Sentenza n. 81 del 1993

SENTENZA N. 81

ANNO 1993

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Giudici

Dott. Francesco GRECO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 266 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa l'8 aprile 1992 dal Pretore di Macerata nel procedimento penale a carico di Viele Soccorsa, iscritta al n. 419 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell'anno 1992.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 16 dicembre 1992 il Giudice relatore Antonio Baldassarre.

Ritenuto in fatto

l.- Nel corso di un giudizio penale, instaurato a seguito dell'opposizione proposta dall'imputata Viele Soccorsa avverso il decreto penale di condanna con il quale la si accusava, tra l'altro, del reato di molestia o disturbo alle persone commesso con il mezzo del telefono, a fronte della richiesta del pubblico ministero di produrre in giudizio un tabulato recante l'indicazione delle ore e dei giorni nei quali dall'utenza telefonica intestata all'imputata, o comunque nella disponibilità della stessa, erano state effettuate chiamate dirette ad altra utenza, intestata alla persona offesa e querelante, la difesa dell'imputata aveva dedotto l'irritualità e, quindi, l'inammissibilità di tale mezzo di prova, in quanto acquisito dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari senza le particolari garanzie assicurate dal codice di rito a cautela delle intercettazioni telefoniche.

Nell'esaminare la fondatezza di tale contestazione, il pretore di Macerata, tenuto a provvedere circa l'ammissibilità delle prove richieste dalle parti per l'udienza dibattimentale, con l'ordinanza indicata in epigrafe ha ritenuto rilevante per la risoluzione di tale controversia preliminare e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 266 c.p.p. in riferimento all'art. 15 della Costituzione.

Il giudice rimettente riconosce che la norma impugnata, così come interpretata costantemente dalla giurisprudenza formatasi anche sotto il vigore del precedente codice di procedura penale, definisce come intercettazione telefonica soltanto l'azione diretta a consentire la presa di cognizione del contenuto di una conversazione intercorrente tra altre persone e, conseguentemente, esige solo per operazioni di tale genere le cautele assicurate dagli artt. 266 e seguenti c.p.p., negando altresì la applicabilità delle stesse garanzie processuali per la esecuzione di ogni altra operazione tecnica che consenta l'acquisizione di informazioni diverse dal contenuto della conversazione. Ma, proprio in virtù di tale interpretazione, il giudice a quo ritiene che l'art.266 c.p.p. sia in contrasto con il principio di inviolabilità e segretezza della corrispondenza, sancito dall'art. 15 della Costituzione.

É opinione del pretore rimettente, infatti, che la norma costituzionale, nel tutelare l'inviolabilità della libertà e della segretezza d'ogni forma di comunicazione, consentendone la limitazione solo per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei casi e nei modi stabiliti dalla legge, considera l'oggetto di tale tutela nel suo contenuto più esteso, come un aspetto della fondamentale condizione di libertà della persona. A suo avviso, si impone, pertanto, che, a norma dell'art. 15 della Costituzione, sia assicurato, non solo che estranei non vengano a conoscenza del contenuto di una certa conversazione, ma anche che resti riservato il fatto stesso che una persona abbia voluto comunicare con altra persona in una determinata occasione.

É vero, continua il giudice a quo, che parte della dottrina ha negato che tale interesse al segreto abbia una copertura costituzionale.

Ma questa affermazione, fatta per lo più in relazione alla corrispondenza epistolare o postale in genere (laddove il mezzo esige che siano noti i nomi del destinatario e del mittente), non può valere quando la comunicazione sia effettuata con il telefono, cioè con un mezzo la cui scelta come strumento tecnico di conversazione denota la volontà del soggetto di mantenere riservata l'identità delle persone tra le quali intercorre la comunicazione.

Se così è, conclude il giudice a quo, anche le informazioni esterne alla conversazione (destinatario, tempo, frequenza, ecc.) possono possedere una accentuata valenza divulgativa di notizie caratterizzanti la personalità dell'autore, tale da essere oggetto di un diritto costituzionale della persona a mantenerle riservate. Sicchè deve ritenersi di dubbia conformità rispetto all'art. 15 della Costituzione la norma contenuta nell'art. 266 c.p.p., nella parte in cui limita alle sole operazioni di intercettazione del contenuto di conversazioni telefoniche le garanzie e le cautele stabilite nel capo quarto del titolo terzo del libro terzo (artt. 266 - 271) del codice di procedura penale.

