Sentenza n. 58

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Sentenza n. 58

 

Anno 1997

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

 

-          Dott. Renato GRANATA

 

-          Prof. Giuliano VASSALLI

 

-          Prof. Francesco GUIZZI

 

-          Prof. Cesare MIRABELLI

 

-          Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

-          Avv. Massimo VARI

 

-          Dott. Cesare RUPERTO

 

-          Dott. Riccardo CHIEPPA

 

-          Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

 

-          Prof. Valerio ONIDA

 

-          Prof. Carlo MEZZANOTTE

 

-          Avv. Fernanda CONTRI

 

-          Prof. Guido NEPPI MODONA

 

-          Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 2 della legge 30 gennaio 1963, n. 300 (Ratifica ed esecuzione della convenzione europea di estradizione, firmata a Parigi il 13 dicembre 1957), con riguardo agli articoli 8 e 9 di detta convenzione, promosso con ordinanza emessa il 5 settembre 1996 dalla Corte di Cassazione sul ricorso proposto da Priebke Erich, iscritta al n. 1212 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 45, prima serie speciale dell'anno 1996;

 

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 27 novembre 1996 il Giudice relatore Valerio Onida.

 

Ritenuto in fatto

 

1.-La Corte di cassazione, pronunciandosi su di un ricorso promosso avverso i provvedimenti di convalida dell'arresto provvisorio a fini di estradizione, eseguito ai sensi dell'art. 715 cod. proc. pen. dalla polizia giudiziaria, e di applicazione della misura coercitiva della detenzione in carcere, adottati nei confronti di un imputato sottoposto a processo penale in Italia per lo stesso fatto a cui si riferisce la richiesta di estradizione, ha sollevato d'ufficio questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 24, secondo comma, 25, primo comma, e 112 della Costituzione, della legge 30 gennaio 1963, n. 300 (Ratifica ed esecuzione della convenzione europea di estradizione, firmata a Parigi il 13 dicembre 1957), "a riguardo degli artt. 8 e 9 di detta convenzione".

 

Rileva la Corte remittente che propedeutica all'esame di vari motivi del ricorso appare la verifica richiesta dall'art. 714, comma 3, cod. proc. pen. - applicabile in tutti i casi di estradizione, anche se regolati pattiziamente - secondo il quale le misure cautelari coercitive non possono comunque essere disposte "se vi sono ragioni per ritenere che non sussistono le condizioni per una sentenza favorevole all'estradizione".

 

Nella specie - osserva il giudice a quo - è pacifico che la richiesta di estradizione riguarda gli stessi fatti (l'eccidio delle Fosse Ardeatine, avvenuto in Roma il 24 marzo 1944) per i quali si procede penalmente in Italia nei confronti della persona di cui è chiesta l'estradizione (era già stata pronunciata sentenza di merito in primo grado, peraltro dichiarata nulla successivamente all'ordinanza di rimessione, onde il processo è tornato allo stadio del rinvio a giudizio dell'imputato, in attesa di processo). La normativa specificamente applicabile non sarebbe tuttavia quella-risultante dall'art. 705, comma 1, ultima parte, dei codice di rito, che vieta, fra l'altro, la pronuncia di sentenza favorevole all'estradizione ove per lo stesso fatto sia in corso procedimento penale in Italia, poiché su di essa prevarrebbe la normativa pattizia risultante dalla combinazione degli artt. 8 e 9 della convenzione europea di estradizione, resa esecutiva in Italia con la legge n. 300 del 1963, dalla quale emerge che l'estradizione può essere rifiutata quando la persona reclamata sia oggetto nello Stato richiesto di procedimenti penali per i fatti per i quali l'estradizione è domandata (art. 8), mentre l'estradizione non è accordata quando la persona richiesta è stata giudicata in via definitiva dalle autorità competenti della parte richiesta per i fatti per i quali l'estradizione è domandata (art. 9).

 

Nell'ordinanza si afferma che secondo tale sistema normativo il ricorrente potrebbe essere estradato per rispondere degli stessi fatti per i quali egli è sottoposto a giudizio in Italia, e che la decisione sull'accoglimento o meno della richiesta di estradizione spetterebbe, secondo la giurisprudenza uniforme della stessa Corte di cassazione, al Ministro di grazia e giustizia, il quale deciderebbe a discrezione, senza essere vincolato a (o anche solo indirizzato da) criteri o parametri normativa, rendendosi così evanescente la garanzia giurisdizionale, che pure assiste tutto il procedimento di estradizione.

