Sentenza n.475 del 1988

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SENTENZA N.475

ANNO 1988

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Francesco SAJA Presidente

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 24 del D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 (Norme generali per l'igiene del lavoro), promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 29 aprile 1980 dal Tribunale di Siena nel procedimento penale a carico di Verdiani Bruno, iscritta al n. 448 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 228 dell'anno 1980;

2) ordinanza emessa l'11 luglio 1980 dal Pretore di Pistoia nel procedimento penale a carico di Imbarrato Rino Bruno, iscritta al n. 648 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 304 dell'anno 1980;

3) ordinanza emessa il 18 giugno 1981 dal Pretore di Desio, nel procedimento penale a carico di Cassina Franco, iscritta al n. 608 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5 dell'anno 1982;

4) ordinanza emessa il 30 giugno 1984 dal Pretore di Nola, nel procedimento penale a carico di De Falco Antonio, iscritta al n. 1212 del registro ordinanze 1984 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 65 bis dell'anno 1985.

Visto l'atto di costituzione di Verdiani Bruno, nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 23 febbraio 1988 il Giudice relatore Ettore Gallo;

uditi l'avvocato Aldo Aranguren per Verdiani Bruno e l'Avvocato dello Stato Stefano Onufrio per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Considerato in diritto

1.-Si sostiene da parte dei giudici rimettenti l'impossibilita per l'interprete di dare un concreto contenuto alla norma impugnata, e quindi per il cittadino di desumerne una precisa regola di condotta, in quanto <non sussistono nell'ordinamento giuridico norme che fissino i limiti massimi di tollerabilità della rumorosità negli ambienti di lavoro>. E si fa carico al legislatore di non avervi provveduto ne con il d.P.R. 9 giugno 1975 n. 482, ne a seguito della l. 23 dicembre 1978 n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale): legge che aveva espressamente previsto, al secondo comma dell'art. 4, che il Presidente del Consiglio (su proposta del Ministro della Sanità, sentito il Consiglio sanitario nazionale) avesse a fissare, con suo decreto, i limiti massimi delle emissioni sonore negli ambienti di lavoro, abitativi e nell'ambiente esterno, periodicamente sottoponendoli a revisione.

Da tale situazione si fanno derivare gravi conseguenze d'incompatibilità costituzionale sia per il giudice che per i cittadini, nella specie imprenditori industriali, imputati di lesioni colpose aggravate per avere cagionato ad alcuni lavoratori fenomeni patologici di ipoacusia a causa delle forti emissioni rumorose nell'ambiente di lavoro. Per quanto attiene alla funzione del giudice- si dice- se questi azzardasse di supplire alla carenza, identificando il limite di tollerabilità dei rumori, andrebbe a violare l'art. 70 Cost. (ma per il Pretore di Nola si tratterebbe, invece, dell'art. 101), in quanto si arrogherebbe poteri propri del legislatore. E per quanto riguarda il cittadino, l'omissione del legislatore frustrerebbe ad un tempo tanto il principio di legalità quanto quello di uguaglianza. Il primo, perchè la norma impugnata, a causa della sua genericità ed indeterminatezza, non consentirebbe di conoscere quale sia l'esatto comportamento imposto dalla legge. Il secondo, perchè l'imprenditore interessato e posto così in posizione di svantaggio a fronte di quanti, invece, in presenza di norma chiara e precisa, sono in grado di rispettare agevolmente la volontà della legge.

La questione non é fondata.

2.-E evidente che i giudici rimettenti hanno enfatizzato il valore di quegli interventi normativi che si sostanziano nelle cosiddette <tabelle>, fino al punto da affermare impossibile, senza di esse, l'esercizio della loro funzione: e ciò proprio quando la tendenza generale si va manifestando, invece, in senso decisamente contrario.

La stessa giurisprudenza di merito, infatti, ha rifiutato in più occasioni di attenersi a criteri numerici normativamente prefissati, ogniqualvolta e parso che questi rappresentassero un limite alla libertà di giudizio, in riferimento alla concreta realtà delle situazioni sottoposte all'esame del giudice. Ma anche questa Corte ha ormai superato l'inderogabilità delle tassative indicazioni delle tabelle in materia di malattie professionali, ammettendo il lavoratore a provare sia l'esistenza di malattie dovute ad esposizioni lavorative diverse da quelle elencate, sia la loro insorgenza oltre i termini temporali previsti dalle tabelle (sent.ze 10 novembre 1987 nn. 179 e 206).