2.- Il Presidente del Consiglio dei Ministri si è costituito in giudizio per chiedere che la questione di legittimità costituzionale sollevata dal pretore di Macerata sia dichiarata non fondata.

Dopo aver dato atto che anche da parte del giudice rimettente non si contesta che la definizione normativa di intercettazione telefonica, intesa univocamente dalla giurisprudenza come registrazione o presa di conoscenza di una conversazione intercorsa tra altre persone, non ricomprende l'acquisizione di informazioni relative al fatto storico della conversazione telefonica e che, quindi, la relativa operazione tecnica non è, allo stato, assistita dalle garanzie apprestate dagli artt. 266 e seguenti c.p.p., la difesa erariale afferma che nella previsione dell'art. 15 della Costituzione non è ricompresa anche la tutela circa la riservatezza della notizia dell'avvenuto collegamento tra due utenze telefoniche.

A sostegno di questa convinzione, l'Avvocatura dello Stato ricorda la estrema facilità con cui avvengono tali acquisizioni documentali, in relazione a fatti di cui l'ente gestore del servizio ha la normale disponibilità principalmente per ragioni di contabilità e che, pertanto, sono ordinariamente a disposizione dell'utente quando questi desidera controllare l'uso del proprio apparecchio. Si tratterebbe, dunque, di acquisizioni documentali che, ove rilevanti a fini probatori, sarebbero regolate dalle disposizioni degli artt. 187 e seguenti c.p.p. e, particolarmente, dall'art. 256, primo comma, c.p.p., che consente all'autorità giudiziaria di richiedere atti e documenti di cui i soggetti indicati negli artt. 200 e 201 c.p.p. (tra i quali potrebbe farsi rientrare anche l'ente gestore del servizio pubblico di telefonia) abbiano la disponibilità in ragione del loro ufficio.

Considerato in diritto

l.- Nel corso di un giudizio penale instaurato a seguito di un'opposizione a un decreto di condanna per molestie o disturbo alle persone a mezzo del telefono, il pretore di Macerata, trovandosi a decidere dell'ammissibilità come mezzo di prova di un tabulato, recante l'indicazione delle telefonate effettuate dalla persona imputata a quella offesa con specificazione dei giorni e delle ore delle stesse, e avendo constatato che il tabulato medesimo era stato acquisito dal pubblico ministero durante le indagini preliminari senza le particolari cautele assicurate dal codice di rito alle intercettazioni telefoniche, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art.15 della Costituzione, nei confronti dell'art. 266 c.p.p., nella parte in cui limita alle sole operazioni di intercettazione del contenuto di conversazioni telefoniche le garanzie stabilite nel libro terzo, titolo terzo, capo quarto (artt.266 - 271) del codice di procedura penale.

Tale pronunzia additiva, precisa il giudice a quo, è richiesta sul presupposto che l'art. 266 c.p.p., essendo circoscritto, per costante orientamento giurisprudenziale, all'intercettazione del contenuto di una conversazione telefonica intercorrente tra altre persone, ometterebbe di tutelare con le stesse garanzie applicabili alle intercettazioni telefoniche anche il diritto al segreto sul fatto storico dell'intervenuta comunicazione e sulla identità dei soggetti autori della conversazione telefonica, diritto che, a parere del giudice rimettente, rientra nella protezione accordata dall'art. 15 della Costituzione alla inviolabilità e alla libertà di ogni forma di comunicazione.

2.- La questione non è fondata, nei sensi di cui in motivazione.

Come questa Corte ha da tempo affermato (v. sentenza n. 34 del 1973), nell'art. 15 della Costituzione "trovano protezione due distinti interessi: quello inerente alla libertà e alla segretezza del le comunicazioni, riconosciuto come connaturale ai diritti della personalità definiti inviolabili dall'art. 2 della Costituzione, e quello connesso all'esigenza di prevenire e reprimere i reati, vale a dire ad un bene anch'esso oggetto di protezione costituzionale" (v. anche sentt. nn. 120 del 1975, 98 del 1976, 223 del 1987, 366 del 1991).

