Sentenza n. 217 del 1996

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SENTENZA N. 217

ANNO 1996

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Luigi MENGONI, Presidente

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

-     Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

-     Prof. Valerio ONIDA

-     Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, primo e terzo comma, del decreto legislativo 22 gennaio 1948, n. 66 (Norme per assicurare la libera circolazione sulle strade ferrate ed ordinarie e la libera navigazione) promosso con ordinanze emesse:

1) il 27 giugno 1995 dalla Corte di appello di Milano nel procedimento penale a carico di Mangiolfi Luca Lucio ed altri, iscritta al n. 778 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell'anno 1995;

2) il 14 novembre 1995 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Civitavecchia nel procedimento penale a carico di Andriani Bice ed altri, iscritta al n. 10 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell'anno 1996.

Visto l'atto di costituzione di Andriani Bice ed altri;

udito nella udienza pubblica del 28 maggio 1996 il Giudice relatore Giuliano Vassalli;

udito l'avv. Alfredo Galasso per Andriani Bice ed altri.

Ritenuto in fatto

1. -- La Corte di appello di Milano solleva, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, primo e terzo comma, del decreto legislativo 22 gennaio 1948, n. 66 (Norme per assicurare la libera circolazione sulle strade ferrate ed ordinarie e la libera navigazione) nella parte in cui prevede come minimo edittale di pena ordinaria la misura di anni uno di reclusione e nella ipotesi aggravata quella di anni due di reclusione. Premette il giudice rimettente che il tribunale aveva, nel precedente grado di giudizio, già affrontato l'identica questione dichiarandola manifestamente infondata con la sentenza avverso la quale è stata proposta l'impugnazione e che la rilevanza nel procedimento a quo "attiene direttamente e formalmente solo alla norma che prevede la pena ordinaria", in quanto in primo grado sono state concesse le attenuanti generiche ritenute prevalenti con statuizione ormai irrevocabile per mancato gravame sul punto: tuttavia, sottolinea ancora il rimettente, questa Corte, avvalendosi dei poteri di cui all'art. 27 della legge n. 87 del 1953, "potrebbe estendere la eventuale dichiarazione di incostituzionalità vieppiù per l'ipotesi aggravata di cui al terzo comma che prevede il minimo di due anni di reclusione".

Nel merito, la Corte rimettente deduce la eccessività del minimo edittale della pena previsto dalla norma impugnata tanto nella ipotesi aggravata - che in concreto si atteggia come figura ordinaria del reato - che nella ipotesi base, il tutto secondo una linea di rigore che contrasta con il canone di ragionevolezza nei casi di più modesta rilevanza e che si spiega soltanto in rapporto al peculiare e contingente momento storico in cui la fattispecie venne coniata. Varrebbero pertanto integralmente anche nel caso di specie gli argomenti adottati da questa Corte nella sentenza n. 341 del 1994, dei quali si chiede pertanto l'estensione alla stregua dei medesimi parametri allora presi in esame.

2. -- L'identica questione è stata sollevata anche dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Civitavecchia. Chiamato a pronunciarsi in sede di udienza preliminare, il giudice a quo deduce anzitutto la rilevanza della questione sul presupposto che "la determinazione del minimo edittale della pena inciderebbe sui concreti poteri determinativi della pena da infliggere anche nella presente fase del procedimento in ipotesi di patteggiamento o di rito abbreviato". In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente, dopo aver svolto considerazioni non dissimili da quelle poste a fondamento dell'ordinanza pronunciata dalla Corte di appello di Milano, ha osservato che se il bene protetto dalla norma impugnata è la libertà di circolazione piuttosto che la sicurezza dei trasporti considerata da altre fattispecie, appare irragionevole attribuire alla prima una tutela più incisiva della seconda, come traspare dal raffronto tra la disposizione oggetto di censura e la disciplina dettata dall'art. 432 del codice penale.

D'altra parte, osserva ancora il rimettente, il rigore sanzionatorio che caratterizza la fattispecie è contraddetto dalla scelta operata dallo stesso legislatore di ricomprendere il reato stesso fra le ipotesi in ordine alle quali hanno trovato applicazione i più recenti provvedimenti di amnistia. A corollario delle dedotte censure si richiamano conclusivamente ancora una volta i principî affermati nella sentenza n. 341 del 1994.

3. -- In relazione a tale ultimo giudizio sono intervenute alcune parti private rappresentate dall'avvocato Alfredo Galasso che ha depositato deduzioni poi illustrate nel corso della pubblica udienza. In tale atto si sottolinea, fra l'altro, come la pena prevista dalla norma impugnata è raddoppiata nel caso di puro e semplice concorso di persone, senza tenere in alcun conto l'ipotesi della eventuale commissione del reato nell'esercizio di libertà costituzionalmente garantite, ed escludendo al tempo stesso ogni valutazione sia sul contributo causale dei singoli compartecipi, sia sui motivi e le modalità del fatto, profilandosi così, a parere dei deducenti, un contrasto con gli artt. 27, 3 e 17 della Costituzione. Per altro verso, si osserva ancora, allorché il blocco della circolazione sia realizzato con modalità pacifiche, l'elemento soggettivo del reato viene a coincidere con quello del delitto previsto dall'art. 340 del codice penale, punito, peraltro, con trattamento sanzionatorio macroscopicamente difforme, sicché, anche sotto questo profilo, la norma impugnata si presenterebbe in contrasto col principio di uguaglianza. Si rileva, infine, che la disposizione censurata si porrebbe in contrasto anche con gli artt. 2, 17, 21 e 40 della Costituzione in quanto il legislatore avrebbe omesso di porre "a fondamento della scelta sanzionatoria tutti i diritti di pari rango espressi dalla condotta punita".

