalità violata).

 In definitiva, mentre sarebbe ragionevole e giustificato sul piano costituzionale paralizzare sanatorie destinate a perpetuare la pratica della legittimazione a posteriori di atti illegittimi, sarebbe invece grave e contrario ai princìpi costituzionali il fatto di obbligare l'amministrazione a rimettere in discussione, senza limiti di tempo, i «provvedimenti di inquadramento del personale adottati in modo difforme dalle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 25 giugno 1983 n. 347 e successive modificazioni ed integrazioni», imponendole di rivedere ex novo atti consolidati il cui annullamento non sarebbe una diretta conseguenza della pronuncia n. 1 del 1996 della Corte costituzionale quanto piuttosto l'effetto, probabilmente mal valutato e dilatato, di un principio (l'agire secundum legem ed il suo corollario, rappresentato dalla necessità del ripristino della legalità violata) che la giurisprudenza amministrativa e la stessa Corte costituzionale ritengono attuabile solo ove compatibile con il principio, di pari dignità e rilievo, della certezza dei rapporti giuridici e della inoppugnabilità degli atti amministrativi, i quali non a caso sono assistiti dalla presunzione della loro legittimità, al punto che persino per l'esercizio dell'autotutela finalizzata all'annullamento di atti illegittimi si richiede la sussistenza di ragioni di interesse pubblico concrete ed attuali che non siano rappresentate dal puro fine astratto di ristabilire ad ogni costo la legalità violata.

 Né il Collegio rimettente ritiene si possa obiettare che chi ha violato la legge ha comunque conseguito un vantaggio ingiusto a danno di coloro i quali l'abbiano invece osservata, perché, anche a prescindere dalle situazioni, assai frequenti, in cui la violazione della legge non è evidente ma rappresenta l'esito ultimo dell'applicazione di norme confuse, di situazioni complesse e di orientamenti conflittuali della giurisprudenza, che magari solo a distanza di anni trovano una loro affermazione univoca, è anche noto che il sistema possiede strumenti di controllo della legittimità degli atti, certamente imperfetti e fallibili, ma comunque idonei a conferire ai provvedimenti amministrativi la stabilità e la certezza che è essenziale per fondare su di essi rapporti giuridici stabili e non esposti al mutevole orientamento delle amministrazioni, e perfino del legislatore.

 Appare in conclusione evidente al TAR che, nel momento in cui il legislatore impone all'amministrazione di rivedere tutti i provvedimenti adottati in un determinato settore, con la finalità generica di annullare gli atti illegittimi, non solo egli ricade in quello che il medesimo rimettente definisce «lo stesso errore di metodo già censurato dalla Corte costituzionale» (intervento esteso ad atti indefiniti ed indifferenziati), ma viene ad invadere i poteri riservati alla pubblica amministrazione sotto il duplice profilo del condizionamento della funzione di amministrazione attiva (obbligo di provvedere), di quella di controllo (configurazione di vizi ipotetici non riscontrati da alcuno e sollecitazione a rimuoverli) e di quella giurisdizionale, (se ed in quanto l’intervento comporti, com’è possibile, la revisione di atti adottati in seguito a pronuncia giurisdizionale).

 2.- E’ intervenuto in tutti e tre i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, che ha concluso per la declaratoria d’infondatezza della questione.

 Osserva anzitutto l’Avvocatura che la norma impugnata non ha un’efficacia retroattiva illimitata, ma si estende soltanto ai provvedimenti difformi dal d.P.R. n. 347 del 1983 e dagli accordi collettivi successivi fino al d.P.R. n. 333 del 1990 (che ha recepito l’ultimo accordo collettivo adottato in base all’abrogata legge-quadro n. 93 del 1983). Inoltre la norma ha anche un’efficacia differita al 30 settembre 1998, per meglio consentire agli enti locali di adeguare la propria organizzazione interna e prevede altresì che, fino allo svolgimento dei concorsi, al dipendente illegittimamente inquadrato che continui a svolgere mansioni superiori venga corrisposto il relativo trattamento economico.