L'art. 266 c.p.p. e, più in generale, le disposizioni contenute nel capo quarto, del titolo terzo, libro terzo, del codice di procedura penale costituiscono un'attuazione per via legislativa dei predetti principi, che, al pari delle norme similari previste nel codice di rito previgente, stabilisce una disciplina complessiva delle intercettazioni telefoniche in relazione ai poteri d'indagine a fini di repressione penale e alla loro utilizzabilità come mezzi di prova in giudizio.

Più precisamente le anzidette disposizioni stabiliscono i li miti di ammissibilità delle intercettazioni telefoniche (art.266), i presupposti e le forme dei provvedimenti che ne dispongono l'effettuazione (art. 267), lo svolgimento puntuale delle conseguenti operazioni (art. 268), i modi e i limiti di conservazione della documentazione delle intercettazioni stesse (art. 269) e, infine, l'utilizzabilità di queste ultime in altri procedimenti e i relativi divieti (artt. 270 e 271).

Le speciali garanzie previste dalle norme appena ricordate a tutela della segretezza e della libertà di comunicazione telefonica rispondono all'esigenza costituzionale per la quale l'inderogabile dovere di prevenire e di reprimere reati deve essere svolto nel più assoluto rispetto di particolari cautele dirette a tutelare un bene, l'inviolabilità della segretezza e della libertà delle comunicazioni, strettamente connesso alla protezione del nucleo essenziale della dignità umana e al pieno sviluppo della personalità nelle formazioni sociali (art. 2 della Costituzione).

In altri termini, il particolare rigore delle garanzie previste dalle disposizioni prima citate intende far fronte alla formidabile capacità intrusiva posseduta dai mezzi tecnici usualmente adoperati per l'intercettazione delle comunicazioni telefoniche, al fine di salvaguardare l'inviolabile dignità dell'uomo da irreversibili e irrimediabili lesioni.

3.- Ciò posto, non vi può esser dubbio che, conformemente a quanto afferma la giurisprudenza di merito, la particolare disciplina predisposta dagli artt. 266-271 c.p.p. sulle intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni telefoniche si applica soltanto a quelle tecniche che consentono di apprendere, nel momento stesso in cui viene espresso, il contenuto di una conversazione o di una comunicazione, contenuto che, per le modalità con le quali si svolge, sarebbe altrimenti inaccessibile a quanti non siano parti della comunicazione medesima.

Questa delimitazione del campo di applicabilità degli articoli contenuti nel capo quarto, titolo terzo, libro terzo, del codice di procedura penale non è, come sembra presupporre il giudice a quo, la conseguenza logica di un particolare orientamento interpretativo, volto a caratterizzare in senso restrittivo un concetto, quale quello di intercettazione, astrattamente suscettibile di interpretazioni più estensive.

Al contrario, la riferibilità delle disposizioni indicate esclusivamente all'intercettazione del contenuto di conversazioni telefoniche si deduce con estrema chiarezza dal complesso delle norme previste in quegli articoli, le quali descrivono operazioni e modalità di azione in grado di assumere un qualche significato normativo soltanto ove siano poste in relazione con l'apprensione e l'acquisizione del contenuto di comunicazioni (v. specialmente gli artt. 268 e 269 c.p.p., nonchè anche gli artt. 89 e 90 disp. att. c.p.p.).

Sotto il profilo indicato, la richiesta del giudice a quo di una pronunzia additiva, volta ad estendere le garanzie previste dagli artt. 266-271 c.p.p. per l'intercettazione del contenuto di conversazioni telefoniche a qualsiasi altra acquisizione a fini probatori di notizie riguardanti il fatto storico della avvenuta comunicazione, non può essere accolta.

A tale conclusione, come si è appena precisato, ostano i contenuti normativi del- le disposizioni della cui legittimità costituzionale dubita il giudice a quo, dal momento che essi sono conformati esclusivamente a operazioni relative all'intercettazione del contenuto di conversazioni (telefoniche) e non sono, per- tanto, estensibili a differenti forme di intervento nella sfera di riservatezza delle comunicazioni tra privati, nè ad aspetti diversi da quello attinente al contenuto delle comunicazioni medesime (identità dei soggetti, tempo e luogo della conversazione).

