Sentenza n. 878 del 1988

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SENTENZA N.878

ANNO 1988

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Francesco SAJA, Presidente

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, n. 3, del d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180 (T.U. delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti delle pubbliche Amministrazioni), promosso con ordinanza emessa il 30 luglio 1987 dal Pretore di Verona nel procedimento civile vertente tra la Banca d'America e d'Italia ed altra e D'Alessandro Pasquale ed altro, iscritta al n. 736 del registro ordinanze 1987 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell'anno 1987;

udito nella camera di consiglio del 9 giugno 1988 il Giudice relatore Mauro Ferri.

 

Considerato in diritto

 

1.-L'ordinanza di rimessione del Pretore di Verona pone la questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art.3 Cost., dell'art. 2, primo comma, n. 3, del d.P.R. 5 gennaio 1950 n. 180 (T.U. delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.), nella parte in cui, in contrasto con l'art. 545, quarto comma, c.p.c., non prevede la pignorabilità degli stipendi, salari e retribuzioni corrisposti dallo Stato, nei limiti di un quinto, per ogni credito vantato nei confronti del personale.

Il T.U. n. 180 del 1950 stabilisce di regola (art. 1) l'impignorabilità delle retribuzioni, o altri emolumenti, dei dipendenti pubblici e, in deroga a tale principio, la norma ora impugnata consente la pignorabilità di detti emolumenti soltanto per crediti alimentari, nella misura di un terzo, e per tributi dovuti allo Stato o debiti verso gli enti da cui il debitore dipende, derivanti dal rapporto di impiego, nella misura di un quinto.

Tale disciplina é più favorevole di quella dettata dall'art. 545 c.p.c., in materia di retribuzione dei dipendenti privati: per questi é prevista la regola generale della pignorabilità, per ogni tipo di credito, nella misura di un quinto, ad eccezione dei crediti alimentari in relazione ai quali la misura e quella autorizzata dal Pretore.

2. - Argomentando dalla sentenza n. 89 del 1987 di questa Corte, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del citato art. 2 <nella parte in cui in contrasto con l'art. 545, quarto comma, c.p.c., non prevede la pignorabilità e la sequestrabilità degli stipendi, salari e retribuzioni corrisposti da altri enti diversi dallo Stato, da aziende e da imprese di cui all'art. 1 del d.P.R. n. 180 del 1950, fino alla concorrenza di un quinto, per ogni credito vantato nei confronti del personale>, il giudice remittente rileva una ingiustificata disparità di trattamento tra i dipendenti dello Stato ed i dipendenti degli enti pubblici diversi dallo Stato in quanto permane soltanto a favore dei primi il più vantaggioso regime in tema di pignorabilità degli stipendi previsto dal citato d.P.R. rispetto alla normativa dell'art. 545 c.p.c..

Ad avviso del Pretore di Verona la rilevata disparità di trattamento non può più trovare giustificazione nella esigenza di garantire il buon andamento degli uffici e la continuità dei servizi della pubblica amministrazione, motivo che aveva indotto la Corte ad optare con le sentt. nn. 49 del 1976 e 337 del 1985 per l'infondatezza della allora proposta questione: detta esigenza sarebbe infatti riferibile non solo all'attività dello Stato ma anche a quella degli altri enti pubblici (compresi quelli territoriali) ai quali la norma non e più applicabile dopo la pronuncia n. 89 del 1987 di questa Corte. In ogni caso, ritiene il giudice a quo, la possibilità di sottoporre a pignoramento, nel limite di un quinto, gli emolumenti dei dipendenti dello Stato, anche per crediti diversi da quelli indicati nell'art. 2, primo comma, n. 3 del citato d.P.R., non appare tale da mettere in pericolo la funzionalità dei pubblici uffici.

3. - La questione é fondata.

Il nuovo regime determinatosi a seguito della sentenza n. 89 del 1987, induce questa Corte a riprendere in esame l'attuale assetto della materia, considerandone anche storicamente l'evoluzione normativa.