Comunque, é da escludere, intanto, che il legislatore potesse provvedere-come si pretende nelle ordinanze-mediante il d.P.R. 9 giugno 1975 n. 482. Questo decreto, infatti, aveva il solo scopo di apportare <modificazioni e integrazioni alle tabelle delle malattie professionali> già allegate al d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124, che aveva approvato il T.U. per l'assicurazione obbligatoria contro gl'infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Come si può agevolmente rilevare dalle tabelle stesse, queste non fissano limiti di sorta ne alle esalazioni ne alle emissioni rumorose: e ciò perchè, come le precedenti che modificano o integrano, sono dirette esclusivamente ad identificare le fonti di insorgenza di talune malattie professionali, ed il periodo massimo entro cui, dopo la cessazione dal lavoro, le malattie contratte sono ammesse al riconoscimento per la pensione d'invalidità.

E' vero, invece, che, istituendo il servizio sanitario nazionale, il legislatore aveva demandato al Presidente del Consiglio di stabilire i limiti massimi di accettabilità (fra l'altro anche) delle emissioni sonore negli ambienti di lavoro. L'intento era quello - come risulta dal primo comma- <di assicurare condizioni e garanzie di salute uniformi per tutto il territorio nazionale>.

Ciò sta ad indicare che il legislatore era ben consapevole che il complesso normativo, fino a quel momento vigente, già assicurava condizioni e garanzie di salute ai lavoratori e ai cittadini in genere; si preoccupava, però, di dare ad esse carattere di uniformità.

Ma il designato organo dell'esecutivo non se n'é dato carico.

3. -A seguito di tale omissione le parti private hanno ritenuto di ravvisare nell'art. 24 impugnato una <norma penale in bianco> lacunosa ed inapplicabile, in quanto carente della concretizzazione del precetto da parte della pubblica amministrazione. Ma la disposizione impugnata non ha per nulla la struttura pretesa. Essa, infatti, lungi dal demandare ad alcun altro l'integrazione del comando, lo delinea compiutamente nell'ambito stesso della norma prescrivendo all'imprenditore che se le lavorazioni producono <...rumori dannosi ai lavoratori, devono adottarsi i provvedimenti consigliati dalla tecnica per diminuirne l'intensità>. L'imprenditore, perciò, é perfettamente consapevole del comportamento che la legge esige ove si verifichi la dannosità dei rumori, perchè il precetto non postula l'intervento di alcuna altra autorità.

Vero é, invece, che la norma rimanda ai suggerimenti della tecnica, ma é questa l'ipotesi dei cosiddetti <elementi normativi della fattispecie> che si hanno ogniqualvolta il legislatore fa riferimento a concetti che hanno la loro fonte o in altre discipline dell'ordinamento o in altri settori dello scibile o addirittura in regole che vengono dal costume o dalla sensibilità sociale. Un fenomeno normativo non infrequente, di cui esempi classici sono quelli del concetto di <osceno>, o quello di <comune sentimento del pudore>.

Nella specie, vengono evocati dalla norma <i provvedimenti consigliati dalla tecnica>: quella tecnica, peraltro, dove il giudice attinge suggerimenti e pareri ogniqualvolta, indipendentemente da un rinvio normativo, debba risolvere nel processo questioni che presuppongono nozioni tecniche. E vi attinge sia direttamente, attraverso la sua personale cultura o ricerca, sia indirettamente, attraverso l'ausilio del perito.

Un procedimento consueto, dunque, alla formazione del giudizio, che i giudici hanno ben utilizzato nella specie durante oltre un ventennio, prima che il legislatore avesse esperito il tentativo di dare a giudici e cittadini un criterio di uniformità. Ma non si comprende perchè, in mancanza di tale criterio, dovuta ad omissione dell'organo di governo, la norma non debba continuare a svolgere quell'imperio che per tanti anni ha potuto regolarmente conseguire i suoi effetti.

E' ben vero che, durante il corso di così lungo tempo, é pervenuta alla Corte di Cassazione qualche doglianza come quelle oggi sottoposte all'esame di questa Corte. Ma la Cassazione ha costantemente respinto anche i dubbi di legittimità costituzionale adombrati.

4.-Ed, in realtà, non può farsi questione di genericità e indeterminatezza della fattispecie (art. 25 Cost.) quando il legislatore fa riferimento ai suggerimenti che la scienza specialistica può dare in un determinato momento storico. Ne per l'imprenditore, ne per il giudice, può rappresentare un problema la consultazione della scienza, una volta che -come ha indicato l'Avvocatura dello Stato-esistono nelle Università cliniche del lavoro, fornite anche di laboratori di igiene industriale, nonchè una Società italiana di audiologia e foniatria e, in definitiva, anche una letteratura del Centro nazionale delle ricerche, aggiornata alle esperienze internazionali. D'altra parte, la doglianza dei giudici rimettenti non tanto s'appunta sui provvedimenti da assumere per diminuire l'intensità del rumore, quanto sulla mancanza di indicazioni circa la soglia di tollerabilità, raggiunta la quale l'imprenditore ha il dovere di adottare i provvedimenti imposti dalla norma.

