Sentenza n. 103 del 1993

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SENTENZA N. 103

 

ANNO 1993

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Dott. Francesco GRECO

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 15-bis della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), introdotto dall'art.1 del decreto-legge 31 maggio 1991, n. 164 (Misure urgenti per lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali e degli organi di altri enti locali, conseguente a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso), convertito con modificazioni dalla legge 22 luglio 1991, n. 221, promosso con ordinanza emessa l'8 luglio 1992 dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio sui ricorsi riuniti proposti da Frustagli Domenico ed altri c/ Presidenza del Consiglio dei Ministri ed altri, iscritta al n.681 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.45, prima serie speciale, dell'anno 1992.

 

Visto l'atto di costituzione di Picciolo Guglielmo, ed altro, nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell'udienza pubblica del 23 febbraio 1993 il Giudice relatore Vincenzo Caianiello;

 

udito l'avvocato Alfredo Cordone per Picciolo Guglielmo, ed altro, e l'Avvocato dello Stato Gaetano Zotta per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

l.- Nel corso di un giudizio sui ricorsi per l'annullamento di due decreti del Presidente della Repubblica, entrambi in data 30 settembre 1991, con i quali era stato disposto rispettivamente lo scioglimento del consiglio comunale di S.Andrea apostolo dello Jonio e lo scioglimento del consiglio comunale di Trabia, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con ordinanza dell'8 luglio 1992, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 5, 24, 48, 51, 97, 113, 125 e 128 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 15-bis della legge 19 marzo 1990, n. 55, che consente l'adozione di provvedimenti di scioglimento di consigli comunali (e provinciali), con decreto del Presidente della Repubblica adottato su proposta del Ministro dell'interno, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, allorchè "... emergono elementi su collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata o su forme di condizionamento degli amministratori stessi, che compromettono la libera determinazione degli organi elettivi e il buon andamento delle amministrazioni comunali e provinciali, nonchè il regolare funzionamento dei servizi alle stesse affidati ovvero che risultano tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica" (comma 1 dell'art. 15-bis della legge n.55 del 1990, introdotto dall'art. 1 del decreto-legge 31 maggio 1991, n.164, convertito con modificazioni dalla legge 22 luglio 1991, n. 221).

 

l.l.- Il Tribunale remittente, in relazione ad eccezione di inammissibilità dei ricorsi (promossi da taluni componenti dei consigli comunali disciolti, uti singuli) sollevata dall'Avvocatura erariale nel giudizio a quo, premette innanzitutto che ai provvedimenti impugnati non può riconoscersi la natura di atti politici, come tali sottratti al sindacato giurisdizionale, dovendosi optare per una individuazione restrittiva della categoria degli atti politici, alla luce del principio costituzionale di indefettibilità della tutela giurisdizionale avverso gli atti della pubblica amministrazione, e per la necessaria delimitazione di quella categoria ai soli atti che attengono alla direzione suprema e generale dello Stato, considerato nella sua unità; connotati, questi, non ravvisabili, per il giudice a quo, nei decreti presidenziali di scioglimento.

 

2.- Nel merito, il Tribunale amministrativo regionale dubita della legittimità costituzionale della norma indicata, in quanto:

 

a) consente di attribuire rilevanza a "collegamenti indiretti" di taluni amministratori con la criminalità organizzata;

 

b) prevede lo scioglimento dell'intero organo elettivo anche in presenza di collegamenti - nel senso detto - riguardanti soltanto alcuni amministratori;

 

c) stabilisce il permanere degli effetti dello scioglimento per un periodo da dodici a diciotto mesi.

 

2.l.- Il giudice remittente muove dall'inquadramento della norma impugnata nel contesto delle disposizioni finalizzate - come quella - alla difesa delle amministrazioni locali dall'ingerenza o dall'influenza della criminalità: l'art. 40 della legge 8 giugno 1990, n. 142, di riforma delle autonomie locali, che prevede la possibilità di sospensione e rimozione degli amministratori degli enti locali quando siano imputati di un reato previsto dalla legge 13 settembre 1982, n. 646 (legge che ha tra l'altro istituito il reato di associazione di tipo mafioso) o sottoposti a misura di prevenzione - generica, a norma della legge n. 1423 del 1956, o qualificata, a norma della legge n. 575 del 1965 - o a misura di sicurezza; e l'art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, che ha previsto la sospensione obbligatoria degli amministratori degli enti locali sottoposti a procedimento penale per il delitto di associazione di tipo mafioso o per delitti di favoreggiamento commessi in relazione al primo, ovvero ancora soggetti all'applicazione, anche con provvedimento non definitivo, di una misura di prevenzione a norma della citata legge n. 575 del 1965.

 

In questo contesto, la norma impugnata si caratterizza - ad avviso del giudice a quo - per un minore grado di spessore probatorio richiesto quanto al presupposto sostanziale ivi considerato (i "collegamenti" con la criminalità organizzata), rispetto agli elementi richiesti sia per il promovimento dell'azione penale sia per l'adozione della misura preventiva.

 

In tal modo, l'apprezzamento della sussistenza di collegamenti tra l'organo elettivo e la criminalità organizzata viene ad essere affidato a valutazioni, di consistenza inferiore anche a quella richiesta per gli elementi indiziari, che non consentono un adeguato controllo in sede giurisdizionale; di qui il dubbio di conformità ai principi di ragionevolezza (art. 3 della Costituzione) e di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 della Costituzione), sia nel raffronto con le altre norme sopra indicate, meno "afflittive" - in quanto limitate al singolo amministratore - e tuttavia ancorate a presupposti maggiormente verificabili, sia per le insufficienti garanzie di obiettività e coerenza rispetto alla finalità della norma.

 

Ulteriore violazione del principio di ragionevolezza della legge è ravvisata dal tribunale remittente nel fatto che la norma prevede lo scioglimento dell'intero consiglio comunale, pur in presenza di "collegamenti" con la criminalità organizzata solo di alcuni consiglieri comunali. Tale previsione, che caratterizza la misura in senso sanzionatorio, finisce per colpire anche i componenti dell'organo che sono estranei al collegamento con il crimine organizzato, vulnerando il principio di personalità della responsabilità.