4.- D'altra parte, fermi restando i limiti di oggetto e di disciplina delle norme processuali sulle intercettazioni telefoniche, non può non essere condivisa la prospettazione avanzata dal giudice a quo in ordine alla ampiezza della tutela accordata dall'art. 15 della Costituzione alla libertà e alla segretezza della comunicazione, la quale è sicuramente tale da ricomprendere fra i propri oggetti anche i dati esteriori di individuazione di una determinata conversazione telefonica. In altri termini, l'ampiezza della garanzia apprestata dall'art. 15 della Costituzione alle comunicazioni che si svolgono tra soggetti predeterminati entro una sfera giuridica protetta da riservatezza è tale da ricomprendere non soltanto la segretezza del contenuto della comunicazione, ma anche quella relativa all'identità dei soggetti e ai riferimenti di tempo e di luogo della comunicazione stessa.

Infatti, a partire dalla sentenza n. 34 del 1973, è costante affermazione di questa Corte che "la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altro mezzo di comunicazione costituiscono un diritto dell'individuo rientrante tra i valori supremi costituzionali, tanto da essere espressamente qualificato dall'art. 15 della Costituzione come diritto inviolabile" (v., da ultimo, sent.n. 366 del 1991). Come la stessa Corte ha ribadito di recente (v. sent. n.10 del 1993), la stretta attinenza della libertà e della segretezza della comunicazione al nucleo essenziale dei valori della personalità - attinenza che induce a qualificare il corrispondente diritto "come parte necessaria di quello spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana" (v. sent. n. 366 del 1991) - comporta un particolare vincolo interpretativo, diretto a conferire a quella libertà, per quanto possibile, un significato espansivo.

Sulla base di tali premesse, la Corte ha desunto dall'art.15 della Costituzione la protezione di una sfera privata attinente alla comunicazione tra due o più soggetti, nella misura e nei limiti in cui a tale sfera possa essere riferibile un valore espressivo e identificativo della personalità umana e della vita di relazione nella quale questa si svolge (art. 2 della Costituzione), assegnando alla stessa una posizione privilegiata al fine di salvaguardare l'intangibilità degli aspetti più significativi della vita intima della persona (v.specialmente sent. n. 366 del 1991).

Per le ragioni ora esposte non può non concordarsi con il giudice a quo allorchè afferma che l'art. 15 della Costituzione, in mancanza delle garanzie ivi previste, preclude la divulgazione o, comunque, la conoscibilità da parte di terzi delle informazioni e delle notizie idonee a identificare i dati esteriori della conversazione telefonica (autori della comunicazione, tempo e luogo della stessa), dal momento che, facendone oggetto di uno specifico diritto costituzionale alla tutela della sfera privata attinente alla libertà e alla segretezza della comunicazione, ne affida la diffusione, in via di principio, all'esclusiva disponibilità dei soggetti interessati.

Più precisamente, il riconoscimento e la garanzia costituzionale della libertà e della segretezza della comunicazione comportano l'assicurazione che il soggetto titolare del corrispondente diritto possa liberamente scegliere il mezzo di corrispondenza, anche in rapporto ai diversi requisiti di riservatezza che questo assicura sia sotto il profilo tecnico, sia sotto quello giuridico. E non v'è dubbio che, una volta che una persona abbia prescelto l'uso del mezzo telefonico, vale a dire l'utilizzazione di uno strumento che tecnicamente assicura una segretezza più estesa di quella riferibile ad altri mezzi di comunicazione (postali, telegrafici, etc.), ad essa, in forza dell'art. 15 della Costituzione, va riconosciuto il diritto di mantenere segreti tanto i dati che possano portare all'identificazione dei soggetti della conversazione, quanto quelli relativi al tempo e al luogo dell'intercorsa comunicazione. Nello stesso tempo, sempre in forza dell'art. 15 della Costituzione, non può negarsi che al riconoscimento di tale diritto sia coessenzialmente legata la garanzia consistente nel dovere, posto a carico di tutti coloro che per ragioni professionali vengano a conoscenza del contenuto e dei dati esteriori della comunicazione, di mantenere il più rigoroso riserbo sugli elementi appena detti. Se questa garanzia non ci fosse, infatti, risulterebbe vanificato il contenuto del diritto che l'art. 15 della Costituzione intende assicurare al patrimonio inviolabile di ogni persona in relazione a qualsiasi forma di comunicazione, tanto più se quest'ultima comporta, per la propria realizzazione, una consistente organizzazione di mezzi e di uomini.