In tema di pignorabilità delle retribuzioni dei dipendenti pubblici e privati, la diversità di trattamento tra le due categorie si presenta come un dato costante della legislazione italiana post-unitaria: già nel codice di rito del 1865 mentre non era stato previsto alcun limite alla pignorabilità delle retribuzioni dei dipendenti privati, l'art. 591, primo comma, prescriveva che <gli stipendi e le pensioni dovuti dallo Stato non possono essere pignorati se non nei casi e nei modi stabiliti dalle leggi speciali>.

Queste ultime erano rappresentate all'epoca dalle leggi n. 1731 e n. 1807 del 1864 che consentivano la pignorabilità dei detti emolumenti per soli crediti dello Stato o alimentari, e si riferivano ai soli impiegati civili dello Stato, la prima, ed <agli ufficiali dell'armata di terra e marittima>, la seconda.

A conclusione di varie e successive disposizioni l'ambito di applicazione del regime speciale fu regolato dalla legge n. 276 del 1902 che lo estese agli emolumenti corrisposti agli impiegati, pensionati o salariati dello Stato, del Fondo per il culto, degli Economati generali, dei Comuni, delle Province e delle Opere pie, delle Camere di commercio, degli Istituti di emissione, delle Casse di risparmio e delle compagnie assuntrici di pubblici servizi ferroviari e marittimi.

Allargando, quindi, la tutela della retribuzione alla quasi generalità dei pubblici dipendenti, la legge n. 276 del 1902 poneva i tratti essenziali della disciplina destinata a giungere fino ai nostri giorni.

In termini sostanzialmente identici, infatti, le disposizioni sopra indicate erano riprese prima dalla legge n. 335 del 1908 e poi dal R.D. n. 874 del 1941 (che approvava il T.U. delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni); con un amplissimo richiamo, esso portava alla sua definitiva sistemazione la categoria dei soggetti tutelati comprendendovi i dipendenti di qualsiasi ente ed istituto pubblico <sottoposto a tutela, od anche a sola vigilanza, dell'amministrazione pubblica>.

Il legislatore repubblicano, dal suo canto, mentre per i pubblici dipendenti ha ripreso le norme del T.U. n. 874 del 1941 con il d.P.R. 5 gennaio 1950 n. 180, ha, d'altro lato, modificato, con il d.l. C.P.S. 10 dicembre 1947 n. 1548, l'art. 545 c.p.c., (il cui vecchio testo introduceva anche per i dipendenti privati il regime di pignorabilità solo per crediti determinati ed in limiti di valore prefissati), consentendo la pignorabilità, nei limiti del quinto, delle retribuzioni e delle indennità relative al rapporto di lavoro privato, per ogni tipo di credito.

4.- Com'é noto la diversità di regime é stata più volte esaminata da questa Corte fin dal 1963 con conclusioni e motivazioni in parte diverse, la cui evoluzione e l'effetto degli innegabili mutamenti nel frattempo intervenuti nella disciplina dei rapporti di lavoro pubblici e privati.

Con la sentenza n. 88 del 1963, nel respingere la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 del d.P.R. n. 180 del 1950, sotto il profilo della violazione degli artt. 3 e 28 Cost., la Corte poneva l'accento sulla differenza di status tra impiegati pubblici e privati, cui corrispondeva <una profonda diversità di situazioni>, sicché il diverso regime della pignorabilità <può ritenersi adeguato alle differenze che concorrono tra i due tipi di rapporto, tenuto anche conto del fatto che la misura della retribuzione dei pubblici dipendenti e stabilita da norme dettate in funzione dei bisogni essenziali di questi, considerati a seconda del grado, delle responsabilità assunte e del prestigio necessario all'ufficio, ma nei limiti consentiti dalle finanze dell'ente pubblico, e, d'altra parte, le limitazioni sono compensate da garanzie di stabilita dell'impiego che non si ritrovano nei rapporti di diritto privato>. Le successive decisioni, ed in particolare la n. 49 del 1976, hanno invece ritenuto non irragionevole la diversità di regime in base alla preminente esigenza di garantire il buon andamento degli uffici e la continuità dei servizi della pubblica amministrazione; osservava la Corte in quella sede: <il legislatore, più che alla natura del rapporto, ha avuto riguardo al carattere pubblico della funzione o del servizio esplicati attraverso il medesimo, preoccupandosi di escludere, salvo talune eccezioni tassativamente previste, la possibilità di sottrazione o di distrazione, anche legittima, della retribuzione dovuta ai dipendenti, nell'intento che ciò valga ad assicurare il regolare svolgimento della loro attività nell'espletamento dell'ufficio o del servizio cui sono preposti>.