 

I profili critici indicati si riflettono poi, secondo il tribunale remittente, anche sulla effettività e pienezza della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 113 della Costituzione) riducendosi la possibilità di controllo della legittimità dell'operato della pubblica amministrazione, tanto più quanto meno "percepibili" sono i dati e gli elementi assunti a base del giudizio di collegamento tra organo elettivo e criminalità organizzata.

 

Ulteriore parametro costituzionale violato, in questa prospettiva, è ravvisato nell'art. 51 della Costituzione, giacchè la garanzia di accesso alle cariche elettive "non può non includere ... il mantenimento della carica conseguita e l'esercizio delle relative funzioni"; la norma denunziata non rispetta la necessità, sottolineata dalla Corte costituzionale, che la disciplina della materia, affidata dal precetto costituzionale al legislatore ordinario, sia immune da genericità o indeterminatezza.

 

Quanto alla durata dello scioglimento dell'organo elettivo, fissata dalla norma (comma 3 dell'art. 15-bis della legge n. 55 del 1990) tra i dodici e i diciotto mesi, il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio dubita che la previsione sia conforme a Costituzione per vari profili:

 

a) perchè tale protratta efficacia dello scioglimento comporta la sospensione sia del diritto di elettorato attivo, che l'art. 48 della Costituzione consente di limitare solo per le cause - incapacità civile, sentenza penale irrevocabile, indegnità morale - ivi elencate, sia del diritto di elettorato passivo (art. 51 della Costituzione);

 

b) perchè determina la "sospensione dell'autonomia degli enti locali", garantita dagli articoli 5 e 128 della Costituzione;

 

c) perchè la rimessione alla discrezionalità dell'amministrazione della determinazione in concreto della durata dello scioglimento, in difetto di un parametro normativo, sottrae la scelta al sindacato giurisdizionale, violando l'art. 24 della Costituzione e altresì gli artt. 5, 48, 51 "e 125" della Costituzione, per le ragioni già esposte riguardo agli altri profili della questione.

 

3. - Si sono costituiti in giudizio Guglielmo Picciolo e Giuseppe di Vittorio, ricorrenti nel giudizio a quo quali componenti del disciolto consiglio comunale di Trabia, i quali hanno ulteriormente sviluppato le argomentazioni già proposte nell'ordinanza di rimessione, concludendo per una richiesta di declaratoria di illegittimità costituzionale della norma impugnata.

 

4. - É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, per il tramite dell'Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto che la questione venga dichiarata inammissibile e comunque infondata.

 

4.l. - L'Avvocatura rileva che i ricorsi proposti nel giudizio a quo sono volti all'annulla mento di decreti di scioglimento ai quali deve riconoscersi natura di atti politici, contro i quali non è consentito sindacato giurisdizionale, ai sensi dell'art. 31 del Testo Unico delle leggi sul Consiglio di Stato 26 giugno 1924, n. 1054; di qui la richiesta di declaratoria di inammissibilità della questione per difetto di rilevanza nel giudizio medesimo.

 

Alla qualificazione come "atti politici" dei provvedimenti di rigore adottati a norma dell'art. 15-bis della legge n. 55 del 1990, l'Avvocatura perviene attraverso una ampia disamina dei caratteri qualificanti di tali misure, alla luce delle finalità perseguite dal legislatore e del tipo di procedimento configurato per la loro adozione.

 

I provvedimenti in questione hanno carattere di specialità rispetto alle ipotesi di scioglimento delle assemblee elettive degli enti locali già contemplate nell'ordinamento; tale specialità, manifestata dalla clausola di esclusione con cui la norma denunziata esordisce ("Fuori dei casi contemplati dall'art. 39 della legge 8 giugno 1990, n. 142.."), attiene sia alle ipotesi più consuete di scioglimento per motivi amministrativi sia al caso di scioglimento "per gravi motivi di ordine pubblico", già previsto nell'art. 323 del T.U. della legge comunale e provinciale n. 148 del 1915 e oggi previsto nel citato art. 39 della legge n. 142 del 1990, come è comprovato dal fatto che, in situazioni di concorso di ipotesi di scioglimento (ex legge n. 142 del 1990 ed ex art.15-bis legge n. 55 del 1990) si fa comunque luogo alla più incisiva misura prevista dalla norma impugnata (comma 6 dell'art. 15-bis citato).

 

La finalità che il legislatore ha avuto di mira, dunque, è stata quella di superare la tradizionale delimitazione del concetto di "ordine pubblico" già in precedenza legittimante provvedimenti di scioglimento di organi elettivi locali, concetto riferito alla sicurezza e alla quiete pubblica (Corte costituzionale, sent. n. 40 del 1961); l'emergenza rappresentata dal crescente condizionamento di organizzazioni criminali sui pubblici poteri in ambito locale ha determinato la necessità di un superamento di quei tradizionali e limitati istituti, in ragione del carattere realmente eversivo dell'operato della criminalità organizzata di stampo mafioso.

 

Le misure di rigore rispondono così ad esigenze generali e unitarie di difesa dello Stato dall'aggressione di contro- poteri criminali; siffatte connotazioni si riflettono del resto - osserva l'Avvocatura - nel procedimento: l'adozione della misura è affidata alla delibera del Consiglio dei Ministri - il cui intervento non è viceversa previsto nelle ipotesi "ordinarie" di scioglimento - che è trasmessa al Presidente della Repubblica per l'emanazione e contestualmente è trasmessa alle Camere, prima ancora dell'esecutività del provvedimento, per evidenti esigenze di controllo politico anticipato, laddove per l'art. 323 del T.U. n. 148 del 1915 era previsto solo un sindacato a posteriori sull'operato del Governo, e per l'art. 39 della legge n. 142 del 1990 i provvedimenti di controllo degli organi sono comunicati al termine dell'iter di formazione degli stessi.

 

Tali peculiarità sostanziali e procedimentali, in definitiva, rendono le misure di scioglimento in argomento piuttosto assimilabili allo scioglimento dei consigli regionali per ragioni di sicurezza nazionale, a norma dell'art.126, terzo comma, della Costituzione, misura cui si riconosce generalmente la natura di atto politico, non sindacabile in sede di giurisdizione amministrativa bensì in sede di conflitto di attribuzioni dinanzi alla Corte costituzionale in virtù dell'espresso disposto dell'art. 134 della Costituzione (che in ogni caso non riguarda i comuni e le province).

