Sentenza n. 314 del 1995

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SENTENZA N. 314

ANNO 1995

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

-     Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente

-     Prof. Vincenzo CAIANIELLO

-     Avv. Mauro FERRI

-     Prof. Enzo CHELI

-     Dott. Renato GRANATA

-     Prof. Giuliano VASSALLI

-     Prof. Francesco GUIZZI

-     Prof. Cesare MIRABELLI

-     Prof. Fernando SANTOSUOSSO

-     Avv. Massimo VARI

-     Dott. Cesare RUPERTO

-     Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 336 del codice penale promosso con ordinanza emessa l'8 febbraio 1995 dal Pretore di Venezia, Sezione distaccata di Chioggia, nei procedimenti penali a carico di Fortuna Mario ed altro, iscritta al n. 201 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell'anno 1995. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 14 giugno 1995 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

Ritenuto in fatto

1. Il Pretore di Venezia - Sezione distaccata di Chioggia, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 336 del codice penale nella parte in cui prevede come minimo edittale la pena di mesi sei di reclusione. Il giudice a quo si limita a richiamare i principi affermati dalla Corte nella sentenza n. 341 del 1994 in tema di oltraggio e, dopo aver indicato a raffronto la fattispecie prevista dall'art. 610 del codice penale, priva di minimo edittale, osserva che "la violenza privata sta alla violenza o minaccia a pubblico ufficiale proprio come l'ingiuria sta all'oltraggio". In conclusione, rileva il giudice a quo, la previsione dell'indicato minimo edittale determinerebbe "un irragionevole bilanciamento tra la tutela dell'amministrazione e del pubblico ufficiale e il valore della libertà personale".

2. Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. Osserva l'Avvocatura che il trattamento sanzionatorio investe un'area riservata alla discrezionalità del legislatore, sia pure nel rispetto del limite della ragionevolezza. L'art. 336 del codice penale si sottrarrebbe, dunque, alle dedotte censure in quanto "la tutela differenziata della pubblica amministrazione corrisponde ad una necessità insopprimibile dello Stato democratico". Neppure è corretto evocare a raffronto il diverso trattamento previsto dall'art. 610 del codice penale, considerata la diversità dei beni giuridici protetti, mentre per ciò che concerne la dedotta violazione dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione, il richiamo si rivela improprio giacchè l'invocato parametro va riferito alla sola fase di esecuzione della pena.

Considerato in diritto

1. - Il Pretore di Venezia - Sezione distaccata di Chioggia, impugna, per contrasto con gli artt. 3, 27, terzo comma, e 97 della Costituzione, l'art. 336 del codice penale, nella parte in cui prevede come minimo edittale la pena di mesi sei di reclusione. A parere del remittente varrebbero infatti integralmente, anche in relazione alla fattispecie oggetto di impugnativa, le considerazioni poste a fondamento della sentenza n. 341 del 1994, con la quale questa Corte ebbe a dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 341, primo comma, del codice penale, nella parte in cui prevedeva il medesimo minimo edittale. Così come, opina il giudice a quo, fu in quell'occasione operato un raffronto tra il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale e quello di ingiuria, a identiche conclusioni dovrebbe pervenirsi comparando fra loro la fattispecie prevista dall'art. 336 del codice penale e il delitto di violenza privata di cui all'art. 610 dello stesso codice.

2. - La questione è infondata, dal momento che nessuna delle considerazioni svolte nella richiamata sentenza n. 341 del 1994 può ritenersi pertinente alla fattispecie ora sottoposta a scrutinio della Corte. Già l'art. 187 del codice penale del 1889, infatti, prevedeva, in luogo delle blande sanzioni stabilite per il reato di oltraggio, la pena minima di tre mesi di reclusione per chiunque avesse usato violenza o minaccia verso un pubblico ufficiale <<per costringerlo a fare o ad omettere un atto del suo ufficio>>, cosicchè non potrebbe in alcun modo sostenersi che la sanzione stabilita nel minimo dalla norma oggetto di censura abbia rappresentato, come la pena minima prevista per l'oltraggio, un "unicum", generato dal codice penale del 1930", quale " prodotto della concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini tipica di quell'epoca storica e discendente dalla matrice ideologica allora dominante". V'è anzi da osservare, a tal proposito, che vale nella specie l'esatto reciproco di quanto il giudice a quo mostra di ritenere, giacchè ove venisse accolto il petitum inteso a caducare il minimo edittalmente previsto dall'art. 336 del codice penale, si assimilerebbe, sotto questo aspetto, il relativo trattamento sanzionatorio a quello ora stabilito per il delitto di oltraggio, in aperto contrasto, come si è visto, con la stessa tradizione codicistica, doverosamente attenta a rimarcare la maggior lesività che presenta una sia pur " minima" violenza o minaccia ad un pubblico ufficiale rispetto ad una parimenti "minima" offesa al suo onore o prestigio. D'altra parte, questa Corte, nel porre a raffronto la disciplina prevista dall'art. 196 del codice penale militare di pace con quella stabilita dall'art. 336 del codice penale ordinario, non ha mancato di rilevare come in quest'ultima ipotesi fosse "previsto un elemento teleologico di consistente gravità - che qualifica il comportamento dell'autore - diretto a costringere il soggetto passivo del reato a compiere un atto contrario ai propri doveri o ad omettere un atto d'ufficio" ( v. sentenza n. 405 del 1994 ) : un elemento, questo, del tutto estraneo alla fattispecie prevista dall'art. 610 del codice penale, evocata dal remittente quale termine di comparazione, e che, pertanto, adeguatamente giustifica il differente trattamento sanzionatorio.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 336 del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3,27, terzo comma, e 97 della Costituzione, dal Pretore di Venezia - Sezione distaccata di Chioggia, con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 giugno 1995.

Antonio BALDASSARRE, Presidente

Giuliano VASSALLI, Redattore

Depositata in cancelleria il 12 luglio 1995.