 

Tale sistema normativa sarebbe, secondo il giudice remittente, lesivo anzitutto del diritto di difesa di cui all'art. 24, secondo comma, della Costituzione, poiché, non essendo possibile l'abbandono del procedimento nel nostro Stato, per il principio di irretrattabilità dell'azione penale, la persona sottoposta a tale processo, una volta estradata, non sarebbe più in grado di difendersi personalmente partecipando al processo medesimo. Né si potrebbe eccepire -la possibilità di riestradizione o di sospensione del processo per legittimo impedimento dell'imputato: da un lato, infatti, sarebbe interesse costituzionalmente protetto quello dell'accusato di veder decisa la controversia in tempi ragionevoli; dall'altro lato, la decisione penale definitiva cui si pervenga nello Stato richiedente renderebbe giuridicamente impraticabile l'ulteriore prosecuzione del giudizio in Italia, opponendosi il principio dei ne bis in idem internazionale, enunciato dall'art. 9 della convenzione europea di estradizione.

 

In secondo luogo, secondo il giudice a quo, la normativa applicabile sarebbe in contrasto col divieto di distrazione dal giudice naturale precostituito per legge, di cui all'art. 25, primo comma, della Costituzione, perché la discrezionale determinazione dell'autorità politico-amministrativa risulterebbe capace di sottrarre l'imputato al giudice precostituito per legge, già individuato attraverso la celebrazione del processo.

 

In terzo luogo, si avrebbe violazione del principio di irretrattabilità dell'azione penale, corollario indefettibile della regola dell'obbligatorietà dell'azione penale, di cui all'art. 112 della Costituzione, perché, per effetto della discrezionale decisione dell'autorità politico-amministrativa, con l'esecuzione dell'estradizione il giudizio verrebbe consumato nello Stato richiedente, sicché il processo penale in Italia dovrebbe essere abbandonato.

 

La Corte remittente ritiene che la predetta situazione di contrasto con i principi costituzionali costituisca il frutto del recepimento nell'ordinamento giuridico italiano delle due richiamate disposizioni (articoli 8 e 9) della convenzione europea di estradizione, sicché il vizio di incostituzionalità si appunterebbe sugli articoli 1 e 2 della legge di autorizzazione alla ratifica e di esecuzione, per la parte in cui essa ha recepito nella nostra legislazione norme in contrasto con l'ordine costituzionale, che condiziona anche l'esercizio delle potestà dei soggetti pubblici attraverso le quali si realizza la cooperazione internazionale ai fini della mutua assistenza giudiziaria.

 

Rileva il giudice a quo che l'art. 705, comma 1, ultima parte, cod. proc. pen., individua il corretto meccanismo cui dovrebbero - e, nel caso di accoglimento della questione, dovranno - attenersi sia l'organo giurisdizionale che quello politico-amministrativo, vale a dire la reiezione della richiesta di estradizione quando sia già stata esercitata in Italia l'azione penale per gli stessi fatti per i quali l'estradizione stessa è domandata: tanto più quando, come nella specie, i fatti siano stati commessi in Italia e in danno di cittadini italiani, così che l'estradizione implicherebbe anche una deroga alla disposizione di cui all'art. 11, primo comma, cod. pen., che prevede in tal caso il rinnovamento del giudizio nello Stato anche quando l'imputato sia stato giudicato all'estero.

 

In punto di rilevanza, la Corte remittente osserva che a seguito dell'eventuale accoglimento della questione verrebbe meno la possibilità giuridica dell'estradizione richiesta, sicché dovrebbe riconoscersi l'inesistenza del presupposto di legittimità per l'applicazione della misura coercitiva provvisoria adottata ed impugnata.

 

2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata.