 

Del resto - conclude l'Avvocatura - se autorevoli opinioni attribuiscono natura di atto politico allo scioglimento di consigli comunali e provinciali per motivi di ordine pubblico già previsto dall'art. 323 del T.U. n. 148 del 1915 e ora ridisciplinato dall'art. 39 della legge n. 142 del 1990, a maggior ragione tale natura va riconosciuta al decreto emanato in base alla norma denunziata.

 

4.2.- Quanto al merito della questione, l'Avvocatura erariale ne deduce l'infondatezza sotto vari profili: a) in quanto è improprio il raffronto, istituito dal Tribunale remittente, tra la norma denunziata e gli artt. 40 della legge n. 142 del 1990 e 15 della legge n. 55 del 1990, poichè queste ultime disposizioni concernono ipotesi di rimozione e sospensione di amministratori locali sul piano individuale, laddove la prima regola situazioni di inquinamento dell'organo come tale. Il raffronto, quindi, deve essere più correttamente istituito con l'art. 39 della citata legge n. 142 del 1990, che concerne ipotesi di scioglimento del consiglio comunale a causa di anomalie o turbative riferite all'organo nella sua interezza, ipotesi in cui lo scioglimento non può essere "frazionato" a seconda della riferibilità dei fatti o delle condizioni, assunti quali presupposti di scioglimento, a questo o quello dei componenti dell'organo: emblematico lo scioglimento per "gravi motivi di ordine pubblico", in cui non si ha riguardo all'imputazione soggettiva della turbativa, che può anche essere estranea all'agire dell'organo.

 

La norma denunziata dà rilievo a un dato obiettivo e super-individuale, un "collegamento" dell'organo con la criminalità organizzata di stampo mafioso. Non pertinenti dunque risultano i riferimenti del giudice a quo alla responsabilità personale, giacchè è diverso il segno delle norme poste a raffronto, ed è altresì inesatta l'argomentazione per cui la norma sospettata di incostituzionalità presupporrebbe solo un diverso e minor grado di acquisizione probatoria a fronte delle prove o degli indizi richiesti per l'azione penale o per l'avvio del procedimento di prevenzione.

 

La disomogeneità dei termini posti a raffronto sottolinea, per questo primo profilo, l'infondatezza della questione rispetto al principio di ragionevolezza;

 

b) il principio di buon andamento alla pubblica amministrazione è invocato "a rovescio", posto che finalità primaria della norma è quella di tutelare il corretto operato amministrativo negli enti locali;

 

c) in ordine ai parametri della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 113 della Costituzione), l'Avvocatura replica che, laddove venisse esclusa la natura politica dei provvedimenti, la piena ricorribilità che ne conseguirebbe sarebbe sufficiente per escludere la lesione di questi stessi parametri;

 

d) quanto all'art. 51 della Costituzione, l'Avvocatura nega che esista una garanzia costituzionale per il "mantenimento" delle funzioni di consigliere comunale, e, quanto al diritto di elettorato attivo (art. 48 della Costituzione), sottolinea come la norma impugnata tuteli proprio la libera espressione del voto, evitando "sedimentazioni politico-amministrative di tipo illegale o conniventi con fattori criminali";

 

e) contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale remittente, l'autonomia comunale non solo non è lesa ma al contrario è valorizzata dalla introduzione di un effettivo strumento di tutela della libera determinazione degli organi elettivi locali, così frequentemente eterodiretti e condizionati dal potere criminale (artt. 5 e 128 della Costituzione);

 

f) non è ravvisabile violazione di principi costituzionali nella durata della sospensione, nè, infine, è esattamente invocato l'art. 125 della Costituzione, che concerne le - sole - regioni e non interferisce in alcun modo con la materia del giudizio a quo.

 

4.3.- In prossimità dell'udienza l'Avvocatura Generale dello Stato ha depositato una memoria nella quale, sviluppando le indicazioni già proposte nell'atto di intervento per la richiesta di declaratoria di inammissibilità o infondatezza della questione, ha sottolineato ulteriori profili nella medesima direzione; in particolare: a) in ordine ai presupposti dello scioglimento dei consigli comunali e provinciali l'Avvocatura ritiene inesatta l'interpretazione della norma denunziata operata dal giudice remittente, che incentra la questione - solo - sulla nozione di "collegamenti", diretti o indiretti, tra amministratori locali e criminalità organizzata, laddove i presupposti richiesti per far luogo allo scioglimento sono, nella legge, ben più complessi: l'art.15-bis, infatti, dà rilievo a quegli elementi in quanto produttivi di una situazione di menomazione della libera determinazione degli organi elettivi, in una effettiva relazione causale tra i primi e la seconda.

 

Non può quindi affermarsi la "labilità" delle condizioni che legittimano il provvedimento di rigore, consistendo queste nella rilevazione di una perdita o compressione dell'autonomia, politica e funzionale, degli organi, per effetto dei citati elementi di "collegamento"; nè d'altra parte sarebbe stato possibile per il legislatore predetermina re le modalità con cui viene a manifestarsi il condizionamento mafioso, il che tuttavia non attribuisce al Governo un potere arbitrario di intervento, attivandosi il procedimento solo in presenza di elementi qualificati (risultanze di indagini penali, accertamenti in sede di prevenzione), ed articolandosi il procedimento stesso su diversi livelli istituzionali;

 

b) in ordine alla censura circa la "rimozione indiscriminata" di tutti gli amministratori, l'Avvocatura erariale ribadisce che il provvedimento di scioglimento opera su un piano completamente diverso da quello che attiene alle misure individuali a carico di singoli componenti degli organi che risultino coinvolti in procedimenti penali o di prevenzione;

 

la norma denunziata rappresenta uno strumento di "difesa anticipata" delle istituzioni locali, e si colloca sul terreno della prevenzione, in cui acquistano rilievo elementi che, al di là del grado di rilevanza probatoria che possono acquistare in sede processuale ai fini della individuazione di responsabilità soggettive, dimostrano obiettivamente che l'azione dell'organo si è allontanata dai canoni di legalità e trasparenza;

 

c) in ordine, infine, alla durata degli effetti del provvedimento da dodici a diciotto mesi, l'Avvocatura osserva che tale periodo, più lungo rispetto a quello contemplato nelle ipotesi di scioglimento ex art. 39 della legge n.142 del 1990, è coerente con la finalità della norma: la misura rischierebbe di essere del tutto superflua qualora all'applicazione dello scioglimento dovesse seguire un immediato rinnovo del disciolto consiglio, assai verosimilmente riproducendosi la medesima situazione precedente allo scioglimento; la più lunga gestione commissariale è finalizzata quindi all'obiettivo di risanamento della già inquinata situazione politico- amministrativa locale.

