Sentenza n.203 del 1985

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 203

ANNO 1985

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN, Presidente

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 147, primo comma, d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092 (Testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato) promosso con ordinanza emessa il 22 aprile 1981 dalla Corte dei Conti sul ricorso proposto da Novotny Maria iscritta al n. 152 del registro ordinanze 1983 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 205 dell'anno 1983;

visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 23 aprile 1985 il Giudice relatore Aldo Corasaniti;

udito l'Avvocato dello Stato Pietro De Francisci per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Giudicando sul ricorso proposto da Maria Novotny - già segretario capo negli istituti magistrali, collocata a riposo a decorrere dal 1 novembre 1968, con trattamento pensionistico commisurato a 36 anni di servizio utile - in relazione al diniego da parte della P.A. di ammetterla al riscatto del servizio pre-ruolo per intervenuta decadenza dal relativo diritto - la Corte dei Conti - Sezione III giurisdizionale, con ordinanza emessa il 22 aprile 1981, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 36 e 38 Cost., dell'art. 147, comma primo, del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092 (Testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), ritenuto applicabile nella fattispecie per effetto del successivo art. 256, nella parte in cui prescrive la sanzione della decadenza dal diritto di riscatto di periodi o servizi, ove la relativa domanda non sia prodotta dal dipendente entro il termine di due anni prima del raggiungimento del limite di età previsto per la cessazione del servizio.

Ha premesso il giudice a quo che la prefissione di termini per la presentazione delle domande di riscatto dei servizi non di ruolo é stata diversamente disciplinata nel tempo: dall'art. 2 del R.D. 21 novembre 1923, n. 2480, modificato con R.D. 30 dicembre 1923, n. 2835, che consentiva la presentazione della domanda durante il servizio o nei successivi 90 giorni, a pena di decadenza; dall'art. 2 della l. 5 maggio 1952, n. 251, che fissava il termine di decadenza di due anni prima del collocamento a riposo: dall'art. 6 della legge 15 febbraio 1958, n. 46, che elevava a tre anni il suddetto termine ed era in vigore all'epoca della proposizione della domanda di riscatto da parte della ricorrente; dall'art. 147 del T.U. n. 1092 del 1973, che ha ridotto a due anni il termine, ed é applicabile, in forza del successivo art. 256, ai casi in corso di trattazione, in sede amministrativa o giurisdizionale.

La cennata fissazione di termini é chiaramente ispirata dall'intento di realizzare, con ogni possibile sollecitudine, la liquidazione del trattamento di quiescenza del personale che cessa dal servizio, ma il soddisfacimento di tale esigenza - peraltro già parzialmente realizzata mediante l'istituto della pensione "provvisoria", commisurato ai servizi sicuramente accertati - non sembra, ad avviso della Corte dei Conti, giustificare la delimitazione, entro rigorosi termini, dell'esercizio del diritto di riscatto.

Finalità intrinseca dell'istituto é infatti proprio quella di porre il dipendente nella condizione o di conseguire il minimo di servizio utile a pensione, ovvero quella di incrementare il trattamento di quiescenza mediante una più ampia valutazione dei servizi e periodi quiescibili. "Pensione" e "riscatto", cioé, sono istituti diversi ma non antitetici, anzi, correlativi, nel senso che l'uno (riscatto) é strumentalmente preordinato all'altro (pensione) come mezzo al fine. Ne deriva, a parere della Corte, che di fronte alla dichiarata imprescrittibilità del diritto a pensione, incoerente ed irrazionale appare la comminata sanzione della decadenza irrogata nel caso di tardiva presentazione della domanda di riscatto: sanzione sproporzionata rispetto alla esiguità del comportamento inerte del dipendente, soprattutto nel caso in cui, per il denegato riscatto, non sia possibile raggiungere il minimo di servizio utile (con la conseguente perdita del diritto alla pensione stessa).