 

L'Avvocatura osserva che la regola, enunciata nell'art. 705, comma 1, cod. proc. pen. (il quale però fa salve le diverse disposizioni delle convenzioni internazionali), rispondente alla tradizionale concezione per cui l'estradizione presuppone la previa soddisfazione delle pretese punitive dello Stato richiesto, non assurge alla dignità di principio di diritto internazionale generalmente riconosciuto: al contrario, la disposizione di ciascuno Stato a soddisfare le pretese altrui, pure in presenza di un concomitante esercizio della propria giurisdizione penale per lo stesso fatto, formerebbe oggetto di apprezzamento anche alla luce dei criteri e dei vantaggi connessi alla cooperazione internazionale.

 

In tale ottica l'art. 8 della convenzione europea di estradizione contemplerebbe in termini di semplice facoltà il diniego dello Stato richiesto di concedere l'estradizione in caso di "litispendenza internazionale", lasciando alla valutazione dei poteri a ciò preposti in ogni ordinamento il compito di verificare se sia opportuno o meno avvalersi di detta facoltà, in relazione alla pregnanza dell'interesse di ciascuno Stato al perseguimento del giudicabile nel caso concreto: in linea con il moderno fondamento dell'istituto dell'estradizione, consistente nel riconoscimento internazionale del dovere reciproco degli Stati di consegnare gli imputati o i condannati a quello Stato che ha il maggior interesse alla punizione del colpevole, salvo espresso divieto stabilito dalle convenzioni internazionali.

 

In questo quadro organico, secondo l'Avvocatura, dovrebbe escludersi la fondatezza della questione. Non sussisterebbe, in primo luogo, contrasto con l'art. 24, secondo comma, della Costituzione, in quanto lo stato di detenzione all'estero costituisce motivo di legittimo impedimento dell'imputato che impone la sospensione o il rinvio del processo penale. Né si potrebbe far rientrare nell'orbita del diritto di difesa il distinto e più sfumato interesse a vedere decisa la controversia penale in tempi ragionevoli, interesse riconosciuto dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali in una disposizione diversa da quella attinente al diritto di difesa.

 

Gli articoli 8 e 9 della convenzione europea di estradizione, secondo l'interveniente, non avrebbero, inoltre, derogato all'art. 11 cod. pen. (sul rinnovamento del giudizio nei confronti dell'imputato già giudicato all'estero) in relazione al principio del ne bis in idem, onde non sussisterebbe il divieto per il giudice italiano di conoscere degli stessi fatti che formano oggetto di procedimento penale in un altro Stato firmatario della convenzione.

 

Del resto, il principio del ne bis in idem non sarebbe generalmente riconosciuto in ambito internazionale, e non potrebbe essere fatto derivare né dal patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo in Italia con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, dato il carattere meramente programmatico delle relative disposizioni, né dalla convenzione degli Stati membri delle Comunità europee firmata a Bruxelles il 25 maggio 1987 e resa esecutiva con legge 16 ottobre 1989, n. 350, che contiene una espressa riserva relativamente, fra l'altro, al caso di fatto commesso nel territorio dello Stato. In definitiva, secondo l'Avvocatura, una volta cessata la impossibilità di partecipare al procedimento legata allo stato di detenzione all'estero, il processo sospeso nei confronti della persona estradata potrebbe ben proseguire, a norma dell'art. 11 cod. pen., anche se nel frattempo l'imputato fosse stato giudicato in via definitiva all'estero.

 

Non si avrebbe nemmeno, secondo l'interveniente, alcuna sottrazione dell'estradato al giudice precostituito dall'ordinamento italiano, ma solo la possibilità che sia invertita la normale priorità nell'esercizio della giurisdizione penale fra Stato richiesto e Stato richiedente, e non già uno spostamento di competenza dal giudice italiano a quello straniero. Comunque il principio di cui all'art. 25, primo comma, della Costituzione, sarebbe posto essenzialmente a garanzia dell'assoluta imparzialità degli organi giudiziari, e sarebbe del tutto estraneo all'ipotesi di coordinamento fra le giurisdizioni di diversi Stati.

 

Egualmente dovrebbe escludersi, ad avviso dell'Avvocatura, la violazione del principio di irretrattabilità dell'azione penale, in quanto l'accoglimento della richiesta di estradizione non precluderebbe la possibilità della prosecuzione del procedimento penale in Italia, anche dopo la formazione del giudicato nello Stato richiedente.