 

Considerato in diritto

 

l.- É stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell'articolo 15-bis della legge 19 marzo 1990, n. 55 (articolo introdotto dall'art. 1 del decreto-legge 31 maggio 1991, n. 164, convertito con modificazioni dalla legge 22 luglio 1991, n. 221), il quale prevede che con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell'interno, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, possa essere disposto lo scioglimento di consigli comunali e provinciali allorchè "emergono elementi su collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata o su forme di condizionamento degli amministratori stessi, che compromettono la libera determinazione degli organi elettivi e il buon andamento delle amministrazioni comunali e provinciali, nonchè il regolare funzionamento dei servizi alle stesse affidati ovvero che risultano tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica".

 

Ad avviso del giudice a quo tale articolo, consentendo di attribuire rilevanza ai "collegamenti indiretti" con la criminalità organizzata ed e stendendo la misura anche agli amministratori non direttamente interessati da quei collegamenti, contrasterebbe: con l'art. 3 della Costituzione, nel raffronto con altre previsioni normative anch'esse dirette a reprimere la criminalità organizzata, dato che queste non solo richiedono un maggior grado di acquisizione probatoria, ai fini dell'adozione di provvedimenti di sospensione o rimozione di amministratori di organi elettivi locali, ma producono effetti più ristretti, in quanto possono riguardare soltanto i soggetti colpiti da condanne o misure di prevenzione e devono essere ancorati a dati probatori certi e verificabili; ancora con l'art. 3 della Costituzione, essendo irragionevole e lesiva del principio di "personalità della responsabilità" l'estensione della misura a tutti i consiglieri anche estranei ai "collegamenti" con la criminalità; con gli artt. 24 e 113 della Costituzione per la ridotta tutela giurisdizionale derivante dalla labilità ed incontrollabilità degli elementi sui quali il provvedimento si fondi; con l'art. 51 della Costituzione, in quanto lesivo del diritto alla prosecuzione dell'esercizio delle funzioni di consigliere comunale, sulla base di elementi normativi vaghi e generici non rispondenti alla riserva di legge ivi prevista; con l'art. 97 della Costituzione, in quanto non aderente al principio costituzionale sul piano della coerenza tra mezzo e fine perseguito. Inoltre anche in quanto stabilisce il permanere degli effetti dello scioglimento per un periodo da dodici a diciotto mesi, la disposizione impugnata contrasterebbe poi con gli artt. 5 e 128 della Costituzione, producendo l'ulteriore effetto "di una sorta di sospensione della autonomia degli enti locali... della quale è necessario corollario la rappresentatività degli organi di amministrazione"; con l'art. 48 della Costituzione perchè "ne deriva... una sospensione... del diritto di elettorato attivo" fuori dei casi ivi contemplati e, analogamente, con l'art. 51 della Costituzione per quel che riguarda l'elettorato passivo; con l'art. 24 della Costituzione, in difetto di un parametro normativo di riferimento che possa far valutare in sede di sindacato giurisdizionale la graduazione temporale della misura.

 

2.- Va preliminarmente disattesa l'eccezione di inammissibilità sollevata dal Presidente del Consiglio dei Ministri nell'assunto della natura politica dei provvedimenti di scioglimento impugnati dinanzi al giudice rimettente e che sarebbero per tale ragione insuscettibili di sindacato giurisdizionale, ai sensi dell'art. 31 del T.U. 26 giugno 1924, n. 1054.

 

Osserva in proposito la Corte che l'ordinanza di rimessione ha disatteso in modo esplicito la medesima eccezione - che era stata già dedotta nel giudizio a quo - nel "rilievo che la categoria degli atti politici, da individuare con criteri restrittivi, stante il principio della indefettibilità della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 113 della Costituzione), include gli atti che attengono alla direzione suprema e generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue istituzioni fondamentali". I provvedimenti adottati ai sensi della norma impugnata, si soggiunge nell'ordinanza, "non presentano tali requisiti, giacchè, da un lato la salvaguardia delle amministrazioni locali dalle ingerenze della criminalità organizzata risponde ad un interesse specifico e delimitato dello Stato, per quanto pressante e necessaria sia l'esigenza dell'intervento, e, d'altro lato, una volta che la norma abbia previsto i presupposti ed i contenuti del provvedimento, le valutazioni di ordine politico devono intendersi esaurite nella sede legislativa, restando al potere esecutivo il compito, che è proprio della sfera di azione della potestà amministrativa, di rendere operante il dettato della fonte primaria". In presenza di sì precisa ed argomentata presa di posizione del giudice a quo, circa l'assoggettabilità a sindacato giurisdizionale dei decreti del Presidente della Repubblica in quella sede impugnati, non può più mettersi in discussione l'ammissibilità della questione incidentale di legittimità costituzionale, essendo all'uopo sufficiente ricordare l'indirizzo di questa Corte (v. da ultimo sentenza n. 436 del 1992) secondo cui " una volta che il giudice a quo abbia ritenuto di dover fare applicazione della norma, il controllo sull'ammissibilità della questione potrebbe far disattendere la premessa interpretativa (del medesimo giudice) solo quando questa dovesse risultare palesemente arbitraria, e cioé in caso di assoluta reciproca estraneità fra oggetto della questione e oggetto del giudizio di provenienza (sent. n. 67 del 1985) o quando l'interpretazione offerta dovesse risultare del tutto non plausibile." Questi presupposti non si verificano nel caso di specie, il primo, perchè è indubitabile la pertinenza della norma impugnata rispetto al giudizio a quo, il secondo, perchè il giudice remittente offre un'interpretazione di per sè plausibile sul problema della natura politica degli atti impugnati, che viene esclusa, peraltro, alla stregua di argomenti sostenuti dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalente, ben tenuti presenti nel dibattito parlamentare sviluppatosi sulla norma ora impugnata (relazione alla Camera dei Deputati - Commissione Affari Costituzionali, resoconto 18 giugno 1991, Atto Camera n.5723).