 In definitiva, l’art. 6, comma 17, si pone ­ secondo l’Avvocatura - come norma di principio per gli enti locali ed intende ridisegnare i meccanismi di gestione del personale da parte degli stessi, senza disconoscerne l’autonomia. Resta infatti ferma la piena libertà degli enti di disciplinare il funzionamento dei propri uffici, nonché le modalità di assunzione agli impieghi, i requisiti di accesso e le procedure concorsuali, come confermato dal comma 9 della medesima disposizione.

 L’Avvocatura richiama infine le finalità di giustizia sostanziale perseguite attraverso la norma impugnata in ossequio al decisum della più volte citata sentenza. n. 1 del 1996, rilevando altresì come anche alla stregua della sopravvenuta, e vigente, disciplina del pubblico impiego nessun dipendente pubblico abbia diritto ad avanzamenti automatici nell’inquadramento professionale per il solo fatto di aver svolto mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza.

 3.- Nel solo giudizio introdotto dall’ordinanza n. 825 del 1998 si è costituito il Comune di Venezia, insistendo per la declaratoria d’infondatezza della questione.

 Con memoria presentata nell’imminenza dell’udienza esso Comune, dopo un’ampia premessa in fatto, sostiene che sono stati rispettati dal legislatore i princìpi fatti valere nella sentenza n. 1 del 1996 di questa Corte, e contesta la prospettazione del rimettente, sia che si voglia seguire la tesi di questi qualificando la norma impugnata come un caso di autotutela obbligatoria, sia che si tratti (come la stessa parte ritiene) di una normale ipotesi di annullamento di ufficio, come tale discrezionale.

 Secondo quest’ultima ottica, la norma impugnata non potrebbe imporre un "autoannullamento dovuto", in difetto di provvedimenti d’inquadramento dichiarati illegittimi dal giudice ordinario o contabile (esclusive ipotesi in cui la dottrina configura l’obbligo di annullamento); nella specie, infatti, si sarebbe in presenza di provvedimenti soltanto "difformi".

 Peraltro, anche a voler seguire la prospettiva del rimettente, la parte ricorda come il nostro ordinamento conosca ipotesi di autoannullamento dovuto per legge, imposto anche a distanza di tempo dall’instaurarsi del rapporto illegittimo, senza che ciò venga a configurare la violazione degli evocati parametri costituzionali.

Considerato in diritto

 1.- Con tre ordinanze di identico contenuto il TAR per il Veneto dubita della legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 17, della legge 15 maggio 1997, n. 127, nella parte in cui prevede che gli enti locali «sono tenuti ad annullare i provvedimenti di inquadramento del personale adottati in modo difforme dalle disposizioni del d.P.R. 25 giugno 1983, n. 347 e successive modificazioni e integrazioni, e a bandire contestualmente i concorsi per la copertura dei posti resisi disponibili per effetto dell'annullamento». Il giudice rimettente individua molteplici profili di contrasto con diverse norme costituzionali, e in particolare:

a) con gli artt. 3 e 97 Cost., poiché il principio di buon andamento della pubblica amministrazione risulterebbe compromesso dall’incidenza su posizioni da tempo consolidate, anche a causa dell’incertezza giuridica insita nella valutazione di difformità degli inquadramenti. Tale effetto sarebbe stato raggiunto dal legislatore attraverso l’imposizione di un uso vincolato dello strumento dell’autotutela - la quale dovrebbe invece esercitarsi discrezionalmente, non solo per ripristinare la legalità violata ma anche valutando le esigenze di pubblico interesse legate al consolidamento delle posizioni in ragione del tempo trascorso - in contraddizione con le rationes della nuova disciplina del pubblico impiego, così introducendosi nel sistema un elemento di distorsione della funzionalità degli uffici, lesivo del principio di affidamento, con ulteriore violazione degli evocati parametri;