 

In ogni caso l'art. 112 della Costituzione mirerebbe essenzialmente ad escludere qualsiasi discrezionalità del pubblico ministero nell'esercizio dell'azione penale, e pertanto non vieterebbe che l'ordinamento introduca determinate condizioni per il promuovimento o la prosecuzione dell'azione penale: così non sarebbe in contrasto con il precetto costituzionale la previsione di una decisione, impeditiva della proseguibilità dell'azione, da parte del Ministero, volta a realizzare il più acconcio regolamento dei rapporti fra le giurisdizioni di diversi Stati, ove pure volesse in via di ipotesi leggersi in tale chiave l'accoglimento della richiesta di estradizione in situazione di litispendenza internazionale.

 

Infine l'Avvocatura dubita della rilevanza della questione, osservando che il giudizio a quo non ha ad oggetto il provvedimento di estradizione, ma la convalida dell'arresto provvisorio, ai cui fini la legittimità costituzionale o meno del potere del Ministro di concedere successivamente, ove lo ritenga, l'estradizione, non avrebbe diretto rilievo.

 

3.- In prossimità della camera di consiglio l'Avvocatura dello Stato ha depositato memoria insistendo per l'inammissibilità ovvero, in ogni caso, per l'infondatezza della questione.

 

Dopo aver ricordato che il procedimento di estradizione disciplinato dal codice di procedura penale si articola in due fasi, la prima giurisdizionale, culminante in una sentenza del giudice ordinario che dichiara la estradabilità della persona richiesta dallo Stato estero, e la seconda, nella quale il Ministro di grazia e giustizia, sulla base della pronuncia giurisdizionale, decide se concedere o meno l'estradizione, con atto soggetto al sindacato del giudice amministrativo, l'interveniente ricostruisce il rapporto tra la valutazione dell'autorità giudiziaria e quella dei Ministro in ordine al caso della pendenza in Italia di procedimento penale a carico della persona richiesta.

 

Mentre nel codice di rito abrogato la valutazione di tale elemento era in toto confidata al Ministro, secondo il nuovo codice (art. 705, comma 1) la Corte d'appello può pervenire ad una pronuncia di estradabilità a condizione che per lo stesso fatto non sia in corso un procedimento penale in Italia.

 

Se però esiste una convenzione internazionale che consenta l'estradizione anche in pendenza di procedimento penale in Italia, tale ultima circostanza perderebbe ogni rilevanza per il giudice ordinario, che "deve pronunciarsi a prescindere dall'esistenza o meno del procedimento penale" che abbia ad oggetto lo stesso fatto.

 

Se dunque la questione della pendenza di siffatto procedimento, soggiunge l'Avvocatura, è estranea al giudizio di estradabilità, essa è ovviamente estranea anche al giudizio di convalida della misura cautelare, rispetto alla quale il giudice ordinario, oltre a verificare la sussistenza delle condizioni richieste dal codice per l'adozione delle misure cautelari coercitive (fatta eccezione per quelle di cui agli artt. 273 e 280 cod. proc. pen.), potrebbe valutare in questa sede processuale solo se "vi sono ragioni per ritenere che non sussistano le condizioni per una sentenza favorevole all'estradizione".

 

La questione sollevata, dunque, secondo l'Avvocatura, potrebbe avere rilevanza solo qualora fosse impugnato davanti al giudice amministrativo il decreto ministeriale che conceda l'estradizione.

 

Considerato in diritto

 