 

3.l.- Nel merito le questioni non sono fondate.

 

Per quel che riguarda l'asserito contrasto della disposizione impugnata con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, nella parte in cui essa attribuisce rilevanza "ai collegamenti indiretti" degli amministratori con la criminalità organizzata, l'ordinanza di rinvio sostiene in primo luogo che tale disposizione, rispetto al contesto normativo nel quale deve essere inquadrata, finalizzato alla difesa delle amministrazioni locali dalle infiltrazioni della criminalità organizzata (art. 40 della legge 8 giugno 1990,n.142; legge 13 settembre 1982,n. 646; legge 27 dicembre 1956, n. 1423; legge 31 maggio 1965,n. 575 e successive modificazioni; art. 15 della legge 19 marzo 1990,n. 55; art.416- bis del codice penale) sarebbe caratterizzata, nelle premesse costitutive del provvedimento ivi contemplato, da una "diversa intensità delle acquisizioni probatorie circa i rapporti degli amministratori con la criminalità organizzata". Difatti, si sostiene che, alla stregua della disposizione impugnata, allo scioglimento dei consigli comunali e provinciali potrebbe addivenirsi "anche in presenza di elementi insufficienti sia per la promozione dell'azione penale sia , e soprattutto, per l'adozione della misura preventiva". Di conseguenza si assume che, mentre le misure di prevenzione possono fondarsi su situazioni e circostanze "aventi semplice valore indiziario, l'apprezzamento dei collegamenti con la criminalità organizzata" (richiesto per l'applicazione della norma impugnata) risulterebbe "affidato ad elementi che presentano un grado di significatività inferiore a quello degli indizi e che, pertanto, mal si prestano ad un procedimento logico di tipo induttivo e ad un successivo controllo in sede giurisdizionale"

3.2. - Ciò premesso, rileva la Corte che l'ordinanza di rinvio, nel prospettare tali dubbi di costituzionalità, muove da una lettura parziale della disposizione impugnata perchè sembra soffermarsi su uno solo dei suoi aspetti (quello dei collegamenti indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata) senza tener conto della struttura complessiva del citato art. 15-bis che è ben diverso da come viene inteso dal giudice a quo. Si sostiene difatti che esso sarebbe tale da consentire di prescindere "dall'osservanza del canone di congruità argomentativa" perchè prevederebbe che quei provvedimenti possano basarsi "su presunzioni aprioristiche", onde la sua "dubbia aderenza ai principi di ragionevolezza ... e di imparzialità ... per le insufficienti garanzie di obbiettività e di coerenza ... rispetto al fine perseguito".

 

Osserva in proposito la Corte che la disposizione impugnata è invece formulata in modo da assicurare il rispetto dei principi che si assumono violati, e contiene in sè tutti gli elementi idonei a garantire obiettività e coerenza nell'esercizio dello straordinario potere di scioglimento degli organi elettivi conferito all'autorità amministrativa.

 

Quel potere è previsto nella ricorrenza di talune situazioni, fra loro alternative, quali a) i collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata, b) le forme di condizionamento degli amministratori, ma sempre che risulti che l'una o l'altra situazione compromettano la libera determinazione degli organi elettivi e il buon andamento delle amministrazioni comunali e provinciali nonchè il regolare funzionamento dei servizi loro affidati, ovvero quando il suddetto collegamento o le suddette forme di condizionamento risultino "tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica".

 

La norma esige, perciò, una stringente consequenzialità tra l'emersione, da un lato, di una delle due situazioni suddette, "collegamenti" o "forme di condizionamento", e, dall'altro, di una delle due evenienze, l'una in atto , quale la compromissione della libertà di determinazione e del buon andamento amministrativo nonchè del regolare funzionamento dei servizi, l'altra conseguente ad una valutazione di pericolosità, espressa dalla disposizione impugnata con la formula (che ha come premessa i "collegamenti" o le "forme di condizionamento") "tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica".

 

3.3. - Non può perciò condividersi, alla stregua dell'analisi della disposizione impugnata, l'assunto del giudice a quo, secondo cui l'applicazione dell'art. 15-bis della legge in questione sarebbe affidata ad elementi "che presentano un grado di significatività inferiore a quello degli indizi e che, pertanto, mal si prestano ad un procedimento logico di tipo induttivo e ad un successivo controllo in sede giurisdizionale"; nè può aderirsi alla sua opinione secondo cui la disposizione stessa potrebbe legittimare provvedimenti fondati su "convincimenti che, prescindendo dall'osservanza del canone di congruità argomentativa e conclusiva, possono basarsi su considerazioni aprioristiche". É invece la stessa prevista connessione tra situazione emersa ed evenienza pregiudizievole ad esigere, nella motivazione del provvedimento, la dimostrazione che, muovendo dalla accertata constatazione della sussistenza di una delle due situazioni anzidette, possano farsi risalire ad essa quella compromissione o quel pregiudizio cui il legislatore ha inteso ovviare nel prevedere la misura. Un obbligo, quello della adeguatezza della motivazione, che, anche prima di essere espressamente previsto in via generale dall'art. 3 della legge n. 241 del 1990, era già imposto dalla costante giurisprudenza amministrativa in modo rigoroso per gli atti amministrativi - come quelli previsti dalla disposizione impugnata - restrittivi della sfera giuridica dei destinatari.

 

Si è difatti sempre affermato il principio che in questo particolare tipo di atti si debba adeguatamente dar conto della sussistenza dei presupposti di fatto, del nesso logico fra questi e le determinazioni che, muovendo da essi, vengono adottate, della congruità dei sacrifici operati in relazione alle finalità da perseguire.

 

3.4. - Ad escludere che la norma, intesa in modo conforme alla sua struttura complessiva ed agli scopi che si propone, possa dar luogo ad interpretazioni tali da dar corpo ai sollevati dubbi di costituzionalità relativamente ai parametri invocati, soccorre d'altronde il significato che ad essa è stato attribuito dalla circolare esplicativa (n. 7102 M/6 del 25 giugno 1991) del Ministero dell'Interno, sul punto dei presupposti che debbono sorreggere i provvedimenti di scioglimento. In tale circolare si afferma che dagli "elementi" oggetto di valutazione debba emergere "chiaramente il determinarsi di uno stato di fatto nel quale il pro cedimento di formazione della volontà degli amministratori subisca alterazioni per effetto dell'interferenza di fattori, esterni al quadro degli interessi locali, riconducibili alla criminalità organizzata".