b) con gli artt. 5 e 128 Cost., in quanto l’esercizio obbligatorio dell’autotutela pregiudicherebbe l’autonomia degli enti locali;

c) con gli artt. 3 e 24 Cost., per la disparità di trattamento e la diversità della tutela giudiziaria riservate al personale interessato agli inquadramenti difformi dal d.P.R. n. 347 del 1983 rispetto ai dipendenti inquadrati in base a normative diverse, nonché, sotto altro profilo, tra coloro che possono partecipare ai concorsi interni per la copertura dei posti vacanti e coloro che si vedono preclusa tale possibilità per mancanza dei titoli richiesti.

 2.- La questione non è fondata.

 2.1.- Punto di riferimento necessario per intendere la genesi della denunciata norma è la sentenza di questa Corte n. 1 del 1996, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 6-bis, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, introdotto dalla legge 28 ottobre 1994, n. 596, di conversione del decreto-legge 27 agosto 1994, n. 515. Tale norma rendeva validi ed efficaci i provvedimenti, adottati prima del 31 agosto 1993 e relativi ai dipendenti degli enti locali, che avessero previsto profili professionali ed operato i conseguenti inquadramenti in modo difforme dalle disposizioni contenute nel succitato d.P.R. n. 347 del 1983.

 Nel corso dei lavori preparatori della legge in esame (recante misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo), la prima Commissione permanente della Camera dei deputati aveva proposto un emendamento (al testo trasmesso dal Senato), in cui si prevedeva la convalida dei provvedimenti che avessero disposto i suddetti inquadramenti, con deliberazione consiliare che esplicitasse analiticamente le ragioni e i presupposti dei profili conferiti e degli inquadramenti operati (cfr. atti Camera 3 aprile 1997, emendamento n. 8.220). A causa delle perplessità emerse durante la discussione circa la legittimità costituzionale di tale norma, il Governo recepiva quasi integralmente il contenuto di un altro emendamento, corrispondente all’attuale formulazione della norma (salvo che per il punto in cui veniva richiesto per i partecipanti ai concorsi interni il possesso del titolo di studio occorrente per l’accesso alla qualifica), proponendo a sua volta un subemendamento, poi approvato nella seduta dell’8 aprile 1997 (cfr. atti Camera, subemendamento n. 8.220.2). Nell’illustrazione del nuovo testo venne sottolineato che esso mirava a stabilire il principio della non automaticità della convalida, che deve essere preceduta da una prova selettiva.

 Non ottenne invece la maggioranza il testo che - avendo presente la decisione della Corte, richiamata dal presentatore - richiedeva maggior rigore nella selezione, sulla base d’un adeguato titolo di studio.

 Un dato ulteriore, di cui non si può non tener conto, è poi ravvisabile nella stessa collocazione della norma, inserita in un provvedimento legislativo che, unitamente alla legge 15 marzo 1997 n. 59, rende ancora più esplicito il globale processo di riforma del nuovo modello di organizzazione dell’apparato amministrativo (v. sentenza n. 309 del 1997).

 2.2.- Ciò premesso, va posta in evidenza la valorizzazione delle autonomie locali operata dalla legge n. 127 del 1997, in sintonia con quanto sopra riferito, anche nell’àmbito della gestione del personale. In particolare, il comma 9 dello stesso articolo in cui figura la denunciata norma (poi trasfuso nell’art. 36-bis del decreto legislativo n. 29 del 1993, in contemporanea con l’abrogazione dell’art. 41 del medesimo decreto legislativo - che il citato comma 9 integrava - disposta dall’art. 43, comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80) attribuisce al regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi un'ampia gamma di contenuti, che vanno dalle piante organiche alle modalità di assunzione, ai requisiti di accesso all’impiego.