Ebbene non é nemmeno esatto che nell'ordinamento non vi sia alcuna indicazione in proposito. Al contrario, il d.P.R. 5 maggio 1975 n. 146, che disciplina le misure e le modalità di corresponsione delle indennità di rischio al personale civile e agli operai dello Stato, enumera le prestazioni di lavoro che comportano continua e diretta esposizione <a rischi pregiudizievoli alla salute o all'integrità personale>: e, fra queste, indica proprio quelle prestazioni che impongono l'esposizione <a rumori superiori a 95 decibel in luogo aperto o ad 85 decibel in luogo chiuso>. Mentre poi giudica pericolose quelle lavorazioni <che comportano esposizione diretta e continua a rumori non inferiori a 80 decibel in luogo chiuso>. Ce n'é abbastanza perchè il giudice possa almeno orientare il suo giudizio ed esprimere il suo prudente apprezzamento, sia pure con l'ausilio di o perizia; così come ce n'e a sufficienza perchè l'imprenditore possa interpellare i tecnici per adottare ogni accorgimento atto a contenere la rumorosità entro limiti innocui, come un'insonorizzazione che attenui la pressione del rumore.

Ed é poi senza pregio il rilievo secondo cui l'imprenditore, dovendo seguire i progressi della tecnica, sarebbe costretto costantemente ad inseguire il limite determinato dall'aggiornamento tecnologico, sottoponendosi ad una vera e propria <fatica di Sisifo>. Infatti, allo stesso modo dovrebbe comunque comportarsi per inseguire quelle <periodiche revisioni> cui il Presidente del Consiglio dovrebbe sottoporre i limiti prefissati, se si desse attuazione al tanto invocato art. 4 della legge istitutiva del servizio sanitario. Il quale Presidente del Consiglio, peraltro, non potrebbe certo inventare a suo libito nè i limiti nè le revisioni, giacchè egli pure, a sua volta, dovrebbe rivolgersi ai suggerimenti della tecnica.

Del resto, l'adozione di misure idonee a garantire la salute fisica del lavoratore é materia di specifica obbligazione a carico dell'imprenditore (art. 2087 cod. civ. e 9 Stat. lavoratori), che l'art. 24 impugnato concreta nell'adozione di specifici provvedimenti idonei nelle situazioni contemplate dalla norma. Nè é possibile sfuggire a quegli imperativi adombrando il valore privatistico di quelle norme rispetto ad un preteso contenuto pubblicistico della disposizione impugnata. Infatti, quand'anche così fosse, l'art. 32 della Costituzione tutela la salute sia come valore individuale sia come interesse della collettività.

Alla fine, poi, va ricordato che questa Corte ha già avvertito in passato (sent. n. 27 del 27 maggio 1961;  n 49 del 14 aprile 1980) che il principio di legalità <non é attuato nella legislazione penale seguendo sempre un criterio di rigorosa descrizione del fatto. Spesso le norme penali si limitano ad una descrizione sommaria e all'uso di espressioni meramente indicative, realizzando nel miglior modo possibile l'esigenza di una previsione tipica dei fatti costituenti reato>.

La necessaria integrazione della norma operata dal prudente concreto apprezzamento del giudice che utilizza nozioni e concetti di comune esperienza o le indicazioni della tecnica, non comporta certo invasione dei poteri riservati al legislatore, trattandosi anzi di attività propria del processo interpretativo, che del magistero giudiziario é fondamentale espressione.

E una volta chiarito che anche a fronte della norma impugnata la conoscibilità del precetto non é nè diversa nè inferiore alle altre norme, anche la pretesa violazione dell'art. 3 Cost. mostra la sua inconsistenza.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 24 del d.P.R. 19 marzo 1956 n. 303 (Norme generali per l'igiene del lavoro) sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25 e 70 Cost., dal Tribunale di Siena con ordinanza 29 aprile 1980, dal Pretore di Pistoia con ordinanza 11 luglio 1980, dal Pretore di Desio con ordinanza 18 giugno 1981 e, in riferimento agli artt. 3, 25 e 101 Cost., dal Pretore di Nola con ordinanza 30 giugno 1984.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20/04/88.

Francesco SAJA, PRESIDENTE

Ettore GALLO, REDATTORE

Depositata in cancelleria il 27 Aprile 1988.