 

Vi è dunque la piena consapevolezza, da parte dell'autorità che deve applicare la norma, che questa renda possibile lo straordinario potere di scioglimento solo in presenza di situazioni di fatto evidenti e quindi necessariamente suffragate da obiettive risultanze che rendano attendibili le ipotesi di collusioni anche indirette degli organi elettivi con la criminalità organizzata, sì da rendere pregiudizievole per i legittimi interessi delle comunità locali il permanere di quegli organi alla guida degli enti esponenziali di esse.

 

Si è in presenza perciò di una misura di carattere sanzionatorio, che ha come diretti destinatari gli organi elettivi, anche se caratterizzata da rilevanti aspetti di prevenzione sociale per la sua ricaduta sulle comunità locali che la legge intende sottrarre, nel loro complesso, all'influenza della criminalità organizzata. Una misura di carattere straordinario, dunque, rigorosamente ancorata alle finalità enunciate nel titolo della legge 22 luglio 1991, n.221, di conversione del decreto-legge 31 maggio 1991, n. 164 che la qualifica come "misura urgente ... conseguente ai fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso". Tale qualificazione, collegando la misura ad una emergenza straordinaria, attribuisce a quell'emergenza il valore di limite e di misura del potere, esercitabile perciò solo nei luoghi e fino a quando si manifesti tale straordinario fenomeno eversivo.

 

3.5.- Le considerazioni che precedono mettono in evidenza la specificità della previsione e giustificano così compiutamente le sue peculiarità anche rispetto al restante contesto normativo finalizzato alla difesa della collettività dalle infiltrazioni mafiose. Ciò induce a disattendere il dubbio di costituzionalità prospettato in riferimento al principio di ragionevolezza (art. 3 della Costituzione) e di imparzialità (art. 97 della Costituzione), sotto il profilo delle insufficienti garanzie di obbiettività e di coerenza rispetto sia al fine perseguito, sia al modello procedimentale previsto dalle altre disposizioni assunte quali termini di confronto. Queste collegano la sospensione e la rimozione degli amministratori all'avvenuta irrogazione di altra misura preventiva, limitandole solo a coloro cui questa sia stata appunto irrogata, e subordinandole a "riscontri probatori meno labili e verificati dall'osservanza del principio del contraddittorio".

 

Osserva al riguardo la Corte che la rilevata diversità della misura in esame, rispetto ai modelli procedimentali previsti da altre disposizioni invocate a raffronto, non è irragionevole, ove si consideri l'enunciata specificità della misura che, come si è rilevato in precedenza (punto 3.4), ha natura sanzionatoria nei confronti dell'organo elettivo, considerato nel suo complesso, in ragione della sua inidoneità ad amministrare l'ente locale. Tale natura del provvedimento di scioglimento e la specificità del suo destinatario (organo collegiale) impediscono perciò di poter assumere a termine di raffronto i modelli che riguardano persone singole ed in particolare quelli che prevedono la loro sospensione o la rimozione da cariche pubbliche a seguito della irrogazione di condanne penali o di misure preventive.

 

3.6.- La irragionevolezza della norma impugnata non può neppure sostenersi sotto il profilo, prospettato nell'ordinanza di rinvio, di eccessività del mezzo rispetto al fine, ravvisabile nella prevista possibilità di estensione della misura a tutti gli amministratori, pur in presenza del collegamento solo di alcuni di essi con la criminalità organizzata. In proposito è sufficiente richiamare quanto osservato in precedenza, circa il carattere sanzionatorio della misura che ha come destinatari non tutti i consiglieri, ma l'organo collegiale considerato nel suo complesso, in ragione della sua inidoneità a gestire la cosa pubblica. Un rilievo, questo, che fa perdere ogni consistenza sia al pro filo della eccessività della misura rispetto al fine, sia al profilo del carattere personale della responsabilità, che non può essere riferito ad un organo collegiale, in particolare nell'ipotesi, alternativa a quella della collusione, del "condizionamento" dell'organo da parte dei gruppi criminali; situazione questa che può profilarsi non necessariamente in conseguenza di comportamenti illegali di taluno degli amministratori.

 

Avendo dunque come destinatari i consigli comunali e provinciali, la misura può essere per molti versi assimilata a quella prevista dall'art. 39, comma 1, lettera a, della legge n. 142 del 1990, che contempla lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali "per gravi motivi d'ordine pubblico".

 

Per il comune fondamentale connotato della regolazione di ipotesi di diminuita o cessata idoneità dell'organo collegiale come tale e non di suoi singoli componenti, e per l'analoga previsione col laterale di uno strumento di controllo parlamentare sull'adozione del provvedimento (rispettivamente, comma 2 della disposizione denunciata e art. 39, comma 6, della legge n. 142 del 1990), anzi, la misura in argomento può considerarsi una specificazione di quella contemplata nell'art. 39 citato, per la cui irrogazione neppure è previsto, nella fase amministrativa, "il contraddittorio". Un elemento questo con cui l'ordinanza di rinvio ha inteso probabilmente riferirsi alla preventiva contestazione degli addebiti e alla possibilità di dedurre in ordine ad essi nel corso del procedimento. La mancanza di tale previsione nel procedimento amministrativo relativo alle ipotesi di scioglimento, così assimilate, appare giustificata dalla loro peculiarità, essendo quelle misure caratterizzate dal fatto di costituire la reazione dell'ordinamento alle ipotesi di attentato all'ordine ed alla sicurezza pubblica.

 

Una evenienza dunque che esige interventi rapidi e decisi, il che esclude che possa ravvisarsi l'asserito contrasto con l'art. 97 della Costituzione, dato che la disciplina del procedimento amministrativo è rimessa alla discrezionalità del legislatore nei limiti della ragionevolezza e del rispetto degli altri principi costituzionali, fra i quali, secondo la giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 23 del 1978; ord. n.503 del 1987), non è compreso quello del "giusto procedimento" amministrativo, dato che la tutela delle situazioni soggettive è comunque assicurata in sede giurisdizionale dagli artt. 24 e 113 della Costituzione.