Considerato in diritto

1. -- Le ordinanze di rimessione sottopongono all'esame della Corte l'identica questione, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con un'unica sentenza.

2. -- Tanto la Corte di appello di Milano che il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Civitavecchia sollevano, infatti, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, primo e terzo comma, del decreto legislativo 22 gennaio 1948, n. 66 (Norme per assicurare la libera circolazione sulle strade ferrate ed ordinarie e la libera navigazione), nella parte in cui rispettivamente prevedono come minimo edittale la pena di anni uno di reclusione nella ipotesi base e quella di anni due di reclusione nella ipotesi aggravata. A parere dei giudici a quibus, la previsione di un minimo edittale tanto elevato e la sostanziale impossibilità di prefigurare casi in cui non ricorrano in concreto le condotte che determinano l'aggravamento della pena, paiono rispondere ad una linea di eccessivo rigore che si giustifica soltanto in ragione delle acute tensioni sociali che contrassegnarono il peculiare contesto storico in cui la norma venne introdotta nell'ordinamento.

Una disciplina, dunque, che, anche in ragione del trattamento sanzionatorio previsto da altre fattispecie che si evocano a raffronto, come quella delineata dall'art. 432 del codice penale, si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 27, terzo comma, della Costituzione, in base alle stesse considerazioni svolte nella sentenza n. 341 del 1994 che entrambi i giudici rimettenti richiamano a conforto delle dedotte censure.

3. -- La questione è infondata. Già nella sentenza n. 133 del 1973 questa Corte ebbe infatti a dichiarare non fondata la medesima questione, osservando come nella specie non risultasse leso, "sotto l'aspetto dell'uguaglianza di trattamento, quel limite di ragionevolezza" alla cui stregua soltanto è consentito operare il controllo in sede di legittimità costituzionale delle discrezionali scelte operate dal legislatore "al fine della repressione degli atti considerati delitti dolosi e caratterizzati dal fine di impedire od ostacolare la libera circolazione sulle strade ferrate ed ordinarie e la libera navigazione". Considerazioni, quelle appena esposte, che devono essere in questa sede confermate, non avendo i giudici a quibus prospettato argomenti nella sostanza nuovi o diversi da quelli allora esaminati o dedotto comunque profili di spessore tale da indurre a conclusioni difformi da quelle rassegnate nella già citata e ormai risalente pronuncia. Non può infatti giovare, agli effetti che qui rilevano, il semplice richiamo alla sentenza n. 341 del 1994, giacché la stessa, nel ribadire che non spetta "alla Corte rimodulare le scelte punitive effettuate dal legislatore, né stabilire quantificazioni sanzionatorie", ma esclusivamente "il compito di verificare che l'uso della discrezionalità legislativa in materia rispetti il limite della ragionevolezza", prese in esame una fattispecie la cui "manifesta irragionevolezza" quanto alla determinazione del minimo edittale traspariva "dal raffronto con il trattamento sanzionatorio" previsto da altra ipotesi caratterizzata da una identica condotta materiale.

Le peculiarità insite in quel giudizio e, soprattutto, la "definitiva affermazione, nella coscienza sociale, della convinzione della palese incongruenza della previsione sanzionatoria" statuita dalla ipotesi delittuosa allora sottoposta a scrutinio di costituzionalità, rendono dunque non trasferibili all'oggetto del presente giudizio i rilievi e gli argomenti che indussero questa Corte a caducare la previsione relativa al minimo della pena stabilito per il delitto di oltraggio, non diversamente, d'altra parte, da quanto questa stessa Corte ha reiteratamente avuto modo di affermare in relazione ad altre questioni che proprio da quella pronuncia avevano tratto spunto e alimento (v., fra le altre, le sentenze nn. 313 e 314 del 1995 e l'ordinanza n. 368 del 1995).

Per altro verso, nel censurare l'eccessivo rigore della sanzione minima prevista dalla norma impugnata - e rispetto alla quale, va aggiunto, non possono certo dirsi obiettivamente riscontrabili significativi mutamenti di apprezzamento da parte della coscienza collettiva - i giudici a quibus non giungono a contestare anche l'intrinseca ragionevolezza di una statuizione che, tenuto conto del primario risalto che caratterizza il bene protetto, determini la pena minima da applicare in misura superiore a quella fissata in via generale dall'art. 23 del codice penale; sicché, non risultando nella specie rinvenibile un pertinente e univoco termine di raffronto, qualsiasi intervento che si proponesse di soddisfare l'obiettivo che i rimettenti mostrano di perseguire, finirebbe ineluttabilmente per risultare invasivo della sfera delle scelte discrezionali che soltanto il legislatore è abilitato a compiere.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, primo e terzo comma, del decreto legislativo 22 gennaio 1948, n. 66 (Norme per assicurare la libera circolazione sulle strade ferrate ed ordinarie e la libera navigazione), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dalla Corte di appello di Milano e dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Civitavecchia con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 giugno 1996.

Luigi MENGONI, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 25 giugno 1996.