1.- La questione sollevata dalla Corte di cassazione investe gli articoli 1 e 2 della legge 30 gennaio 1963, n. 300 (Ratifica ed esecuzione della convenzione europea di estradizione, firmata a Parigi il 13 dicembre 1957), concernenti rispettivamente l'autorizzazione alla ratifica e l'esecuzione in Italia della convenzione europea di estradizione, nella parte in cui consentono che abbiano esecuzione gli articoli 8 e 9 di detta convenzione. Uart. 8, ad avviso della Corte remittente, darebbe facoltà al Ministro della giustizia di concedere o meno l'estradizione, con determinazione discrezionale, nel caso in cui sia in corso in Italia procedimento penale nei confronti della persona richiesta, per lo stesso fatto per il quale è domandata l'estradizione (art. 8), come sarebbe altresì confermato a contrario dall'art. 9, che esclude invece l'estradizione quando per lo stesso fatto sia stata pronunciata nel nostro paese sentenza definitiva. Secondo il giudice a quo, il riconoscimento all'autorità politico-amministrativa del potere discrezionale di concedere l'estradizione in pendenza del procedimento interno per il medesimo fatto comporterebbe violazione dell'art. 24, secondo comma, della Costituzione, poiché l'estradato non potrebbe difendersi partecipando al processo, che d'altra parte non potrebbe né venir meno (data l'irretrattabilità dell'azione penale), né essere sospeso senza violare il diritto dell'imputato ad una sollecita definizione del processo, né comunque riprendere successivamente in Italia perché lo impedirebbe il divieto del bis in idem dopo la formazione del giudicato nello Stato destinatario dell'estradizione. Sarebbero inoltre violati l'art. 25, primo comma, e l'art. 112 della Costituzione, perché la decisione politico-amministrativa discrezionale di estradizione sottrarrebbe il processo al giudice interno precostituito e comporterebbe l'abbandono del processo pendente in Italia e la rimessione della formazione del giudicato alla giurisdizione dello Stato richiedente, sfociando nella ritrattazione dell'azione penale esercitata nel nostro Stato.

 

2.- L'eccezione di irrilevanza della questione, sollevata dall'Avvocatura erariale, non può essere accolta. La Corte remittente ha infatti argomentato, con motivazione congrua e convincente, che il giudizio sul ricorso contro la decisione di convalida dell'arresto provvisorio e di applicazione della misura cautelare coercitiva provvisoria nei confronti dell'estradando comporta, ai sensi dell'art. 714, comma 3, cod. proc. pen., la verifica che non vi siano "ragioni per ritenere che non sussistono le condizioni per una sentenza favorevole all'estradizione": tali ragioni sussisterebbero se, a seguito dell'accoglimento della questione, si dovesse applicare l'art. 705, comma 1, ultima parte, cod. proc. pen., che prevede il diniego dell'estradizione quando per lo stesso fatto sia pendente procedimento penale in Italia nei confronti dell'estradando.

 

3.- Nel merito, la questione non è fondata nei termini di seguito precisati.

 

La premessa - esplicita, ma non argomentata - dell'ordinanza di rimessione è che alla specie risulti applicabile l'art. 8 della convenzione europea, inteso nel senso che esso comporti la facoltà discrezionale del Ministro di concedere l'estradizione in pendenza del processo in Italia, e non invece l'art. 705, comma 1, ultima parte, del codice di procedura penale, che vieta l'estradizione quando per lo stesso fatto sia in corso procedimento penale nei confronti della persona della quale è domandata l'estradizione. La Corte remittente si limita ad affermare che sulla normativa codicistica prevale quella pattizia.

 

Questa è anche, evidentemente, la premessa da cui hanno preso le mosse sia il Ministro della giustizia, quando ha autorizzato l'arresto provvisorio dell'estradando, sia la Corte d'appello, che ha convalidato detto arresto e ha disposto la misura coercitiva provvisoria: conformandosi in ciò agli unici due precedenti di legittimità che si riscontrano nel vigore del codice di procedura penale del 1989, secondo i quali l'art. 8 della convenzione comporterebbe, prevalendo sull'art. 705 del codice di rito, la possibilità di estradizione in pendenza di procedimento per lo stesso fatto (Cass. 29 aprile 1992, Stokman; nonché, implicitamente, Cass. 27 settembre 1995, Celik Oral).

 

4.- Tuttavia, ad avviso di questa Corte, tale ricostruzione del sistema non tiene sufficiente conto della natura della norma contenuta nell'art. 8 della convenzione europea di estradizione, ai cui sensi "une Partie requise pourra refuser d'extrader un individu réclamé si cet individu fait l'objet de sa part de poursuites pour le ou les faits à raison desquels l'extradiction est demandée".