Ha ancora osservato il giudice a quo che l'affinità tra i due istituti e la irrazionalità del regime decadenziale applicabile all'esercizio del diritto di riscatto rispetto alla affermata imprescrittibilità del diritto a pensione evidenziano, in modo ancor più chiaro, che, mediante l'apposizione di termini decadenziali, l'Amministrazione si sottrae ingiustificatamente al precetto costituzionale che sancisce il diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato (art. 36, comma primo, Cost.). In effetti, i servizi dei quali il dipendente, sia pure tardivamente, chiede il riscatto ai fini di quiescenza, sono servizi "resi", ossia lavoro prestato il cui riconoscimento, anche sotto il profilo della "retribuzione differita" (quale la pensione, secondo l'insegnamento della Corte costituzionale) non può essere disatteso.

Inoltre - ad avviso della Corte - la comminata sanzione priverebbe ingiustamente il lavoratore di quei mezzi di garanzia e sicurezza che sono accordati dall'art. 38 della Carta costituzionale.

Viene infine rilevato che la denegata valutazione in quiescenza dei servizi e periodi il cui riscatto non sia stato tempestivamente richiesto, sembra violare l'art. 3 Cost., per il macroscopico contrasto (disparità di trattamento) sussistente tra il trattamento riservato ai ritardatari - cioé ai dipendenti responsabili unicamente di aver prodotto tardivamente la domanda di riscatto, i quali si vedrebbero privare del riconoscimento ai fini pensionistici del servizio riscattabile prestato - rispetto a quegli altri dipendenti, responsabili sotto un aspetto ben più rilevante (i destituiti a seguito di condanna penale, i colpiti da gravi sanzioni disciplinari) i quali hanno ottenuto, in sede legislativa, il riconoscimento della intangibilità, ai fini di quiescenza, dei servizi prestati.

Ha svolto intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, contestando la fondatezza della questione.

Ha osservato l'Avvocatura dello Stato che non sembra sussistere il ravvisato contrasto tra l'art. 147, comma primo, del T.U. n. 1092 del 1973, e gli artt. 3, 36 e 38 Cost..

Invero, l'istituto del riscatto - mediante il quale periodi di servizio altrimenti non computabili in quiescenza divengono utili ai fini dell'acquisto o della determinazione della misura del trattamento pensionistico - ha formato oggetto di reiterate disposizioni di legge tendenti, da una parte, ad una sempre maggiore tutela degli interessi dei lavoratori, e dall'altra a salvaguardare le esigenze della P.A., intese a realizzare un rapido e corretto svolgimento dell'azione amministrativa. La norma dell'art. 147, comma primo, T.U. n. 1092 del 1973, la quale affida la facoltà del riscatto alla specifica richiesta degli interessati e quindi alla valutazione della convenienza economica dell'iniziativa, non sembra contrastare con i suindicati precetti costituzionali, in quanto il sistema che essa introduce esprime una scelta legislativa, opinabile come qualunque scelta, ma non certo irrazionale, e quindi censurabile sotto il profilo costituzionale, né lesiva del diritto alla pensione come parte di retribuzione differita.

Né tale illegittimità é dato ravvisare - ad avviso dell'Avvocatura dello Stato - per il diverso trattamento fatto per il comportamento omissivo degli interessati rispetto a quello previsto nei confronti di coloro che siano stati colpiti da condanna penale o provvedimento disciplinare, ove si consideri innanzi tutto che la intangibilità del trattamento pensionistico nei confronti di questi ultimi, stabilita dalla legge 8 giugno 1966, n. 424, ha sempre come presupposto che siano maturate tutte le altre condizioni di legge per il venire in essere del relativo diritto, e d'altra parte che si verte in tema di situazioni del tutto diverse, che necessariamente richiedono ciascuna una peculiare regolamentazione in vista delle finalità perseguite in ognuna di esse dal legislatore.

 

Considerato in diritto

 

1. - Con l'ordinanza in epigrafe é messa in dubbio sotto vari profili la legittimità costituzionale della norma, racchiusa nell'art. 147, comma primo, del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092 (recante approvazione del testo unico delle norme di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), con la quale é stabilito che il diritto del dipendente di far valere ai fini della liquidazione della pensione servizi o periodi computabili a domanda - nella specie il diritto di riscatto del servizio prestato nei confronti dello Stato anteriormente all'assunzione in ruolo - deve essere esercitato a pena di decadenza almeno due anni prima del raggiungimento del limite di età previsto per la cessazione del servizio.