 Il giudice a quo ravvisa nella denunciata norma l’imposizione di un esercizio vincolato dell’autotutela, stante l’obbligo di annullare i provvedimenti d’inquadramento senza alcun margine di discrezionalità, con compressione dell’autonomia degli enti locali, in contrasto dunque con la surrilevata tendenza legislativa ad accentuarne i poteri. Mentre invece, secondo il rimettente, l’autotutela andrebbe esercitata «non solo per il formale ripristino della legalità violata, ma tenendo conto anche delle esigenze di pubblico interesse e del consolidamento delle situazioni giuridiche soggettive, come effetto del tempo trascorso».

 Osserva in proposito la Corte che, anzitutto, non è esatto ridurre ad un caso di esercizio obbligatorio dell'autotutela quella che invece costituisce la determinazione d’una serie di adempimenti imposti alle amministrazioni locali, tutti funzionali al definitivo riassetto degli inquadramenti del personale in modo conforme a legge, attraverso un'attività vincolata, in difetto della quale viene espressamente prevista la necessità della nomina di un commissario ad acta nell'art. 17, comma 45, della stessa legge n. 127 del 1997. Ma, a parte ciò, occorre considerare che, in via di principio, il momento discrezionale del potere della pubblica amministrazione di annullare i propri provvedimenti non gode in sé di una copertura costituzionale. Lo strumento dell’autotutela deve sempre essere valutato nel quadro dei princìpi di imparzialità, di efficienza e, soprattutto, di legalità dell’azione amministrativa, espressi dall’art. 97 Cost.

 Tanto basta per escludere la prospettata violazione degli artt. 5 e 128 Cost.; e vale inoltre per chiarire quanto sùbito si dirà con riferimento all'art. 3, evocato sotto il profilo della ragionevolezza, ed all'art. 97 Cost., anch'essi da ritenersi rispettati dalla denunciata norma.

 2.3.- La previsione d’un potere-dovere di annullamento dei provvedimenti che avevano disposto gli inquadramenti illegittimi, lungi dal rappresentare «un elemento di distorsione della funzionalità degli uffici», come sostiene il TAR rimettente, si configura invece quale elemento fondante dell’azione amministrativa (in quanto corollario del principio di legalità), tra i cui fini deve intendersi compreso quello di evitare il consolidarsi di situazioni costituitesi contra legem: che è appunto il fine del legislatore del 1997, esplicitamente enunciato durante l’iter parlamentare sopra descritto, in coerenza con quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 1 del 1996.

 Esaminando tale decisione, il giudice a quo opina che sia stata la vastità dei provvedimenti oggetto della sanatoria a costituire la vera ragione della declaratoria d’illegittimità costituzionale della norma allora denunciata, e ne inferisce l’illegittimità della nuova norma, siccome viziata dalla stessa indeterminatezza. Ma, così, egli non coglie nel segno.

 Premesso, infatti, che l’individuazione tipologica dei provvedimenti da annullare è problema interpretativo concernente l’applicazione, e non la legittimità costituzionale della norma, osserva la Corte come sia ovvio che questa esibisca la medesima latitudine della norma di sanatoria allora caducata. Considerato cioè che gli inquadramenti difformi non sono più validi, appare del tutto logico prevedere che siano questi stessi a dover essere annullati: in un coerente continuum con le affermazioni di questa Corte, la quale, con la più volte citata sentenza, censurò l’ampiezza del provvedimento legislativo di sanatoria non già per se stessa, bensì in quanto preclusiva dell’individuazione di una qualsivoglia ratio (che non fosse la mera sanatoria) e, conseguentemente, della necessaria verifica di compatibilità - ai fini di un eventuale bilanciamento - tra il principio di buon andamento e tale ipotetica ratio.