Nella medesima sentenza, tuttavia, la Corte prendeva altresì atto che le differenze tra il rapporto di pubblico impiego e quello di lavoro privato erano già allora molto ridotte rispetto al passato, sottolineando in proposito l'intervenuta stabilita del rapporto di lavoro privato (legge n. 604 del l966 e n. 300 del 1970), e, per converso, la possibilità di un'attività sindacale in seno all'amministrazione statale (art. 45 e segg., legge n. 249 del 1968)o ed ancora la previsione di accordi tra pubblica amministrazione ed organizzazioni sindacali che precedono qualsiasi regolamentazione sul trattamento economico dei pubblici dipendenti (art. 9, legge n. 382 del 1975).

Infine, con la sentenza n. 89 del 1987, la Corte, pur limitando l'esame della prospettata questione ai corrispettivi dovuti ai dipendenti di enti diversi dallo Stato in corso di rapporto, la riconosceva fondata osservando che: <nessuna distinzione ontologica residua, a seguito del progressivo costante dilatarsi del settore pubblico, per oggetto dell'attività degli imprenditori ed oggetto delle prestazioni dei dipendenti, tra imprese private ed enti, aziende ed imprese di cui al citato art. 1 >.

5. - Ritiene ora questa Corte che da detta pronuncia e dalle prospettive che essa ha indicato debbano necessariamente trarsi ulteriori conseguenze nell'esame dell'odierna questione.

Occorre innanzitutto rilevare che la pubblica amministrazione non é più oggi un blocco unitario, ne sotto il profilo strutturale ne sotto il profilo funzionale; essa si articola piuttosto in un complesso di centri i quali operano nelle forme più diverse e nei più diversi regimi, così rendendo sempre meno significative le differenze tra rapporto di impiego pubblico e rapporto di lavoro privato.

Non solo con la ricordata sentenza n. 49 del 1976 la Corte riconosceva il progressivo attenuarsi delle differenze tra i due tipi di rapporto, ma anche con la successiva pronuncia n. 118 del 1976 sottolineava il realizzarsi di un processo di osmosi tra i due settori, precisando che, pur nelle innegabili differenze tra gli stessi, si rendeva possibile in sede di giudizio di legittimità costituzionale rimuovere singoli istituti che in modo ingiustificatamente difforme regolassero situazioni analoghe o identiche.

Un'applicazione di tale principio e data appunto dalla sentenza n. 89 del 1987, ove il riconosciuto venir meno di apprezzabili differenze tra i due tipi di rapporto, ha comportato, pur limitatamente ai rapporti instaurati con enti pubblici diversi dallo Stato, l'eliminazione di un trattamento ingiustamente differenziato in materia di pignorabilità della retribuzione.

Inoltre il difetto di ragionevolezza della norma impugnata e la lesione del principio di eguaglianza, concretatesi nel risolvere in senso opposto alla regola generale dell'art. 545 c.p.c. i contrastanti interessi inerenti alla posizione del debitore ed a quella dei creditore, emergono non solo dal progressivo attenuarsi delle differenze tra il rapporto di impiego pubblico e quello di lavoro privato, ma anche dal fatto che la regola dell'impignorabilità, nata in origine al fine di tutelare il buon funzionamento dei servizi pubblici, e specificatamente di quelli svolti dallo Stato, e stata man mano estesa fino a ricomprendere una serie di fattispecie e di soggetti nettamente diversi tra loro in raffronto alle caratteristiche delle prestazioni del dipendente e dei fini istituzionali dell'ente pubblico. Non appare di conseguenza più ricostruibile la ratio unitaria della norma nell'esigenza di garantire il buon andamento degli uffici e la continuità dei servizi della pubblica amministrazione.