 

Si tratta di una norma di diritto internazionale pattizio, rivolta agli Stati contraenti e non operante direttamente negli ordinamenti interni di questi. Essa attribuisce allo Stato richiesto (la Partie requise è 10 Stato come soggetto di diritto internazionale, non questo o quell'organo previsto dall'ordinamento interno), che abbia in corso un procedimento penale per lo stesso fatto nei confronti del soggetto di cui è chiesta l'estradizione, la facoltà di rifiutarla: ponendo dunque un limite all'estensìone dell'obbligo di concedere l'estradizione, che costituisce l'oggetto principale della convenzione, il cui art. 1 appunto stabilisce che "les Parties Contractantes sengagent à se livrer réciproquement, selon les règles et sous les conditions déterminées par les articles suivants, les individus qui sont poursuivis pour une infraction ou recherchés aux fins d'exécution d'une peine ou d'une mesure de súreté, par les autorités judiciaires de la Partie requérante".

 

Questa, e non altra, è la portata normativa, nel diritto internazionale, della disposizione in questione: la quale non costituisce e non regola poteri o competenze degli organi interni degli Stati contraenti, ma si limita a prevedere una condizione, verificandosi la quale non sussiste l'obbligo internazionale di estradizione.

 

Non sussiste, peraltro, nemmeno un divieto internazionale dì concedere l'estradizione in presenza di procedimento penale in corso nello Stato richiesto, come invece è previsto dall'art. 9 della stessa convenzione nella diversa ipotesi di esistenza di un giudicato definitivo, per lo stesso fatto, nel medesimo Stato richiesto. Ciò significa che, dal punto di vista internazionale, lo Stato richiesto può sia concedere, sia negare l'estradizione, senza incorrere in violazione degli obblighi derivanti dalla convenzione.

 

5.- In presenza di siffatta norma internazionale che riconosce una facoltà, non può che rimanere rimesso all'ordinamento interno di ciascuno degli Stati contraenti regolare la fattispecie, stabilendo se e a quali condizioni, e per determinazione di quale autorità, l'estradizione possa o debba essere concessa o negata. Qualunque sia la soluzione discendente dall'ordinamento interno dello Stato richiesto - e dunque sia che si preveda la possibilità o l'obbligo di estradare, sia che viceversa si preveda un divieto di estradare - la norma internazionale risulta pienamente osservata.

 

Orbene, allorché l'art. 705, comma 1, cod. proc. pen., determina le condizioni alle quali la Corte d'appello pronuncia sentenza favorevole all'estradizione, "quando non esiste convenzione, o questa non dispone diversamente", pone in essere una norma certamente cedevole rispetto a contrastanti norme internazionali pattizie, che lo Stato si sia impegnato ad osservare dandovi esecuzione nell'ordinamento interno, ma, appunto, solo quando tali norme internazionali risultino incompatibili con la predetta norma interna. L'applicazione di quest'ultima è infatti esclusa non per il solo fatto che esista una convenzione, bensì quando questa esista e disponga altresì "diversamente". Se la convenzione esiste, ma non dispone "diversamente", la norma interna resta pienamente applicabile. Da questo punto di vista l'art. 705, comma 1, prima parte, non fa che ripetere la clausola generale contenuta nell'art. 696 dello stesso codice, secondo cui le estradizioni "sono disciplinate dalle norme delle convenzioni internazionali in vigore per lo Stato", oltre che dalle norme di diritto internazionale generale (cui l'ordinamento interno si "adatta" automaticamente in forza dell'art. 10, primo comma, della Costituzione), ma "se tali norme mancano o non dispongono diversamente, si applicano le norme che seguono", cioè le norme del codice, fra le quali quelle di cui all'art. 705.

 

Non può ritenersi che si sia in presenza di una convenzione che dispone "diversamente" per il solo fatto che la formulazione della norma pattizia non coincide con quella della norma del codice. Infatti, così argomentando, non si terrebbe conto della diversa natura delle due disposizioni: l'una, quella interna, diretta a disciplinare le condizioni alle quali, secondo l'ordinamento interno, l'organo giudiziario deve pronunciare una sentenza favorevole all'estradizione (condizioni fra le quali è compresa l'assenza di un procedimento penale in corso per lo stesso fatto nei confronti dell'estradando); l'altra, quella internazionale, diretta a disciplinare gli obblighi internazionali dello Stato nei confronti degli altri Stati contraenti, e, in particolare, le condizioni in presenza delle quali l'obbligo internazionale di estradare viene meno, pur senza essere sostituito da un divieto, sempre internazionale, di estradare.