5.- Nelle norme del codice di procedura penale relative all'acquisizione delle prove in giudizio i valori costituzionali ora ricordati sono rappresentati in misura indubbiamente ampia e, tuttavia, parziale.

Oltre agli articoli, precedentemente indicati, concernenti le intercettazioni del contenuto di conversazioni telefoniche (artt. 266 - 271 c.p.p.), assume sicuramente rilievo l'art.256 c.p.p., il quale, nel regolare in via generale l'acquisizione di documenti coperti dal segreto professionale (o dal segreto di Stato), pone una disciplina applicabile anche all'ente gestore del servizio pubblico della telefonia e, pertanto, costituisce, per l'aspetto considerato, l'attuazione per via legislativa della tutela connessa al dovere di riserbo, implicitamente contenuto nell'art. 15 della Costituzione come garanzia istituzionale del diritto della persona alla libertà e alla segretezza delle comunicazioni.

Tuttavia, proprio in ragione della sua natura giuridica, tale garanzia, contrariamente a quanto suppone l'Avvocatura dello Stato, non può essere scambiata con la tutela direttamente attribuita ai soggetti della comunicazione in ordine alla segretezza della sfera privata che circonda l'esercizio della relativa libertà, se non altro perchè oggetto della protezione accordata dall'art. 256 c.p.p. è immediatamente l'interesse sottostante all'attività professionale, e non già quello proprio dei soggetti della comunicazione, cioé degli utenti del servizio professionalmente erogato.

Anche se la tutela relativa alla riservatezza dei dati di identificazione dei soggetti, del tempo e del luogo della comunicazione non si è finora tradotta in specifiche norme processuali, tuttavia l'acquisizione come mezzi di prova dei dati medesimi non può non avvenire nel più rigoroso rispetto delle regole che la stessa Costituzione pone direttamente, con norme precettive, a garanzia della libertà e della segretezza di ogni forma di comunicazione. Infatti, come questa Corte ha implicitamente riconosciuto (v. sent. n. 34 del 1973), non possono validamente ammettersi in giudizio mezzi di prova che siano stati acquisiti attraverso attività compiute in violazione delle garanzie costituzionali poste a tutela dei fondamentali diritti dell'uomo o del cittadino.

E, con specifico riguardo al problema in esame, la stessa Corte ha ripetutamente ribadito che, a norma dell'art. 15 della Costituzione, le informazioni o i dati comportanti intromissioni nella sfera privata attinente al diritto inviolabile della libertà e della segretezza della comunicazione possono essere acquisiti soltanto sulla base di un atto dell'autorità giudiziaria, sorretto da "un'adeguata e specifica motivazione", diretta a dimostrare la sussistenza in concreto di esigenze istruttorie volte al fine, costituzionalmente protetto, della prevenzione e della repressione dei reati (v. sentt. nn. 34 del 1973, 98 del 1976, 223 del 1987, 366 del 1991).

Ferma restando la libertà del legislatore di stabilire più specifiche norme di attuazione dei predetti principi costituzionali, il livello minimo di garanzie appena ricordato - che esige con norma precettiva tanto il rispetto di requisiti soggettivi di validità in ordine agli interventi nella sfera privata relativa alla libertà di comunicazione (atto dell'autorità giudiziaria, sia questa il pubblico ministero, il giudice per le indagini preliminari o il giudice del dibattimento), quanto il rispetto di requisiti oggettivi (sussistenza e adeguatezza della motivazione in relazione ai fini probatori concretamente perseguiti) - pone un parametro di validità che spetta al giudice a quo applicare direttamente al caso di specie, al fine di valutare se l'acquisizione in giudizio del tabulato, contenente l'indicazione dei riferimenti soggettivi, temporali e spaziali delle comunicazioni telefoniche intercorse, possa essere considerata legittima e, quindi, ammissibile.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 266 c.p.p., sollevata, in riferimento all'art. 15 della Costituzione, dal Pretore di Macerata, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26/02/93.

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

Antonio BALDASSARRE, Redattore

Depositata in cancelleria il 11/03/93.