Ordinanza n. 190 del 1993

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ORDINANZA N. 190

 

ANNO 1993

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Dott. Francesco GRECO

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

ha pronunciato la seguente

 

ORDINANZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 406, primo e secondo comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 28 maggio 1992 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Scardino Antonio ed altri, iscritta al n. 581 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.42, prima serie speciale, dell'anno 1992.

 

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 24 marzo 1993 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

 

Ritenuto che il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art.406, primo e secondo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice possa prorogare il termine di cui all'art. 405 dello stesso codice, o concedere ulteriori proroghe, anche se la richiesta di proroga sia formulata dal pubblico ministero dopo la scadenza del termine stesso o di quello prorogato, deducendo la violazione:

 

a) dell'art. 112 della Costituzione, in quanto la disposizione impugnata limita "con previsioni di decadenza l'attività del P.M. nell'esecuzione dell'esercizio dell'azione" penale;

 

b) con l'art. 3, primo comma, della Costituzione, giacchè "la posizione di limiti al potere autorizzatorio del Giudice per il caso di scadenza del termine" finisce "col sottoporre a disparità di trattamento casi identici, laddove un P.M. sia rispettoso del termine in parola ed altro non lo sia"; e ciò, aggiunge il rimettente, a prescindere dalla circostanza che si sottrae "al sindacato del GIP la mancata effettuazione di ulteriori atti di indagine laddove artatamente fosse stato fatto decorrere inutilmente il termine di cui all'art. 406 c.p.p. e fosse inevitabile lo sbocco dell'archiviazione";

 

che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata;

 

considerato che la previsione di specifici limiti temporali per lo svolgimento delle indagini preliminari è frutto di una precisa scelta del legislatore volta a soddisfare, da un lato, la "necessità di imprimere tempestività alle investigazioni" e, dall'altro, "di contenere in un lasso di tempo predeterminato la condizione di chi a tali indagini è assoggettato" (v. sentenza n.174 del 1992 e ordinanza n. 222 del 1992);

 

che, essendo l'attività di indagine destinata unicamente a consentire al pubblico ministero di assumere le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale, non v'è contraddizione alcuna "tra la previsione di un termine entro il quale deve essere portata a compimento l'attività di indagine e il precetto sancito dall'art. 112 della Costituzione, non essendo quel termine, in sè e per sè considerato, un fattore che sempre e comunque è astrattamente idoneo a turbare le determinazioni che il pubblico ministero è chiamato ad assumere al suo spirare, cosicchè l'eventuale necessità di svolgere ulteriori atti di investigazione viene a profilarsi unicamente come ipotesi di mero fatto" (v.ordinanza n. 48 del 1993

), che, per di più, ammette soluzioni complementari all'interno del sistema;

 

che alla stregua delle riferite considerazioni, le censure del giudice a quo si rivelano, dunque, palesemente prive di fondamento, non sottacendosi il rilievo che la soluzione additiva che il rimettente mostra di perseguire genererebbe la paradossale conseguenza di affidare alle incontrollate scelte del pubblico ministero il potere di stabilire il momento in cui formulare la richiesta di proroga del termine, così determinando, da un lato, la sostanziale vanificazione dell'intera disciplina e, dall'altro, la possibile stasi del procedimento per un tempo indefinito;

 

e che, di conseguenza la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata.

 

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 406, primo e secondo comma, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 112 e 3 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino, con l'ordinanza in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 aprile 1993.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Giuliano VASSALLI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 23 aprile 1993.