 

Alla norma internazionale che riconosce una facoltà corrisponde, come si è detto, una situazione di assenza di obbligo a carico dello Stato verso gli altri Stati (in concreto, verso lo Stato richiedente), e pertanto può trovare piena applicazione, perché non contrasta con detta norma internazionale, la norma interna che disciplina le condizioni per la pronuncia di estradabilità, ricomprendendo fra queste, l'assenza di un procedimento interno per lo stesso fatto. Tali condizioni valgono quando siano compatibili con le norme convenzionali: la compatibilità sussiste, a sua volta, se l'applicazione di dette condizioni (e dunque della norma interna che le stabilisce) non comporta violazione della norma internazionale, e pertanto violazione degli obblighi che lo Stato ha assunto con la stipulazione della convenzione.

 

Ora, come si è detto, il diniego dell'estradizione, ai sensi dell'art. 705, comma 1, ultima parte, allorquando penda un procedimento penale nello Stato per il medesimo fatto, non comporta alcuna violazione degli obblighi convenzionali, dal momento che la convenzione consente appunto allo Stato richiesto, in tale situazione, di rifiutare l'estradizione.

 

6.- Non sarebbe corretto, d'altra parte, desumere dalla sola disposizione dell'art. 8 della convenzione l'esistenza di un potere discrezionale, attribuito al Ministro della giustizia, di concedere o meno l'estradizione in pendenza del procedimento penale nello Stato. La norma pattizia in quanto tale, come si è detto, non disciplina le procedure e i poteri relativi all'estradizione nell'ordinamento interno, ma solo gli obblighi internazionali e i relativi limiti.

 

Né diversa portata può attribuirsi alla norma interna di esecuzione della corrispondente clausola pattizia.

 

La convenzione in questione, infatti, ha ricevuto attuazione in Italia mediante la tecnica dell'"ordine di esecuzione": quello contenuto nell'impugnato art. 2 della legge n. 300 del 1963. Tale tecnica - che si esprime nella clausola secondo cui "piena ed intera esecuzione è data alla convenzione ... " - dà luogo alla produzione nell'ordinamento interno delle norme di "adattamento" ai disposti dei trattato. Uordine di esecuzione produce implicitamente tutte le norme interne necessarie perché lo Stato possa adempiere, sul piano internazionale, agli obblighi convenzionalmente assunti, ma anche le sole norme interne strettamente indispensabili a tale scopo.

 

Dall'ordine di esecuzione non può dunque desumersi alcuna norma interna ulteriore che disciplini l'uso che lo Stato italiano abbia inteso fare della facoltà ad esso riconosciuta di rifiutare l'estradizione in pendenza di procedimento penale in Italia, e quindi nemmeno una norma che attribuisca, in proposito, poteri discrezionali al Ministro. Tale disciplina si desume esclusivamente dal diritto interno (cfr., per un analogo rilievo, in una fattispecie sotto questo profilo non dissimile, sent. n. 446 del 1990).

 

In assenza di ogni altra norma interna, l'applicazione della norma internazionale comporterebbe certamente l'espansione del generale potere di concedere o meno l'estradizione, che l'ordinamento interno attribuisce al Ministro (cfr. art. 708, comma 1, cod. proc. pen.). Si comprende perciò come, nel vigore del codice di procedura penale abrogato, che non conteneva una disposizione analoga all'art. 705, comma 1, ultima parte, del codice vigente, sul divieto di estradizione in pendenza di procedimento penale per lo stesso fatto, la giurisprudenza abbia ritenuto che l'applicazione dell'art. 8 della convenzione europea comportasse il potere discrezionale del Ministro di concedere o non concedere, in tale caso, l'estradizione (cfr. Cass., 1 sez., 7 aprile 1982, Batrouni).