 

4.- Alla luce di quanto precede devono essere disattese anche le censure che invocano come parametro di riferimento gli artt. 24 e 113 della Costituzione e che sono svolte nell'assunto che "le indicate carenze si riflettono in senso riduttivo sulla pienezza della tutela giurisdizionale, perchè quanto meno è percepibile l'efficacia rappresentativa degli elementi sui quali poggia l'accertamento dei rapporti con la criminalità organizzata, tanto più si riduce la possibilità di controllare, nel giudizio di legittimità, l'operato dell'amministrazione".

 

Osserva in proposito la Corte che, come è stato chiarito in altre occasioni (sent. n. 409 del 1988), gli interessi legittimi correlati all'azione amministrativa non hanno una soglia costituzionalmente garantita, ma sono configurabili, nella loro effettiva consistenza, in relazione alla disciplina sostanziale di rango ordinario di volta in volta presa in considerazione.

 

Di conseguenza, una volta salvaguardati nei confronti dell'amministrazione i diritti fondamentali ed il principio di uguaglianza, ed assicurata la relativa tutela giurisdizionale, gli interessi procedimentali (cioè quelli che attengono alla regolarità formale dell'azione amministrativa) assurgono ad interessi legittimi alla stregua della disciplina che li contempla, perchè è essa che ne de finisce la misura ed il contenuto in base ai quali possono poi essere fatti valere dinanzi al giudice. I modelli organizzativi o procedimentali, come è stato chiarito (sent. n. 409 del 1988 cit.), sono molteplici ed articolati, per cui la legittimità delle norme che li prevedono non può essere affermata solo allorchè essi consentano un sindacato il più penetrante possibile, ma deve essere considerata nel contemperamento con tutti gli altri principi costituzionali.

 

Ciò premesso, va richiamato quanto si è osservato, secondo cui l'adozione dei provvedimenti di scioglimento degli organi elettivi locali è ancorata alla ricorrenza di alcune situazioni di fatto in connessione con il verificarsi di certe conseguenze reputate pregiudizievoli. Si è anche osservato che la norma impugnata non esclude affatto che il provvedimento di scioglimento debba essere motivato con riferimento a risultanze obbiettive circa l'effettiva sussistenza di quelle situazioni, nonchè argomentato in modo plausibile sulle conseguenze che da esse siano derivate o possano derivare sul piano della funzionalità e della imparzialità degli organi stessi o su quello della sicurezza pubblica. Ma appare pur sempre evidente che, una volta assicurati quegli adempimenti, deve ritenersi, in armonia con i principi costituzionali, che l'autorità che deve provvedere sia dotata di poteri latamente discrezionali per valutare - nel suo prudente apprezzamento e con riferimento a tutto il contesto delle circostanze prese in considerazione, nel quadro del particolare fenomeno della criminalità organizzata - le conseguenze pregiudizievoli che ritenga si siano prodotte o possano prodursi sul terreno degli interessi pubblici da salvaguardare.

 

Orbene, anche in presenza di tale latitudine di apprezzamenti, la garanzia della tutela giurisdizionale appare sufficientemente assicurata dalla possibilità, per il giudice amministrativo, di verificare la sussistenza degli elementi di fatto - "precisi", secondo quanto affermato nella citata circolare del Ministero dell'Interno - quali vengono asseriti nella motivazione, che all'uopo deve essere fornita dall'organo che emana il provvedimento di scioglimento, nonchè di valutare, sotto il profilo della logicità, il significato attribuito agli elementi di fatto su cui ci si fondi, e l'iter seguito per pervenire a certe conclusioni. Del resto, la consistenza fattuale degli "elementi" su cui le misure di scioglimento devono essere fondate si accentua ulteriormente in rapporto alle fonti informative da cui quegli elementi sono rilevati, trattandosi di risultanze che conseguono a poteri di accesso e di verifica delle autorità preposte alla tutela dell'ordine pubblico e alla lotta contro i fenomeni di criminalità organizzata. Tali poteri a loro volta sono puntualmente disciplinati e delimitati nei rispettivi presupposti sostanziali di esercizio: accesso del prefetto presso gli enti territoriali e locali, i cui amministratori vengono raggiunti da provvedimenti di sospensione o decadenza per effetto di condanne penali o misure di prevenzione (art. 15, comma 5, in relazione al comma 1, della legge n. 55 del 1990); accesso del Ministro dell'interno, del direttore della Direzione investigativa antimafia o del prefetto nell'ambito di pubbliche amministrazioni, allorchè siano riscontrate "infiltrazioni" di tipo mafioso nell'ambito dell'attività contrattuale concernente opere o lavori pubblici (art. 16, legge n. 55 del 1990 cit., in relazione all'art. 2 del d.l. 29 ottobre 1991, n. 345 convertito in legge 30 dicembre 1991, n. 410); analogo intervento, dei medesimi organi, nell'ambito delle verifiche previste dagli artt. 1 e 1-bis del d.l. 6 settembre 1982, n.629, convertito in legge 12 ottobre 1982, n. 726, già istitutivo dell'Alto Commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa.

 

Tutta una serie di elementi, questi, che portano ad escludere anche il ravvisato dubbio di costituzionalità in riferimento agli artt. 24 e 113 della Costituzione.

 

5.l. - Altro gruppo di censure riguarda la parte dell'art.15-bis che prevede la protrazione degli effetti dello scioglimento per la durata da dodici a diciotto mesi. Questa previsione contrasterebbe, per il giudice remittente, come si è già ricordato, con il principio di ragionevolezza (art. 3 della Costituzione) sotto il profilo "dell'adeguatezza del mezzo al fine"; con l'art. 48, secondo comma, della Costituzione, poichè limiterebbe, per la prevista durata, il diritto di elettorato attivo al di là delle ipotesi contemplate da esso; con l'art. 51 della Costituzione, ponendo non consentiti limiti all'elettorato passivo; con gli artt. 5 e 128 della Costituzione, poichè da tale protrazione deriverebbe una sorta di sospensione dell'autonomia degli enti locali, della quale è tradizionale e necessario corollario la rappresentatività degli organi di amministrazione; con l'art.24 della Costituzione, perchè la durata degli effetti dello scioglimento dell'organo elettivo sarebbe rimessa alla insindacabile discrezionalità dell'amministrazione, mancando qualsiasi parametro normativo per la graduazione temporale della misura.