Posto infatti che il principio di eguaglianza proclamato dall'art. 3 Cost. non può essere disatteso se non in presenza di specifici e ben individuabili motivi di pubblico interesse, cui la norma derogatrice sia funzionalmente correlata, non si vede come la norma impugnata, (che accomunava in un'unica disciplina i dipendenti dello Stato, quelli degli enti pubblici economici, degli enti pubblici territoriali, e finanche i pensionati, in ordine ai quali certamente non si pone il problema di garantire la funzionalità della pubblica amministrazione), possa oggi, dopo la parziale declaratoria d'incostituzionalità dettata dalla sentenza n. 89 del 1987, ritenersi ancora ragionevolmente e direttamente correlata a fini di pubblico interesse e quindi continuare legittimamente a dettare un regime di privilegio per i soli dipendenti dello Stato.

Invero appare arduo sostenere che l'allargamento della pignorabilità e della sequestrabilità delle retribuzioni di questi ultimi negli stessi più ampi limiti fissati dall'art. 545 c.p.c. per gli altri lavoratori subordinati sia nei fatti suscettibile di recare turbamento alla funzionalità della pubblica amministrazione.

A tal fine valgano le seguenti considerazioni: -in linea generale non appare più attuale l'affermazione (sent. n. 88 del 1963) che la misura dello stipendio dei pubblici dipendenti sia fissata in funzione dei bisogni essenziali di questi, considerati a seconda del grado e delle responsabilità, ma nei limiti consentiti dalle finanze dell'ente pubblico: ciò in quanto, come già sottolineato dalla pronuncia n. 49 del 1976, sono ormai invalse forme di contrattazione collettiva anche nel settore del pubblico impiego; -se quindi la misura della retribuzione del pubblico dipendente e oggi fissata in funzione di parametri assai simili a quelli del rapporto di lavoro privato, la pignorabilità di una frazione della retribuzione limitata al quinto, così come previsto per i dipendenti privati, non può essere ritenuta tale da precludere al pubblico dipendente il regolare svolgimento della propria attività: la misura della decurtazione non sembra tale da compromettere l'esigenza di assicurare un'esistenza libera e dignitosa, che se così non fosse dovrebbe dedursene l'incostituzionalità dell'art. 545, quarto comma, c.p.c., per violazione dell'art. 36 Cost. (v. sent. n. 209 del 1975); -ciò é tanto più vero ove si consideri che lo stesso legislatore ha consentito, all'art. 5 del d.P.R. n. 180 del 1950, la cessione del quinto dello stipendio in estinzione di prestiti contratti per qualsiasi motivo, alla sola condizione che gli enti creditori siano quelli indicati nel successivo art. 15.

La questione sollevata dal Pretore di Verona, nei limiti di rilevanza della stessa nel giudizio a quo, vale a dire limitatamente ai corrispettivi percepiti dai dipendenti dello Stato in virtù del rapporto di lavoro in corso, va pertanto dichiarata fondata.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, n. 3, del d.P.R. 5 gennaio 1950 n. 180 (T.U. delle leggi concernenti il sequestro, pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti delle pubbliche Amministrazioni) nella parte in cui non prevede la pignorabilità e la sequestrabilità degli stipendi, salari e retribuzioni corrisposti dallo Stato, fino alla concorrenza di un quinto, per ogni credito vantato nei confronti del personale.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 07/07/88.

 

Francesco SAJA - Mauro FERRI

 

Depositata in cancelleria il 26/07/88.