 

Ma la situazione è mutata con l'entrata in vigore del nuovo codice, il quale ha introdotto la regola di cui all'art. 705, comma 1, ultima parte, in omaggio al principio ne bis in idem, che pur non essendo ancora assurto a regola di diritto internazionale generale (sentenze n. 48 del 1967 e n. 69 del 1976), né essendo accolto senza riserve nelle convenzioni internazionali che ad esso si riferiscono (cfr. gli artt. 1 e 2 della convenzione fra gli Stati membri delle Comunità europee relativa all'applicazione del principio "ne bis in idem", firmata a Bruxelles il 25 maggio 1987 e resa esecutiva in Italia con la legge 16 ottobre 1989, n. 350), è tuttavia principio tendenziale cui si ispira oggi l'ordinamento internazionale, e risponde del resto a evidenti ragioni di garanzia del singolo di fronte alle concorrenti potestà punitive degli Stati.

 

L’art. 705 cod. proc. pen., in assenza di contrastanti disposizioni di convenzioni internazionali (cioè di disposizioni che sanciscano l'obbligo per lo Stato italiano di concedere l'estradizione pur in pendenza di procedimento penale in Italia), comporta ora il divieto di estradare, e dunque comporta una pronuncia di non estradabilità da parte dell'autorità giudiziaria competente, con esclusione di ogni potere discrezionale del Ministro. Alla facoltà, riconosciuta allo Stato nell'ordinamento internazionale, di rifiutare l'estradizione, corrisponde ora dunque, nell'ordinamento interno, il divieto di concederla.

 

Che tale regola risponda ad esigenze dell'ordinamento, anche di pregnanza costituzionale, è del resto convinzione della stessa Corte di cassazione remittente, la quale dubita, per questa ragione, della legittimità costituzionale di una diversa norma, che essa ritiene esistente ed applicabile, traendola dalla convenzione, in base alla quale sussisterebbe un potere discrezionale del Ministro di concedere l'estradizione pur in pendenza di procedimento penale per lo stesso fatto. Tali esigenze appaiono peraltro perfettamente soddisfatte proprio dall'applicabilità generale dell'art. 705, comma 1, non derogata e non impedita dall'esistenza di una clausola convenzionale che si limita a riconoscere la facoltà dello Stato, in detta ipotesi, di rifiutare l'estradizione.

 

7.- Il sistema normativo, in presenza del nuovo codice, va dunque ricostruito nel senso che la pendenza del procedimento penale vieta, anche nelle fattispecie cui risulta applicabile la convenzione europea di estradizione, di adottare una pronuncia di estradabilità.

 

Né la conclusione qui raggiunta trova ostacolo in un contrario diritto "vivente". Ancorché, come si é accennato, risultino, nel vigore del nuovo codice, due sentenze della sesta sezione penale della Corte di cassazione che - in linea con quanto sostenuto anche nell'ordinanza introduttiva del presente giudizio - traggono dall'art. 8 della convenzione l'esistenza di un potere discrezionale del Ministro di concedere l'estradizione in pendenza di procedimento penale per lo stesso fatto (Cass. 29 aprile 1992, Stokman; 27 settembre 1995, Celik Oral), non si può dire, anche per il numero ancora esiguo di pronunce, che tale interpretazione sia incontrastatamente consolidata. Anzi è significativo che proprio la sentenza sul caso Stokman sia stata resa su un ricorso della Procura generale presso la Corte d'appello di Torino, nel quale si faceva valere l'opposta interpretazione. Del resto, rispetto ad un indirizzo interpretativo non consolidato, gli stessi dubbi di costituzionalità proposti dal giudice di legittimità nell'ordinanza che ha promosso il presente giudizio testimoniano l'esigenza di un ripensamento.

 

8.- Così ricostruito il sistema normativo, ed escluso quindi che alle norme di origine convenzionale denunciate dal giudice a quo si debbano attribuire il significato e la portata da esso presupposti, la questione di legittimità costituzionale risulta priva di fondamento.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 2 della legge 30 gennaio 1963, n. 300 (Ratifica ed esecuzione della convenzione europea di estradizione, firmata a Parigi il 13 dicembre 1957), sollevata, con riguardo agli artt. 8 e 9 di detta convenzione, e in riferimento agli artt. 24, secondo comma, 25, primo comma, e 112 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l'ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 febbraio 1997.

 

Renato GRANATA, Presidente

 

Valerio ONIDA, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 3 marzo 1997.