 

5.2.- Osserva la Corte, per quel che riguarda l'art. 3 della Costituzione, che la possibilità del protrarsi degli effetti dello scioglimento, al di là dei tre mesi previsti dall'art. 39 della legge n. 142 del 1990, non appare irragionevole, perchè è collegata alla peculiarità del fenomeno, in ragione del quale è prevista nelle more la ricostituzione dell'organo elettivo per un periodo più lungo rispetto a quello indicato per le altre ipotesi di scioglimento, non legate al fenomeno della criminalità; ciò che trova una sua ragionevole giustificazione nell'esigenza di evitare il riprodursi del fenomeno, ove si sia manifestato: un'evenienza questa che sarebbe certamente più probabile ove la ricostituzione dell'organo fosse immediata. Il protrarsi degli effetti dello scioglimento può difatti consentire, nel frattempo, di intervenire sul terreno del ripristino della legalità, della eliminazione degli effetti prodotti dall'inquinamento criminoso, della creazione di condizioni nuove che, avvalendosi della precedente esperienza, permettano la ripresa della vita amministrativa al riparo dai collegamenti e dai condizionamenti cui si era voluto ovviare con lo scioglimento. Coerente con questa finalità, sottesa alla determinazione legale della durata minima e massima della misura, risulta del resto la prevista prevalenza dello scioglimento in base alla norma denunziata, allorchè con esso concorra una ipotesi di scioglimento dell'organo a norma del già richiamato art. 39 della legge n. 142 del 1990, secondo quanto dispone il comma 6 della disposizione censurata: tale previsione - che rappresenta una ulteriore conferma del rapporto di sostanziale specificazione che intercorre tra i due istituti - mira ad evitare che lo strumento dello scioglimento adottato ex art. 15-bis possa essere vanificato dalle dimissioni di almeno la metà dei consiglieri, le quali comporterebbero lo svolgimento di nuove elezioni appunto entro tre mesi, a norma dell'art. 39, legge n. 142 del 1990.

 

5.3.- Quanto all'asserito contrasto con gli artt. 48 e 51 della Costituzione, la censura è manifestamente inammissibile in quanto i parametri costituzionali invocati sono completamente estranei all'ipotesi in esame. L'art. 48, terzo comma, della Costituzione prevede la possibilità di limitazioni del diritto di elettorato attivo con riferimento a situazioni che riguardano la persona di ciascun elettore, singolarmente considerato.

 

Così parimenti l'art. 51, primo comma, posto anche in relazione con l'art.3 della Costituzione, tende ad evitare ogni discriminazione fra i soggetti dell'ordinamento, quanto alla possibilità di accesso agli uffici pubblici ed alle cariche elettive. Nella specie non si è in presenza nè di limitazioni legate al diritto di voto del singolo, nè di limitazioni all'accesso alle cariche elettive, derivanti da condizioni personali del cittadino, bensì di effetti indiretti della misura sanzionatoria in questione che, come si è detto, è diretta a colpire non i singoli componenti dei consigli elettivi nè, tantomeno, i cittadini, singolarmente considerati, del comune o della provincia, bensì l'organo elettivo nel suo complesso, al verificarsi di taluni presupposti di fatto, valutati in ragione delle pregiudizievoli evenienze che possono produrre. Una misura, quindi, che solo indirettamente si riflette su tutti i cittadini di quel determinato comune o di quella determinata provincia, non per conculcare i diritti di ciascuno di essi ma, al contrario, proprio in vista della già ravvisata esigenza di preservare la parte sana della comunità locale dall'influenza delle organizzazioni criminali.

 

5.4.- Quanto poi al prospettato contrasto con gli artt. 5 e 128 della Costituzione della censurata durata, per un periodo da dodici a diciotto mesi, degli effetti dello scioglimento, la questione è infondata perchè, pur essendosi in presenza di una misura che può essere annoverata nella categoria del controllo sugli organi, essa è ispirata - a differenza che in altre ipotesi di scioglimento in cui è previsto un minor intervallo temporale per la ricostituzione di quelli disciolti - dalla particolare esigenza più volte qui messa in evidenza. Si giustifica perciò che l'aspetto proprio delle autonomie, quale quello della rappresentatività degli organi di amministrazione, possa temporaneamente cedere di fronte alla necessità di assicurare l'ordinato svolgimento della vita delle comunità locali, nel rispetto delle libertà di tutti ed al riparo da soprusi e sopraffazioni, estremamente probabili quando sui loro organi elettivi la criminalità organizzata possa immediatamente riprendere ad esercitare pressioni e condizionamenti.

 

5.5.- Infondata è anche la censura formulata in riferimento all'art. 24 della Costituzione. Diversamente da quanto si asserisce nell'ordinanza, se è vero che la durata degli effetti è determinata sulla base di un potere discrezionale dell'amministrazione, la sua latitudine è pur sempre delimitata dalla valutazione della situazione in concreto riscontrata in relazione all'estensione dell'influenza criminale così come manifestatasi.

 

La determinazione della durata è, perciò, per sua natura legata alla valutazione di cui si deve dare necessariamente conto alla stregua dei principi generali in tema di motivazione degli atti amministrativi: il che costituisce sicuro limite al possibile arbitrio, condizionando il potere dell'organo che deve determinare la durata degli effetti dello scioglimento e, quindi, consentendo il sindacato giurisdizionale sulla congruità e logicità della valutazione compiuta anche per questa parte del provvedimento.

 

5.6.- Relativamente alla previsione per ultimo presa in considerazione, l'ordinanza fa anche riferimento all'art. 125 della Costituzione, senza svolgere alcun argomento che possa giustificare tale richiamo. La questione è pertanto manifestamente inammissibile, non ravvisandosi alcuna attinenza con essa del parametro costituzionale invocato.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 15- bis della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), introdotto dall'art. 1 del decreto-legge 31 maggio 1991, n. 164 (Misure urgenti per lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali e degli organi di altri enti locali, conseguente a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso), convertito con modificazioni dalla legge 22 luglio 1991, n.221, sollevate con l'ordinanza indicata in epigrafe dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, in riferimento agli artt. 48, 51 e 125 della Costituzione;

 

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art.15-bis sopraindicato, sollevate con la stessa ordinanza in riferimento agli artt. 3, 5, 24, 97, 113 e 128 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella Sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10/03/93.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Vincenzo CAIANIELLO, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 19/03/93.