 In ordine all'ulteriore profilo, sempre con riferimento ai suindicati due parametri, secondo cui la norma esprimerebbe una logica ormai difforme dalla disciplina privatistica che governa il pubblico impiego, è appena il caso di rilevare come proprio il decreto legislativo n. 29 del 1993 - richiamato dal rimettente a sostegno della sua tesi - costituisca attuazione delle direttive della delega contenuta nella legge 23 ottobre 1992, n. 421, cioè di norme fondamentali di riforma economico-sociale (v. sentenza n. 59 del 1997), e sia ispirato, in parte qua, a princìpi del tutto antitetici a quelli posti a base degli inquadramenti illegittimi. L’art. 56 di tale decreto legislativo espressamente esclude, al primo comma, che l’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica d’appartenenza possa avere effetto ai fini dell’inquadramento del lavoratore. E il divieto è ribadito altresì all’ultimo comma, nel testo modificato dall’art. 15 del decreto legislativo 29 ottobre 1998, n. 387, in conformità al principio, immediatamente derivabile dall’art. 97 Cost., per cui ogni incremento del personale deve sempre dipendere dalla preventiva e condizionante valutazione delle oggettive necessità di personale, la quale si traduce nella definizione delle piante e delle dotazioni organiche (v. sentenze n. 1 e n. 205 del 1996); queste ultime costituiscono infatti un limite non valicabile all’esercizio dello ius variandi nel settore pubblico.

 Privo di significato appare poi il generico riferimento alla disciplina di matrice contrattualistica, la quale, in ragione delle coordinate legislative entro cui si muove e del sistema dei controlli che le è proprio, oltre che per la peculiarità della fonte, appunto di natura pattizia, non si presta ad essere in alcun modo utilizzata come argomento a sostegno della tesi del rimettente.

 2.4.- Con riguardo agli ultimi parametri congiuntamente evocati, cioè gli artt. 3 e 24 Cost., è da negare in radice l’omogeneità di situazioni tra chi si sia giovato degli anzidetti inquadramenti illegittimi e chi abbia invece visto il proprio rapporto disciplinato da altre normative; con conseguente esclusione della prospettata disparità di trattamento.

 A identica conclusione deve pervenirsi in merito al raffronto con il personale in quiescenza (cui sarebbe inapplicabile il disposto annullamento), attesa l’evidente diversità delle rispettive posizioni, anche a prescindere dall’esattezza del presupposto.

 Per quanto concerne infine il sistema dei concorsi interni - dei quali il rimettente afferma l’inidoneità ad evitare un pregiudizio ai dipendenti, sia per l’alea che egli ravvisa nel predetto sistema, sia a causa dell'asserita posizione deteriore di coloro che non possono parteciparvi per mancanza del titolo di studio minimo richiesto (posizione comparata con quella degli aventi diritto al concorso) -, è sufficiente osservare, in aggiunta a quanto già sopra chiarito: a) che non si vede come il normale margine di rischio insito in ogni prova selettiva possa fondare, in riferimento ad un possibile esito negativo, il prospettato dubbio di violazione dell'art. 24 Cost.: parametro, questo, oltretutto evocato senza una specifica motivazione, limitandosi il rimettente a paventare una "deteriore tutela giudiziaria" per coloro che abbiano beneficiato degli inquadramenti in questione e non possano partecipare ai concorsi; b) che, all’evidenza, non sono comparabili le situazioni dei dipendenti a seconda che essi possiedano il titolo di studio richiesto o ne siano privi, com’è il caso dei ricorrenti dinanzi al TAR per il Veneto (rispetto ai quali, d’altronde, la denunciata norma prevede già una disciplina di largo favore, richiedendo solo in alternativa il servizio quinquennale nella qualifica inferiore o il possesso del titolo immediatamente inferiore a quello prescritto, laddove il testo originariamente proposto prevedeva cumulativamente entrambi tali requisiti).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 17, della legge 15 maggio 1997, n. 127 (Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo), sollevata, in riferimento agli artt.3, 5, 24, 97 e 128 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 marzo 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Cesare RUPERTO, Redattore

Depositata in cancelleria il 22 marzo 2000.