2. - Sostiene in primo luogo il giudice a quo che l'assoggettamento a decadenza del diritto al riscatto del servizio preruolo costituisce una deviazione dai principi osservati dallo stesso d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, nel trattamento normativo del diritto alla pensione, col sancirne l'imprescrittibilità (art. 5). Deviazione che, pur essendo inspirata all'apprezzabile finalità di accelerare la liquidazione del trattamento di quiescenza, sarebbe ingiustificata in relazione all'indissolubile collegamento fra i due istituti, derivante dall'essere l'esercizio del diritto di riscatto strumentalmente preordinato all'acquisizione del diritto a una pensione di maggior ammontare o addirittura, attraverso il raggiungimento del minimo di servizio utile, del diritto alla pensione.

La questione di legittimità così posta in riferimento al principio di eguaglianza (art. 3, comma primo, Cost.) non é fondata.

Il diritto alla pensione, anche se ha per contenuto prestazioni periodiche di danaro, é considerato dalla normativa vigente come situazione finale e sottratto a conseguenze negative astrattamente collegabili all'inerzia del titolare in ragione delle esigenze di certezza e di stabilità connesse alla sua funzione, attinente alla sopravvivenza della persona.

Ma a tali esigenze non contraddice affatto (cfr. del resto l'art. 2968 c.c.) che le vicende volte a determinare i presupposti di consistenza quantitativa o addirittura di esistenza del diritto alla pensione si svolgano entro limiti temporali; né in particolare che l'azionamento di tali vicende sia rimesso dalla legge all'iniziativa dell'interessato, atteggiata come esercizio di un distinto diritto strumentale, e che questo sia sottoposto a decadenza in caso di mancato esercizio entro un termine.

Assetto normativo, quello ora descritto, che assume particolari evidenza e plausibilità quando, come in ipotesi del genere, la vicenda importi l'assunzione di oneri per il destinatario delle prestazioni (versamento di contributi) ovvero di rischio per l'ente erogatore (utilizzo di contributi progressi).

La configurazione ope legis del diritto al riscatto e del diritto alla pensione come due diritti antologicamente distinti e strutturalmente diversi - configurazione d'altronde in sé non contestata ed anzi necessariamente presupposta dalla invocazione del principio di eguaglianza almeno per quel che concerne l'ontologica dualità - e l'assoggettamento dei due diritti ai diversi regimi indicati non danno dunque vita alla violazione del detto principio.

3. - Un ulteriore profilo di illegittimità per violazione del principio di eguaglianza (art. 3, comma primo, Cost.) é prospettato dal giudice a quo. Questi sostiene che la norma impugnata opera un’ingiustificata disparità di trattamento in danno del dipendente incorso nell’inosservanza del termine fissato alla presentazione della domanda di riscatto, sol per questo assoggettato alla perdita del diritto, rispetto al dipendente, responsabile di illeciti penali o disciplinari, ciononostante mantenuto o reintegrato dalla legge (l. 8 giugno 1966, n. 424) nella titolarità e nella fruizione del trattamento di quiescenza relativo ai servizi prestati.

Ma ad escludere la fondatezza anche di questo secondo profilo valgono le ragioni esposte a proposito del primo o ragioni ad esse analoghe.

Invero, una volta ritenuta giustificata la configurazione del diritto al riscatto come distinto e diverso da quello alla pensione, e giudicato compatibile il regime decadenziale dell'uno col regime di imprescrittibilità dell'altro, appar chiaro che nessuna contraddizione, tanto meno ingiustificata, ricorre fra il regime decadenziale del diritto al riscatto e quello di immunità del diritto alla pensione (come acquisito nell'an e nel quantum) da sanzioni privative connesse a comportamenti illeciti del titolare.

4. - Rappresenta altresì il giudice a quo che, mediante l'adozione del regime decadenziale censurato, la Pubblica Amministrazione si sottrae al precetto (art. 36 Cost.) che sancisce il diritto del lavoratore a una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato (nella specie il servizio pre-ruolo), nonché al precetto (art. 38 Cost.) che appresta al lavoratore stesso la garanzia di sicurezza per il caso di bisogno.

Unificati i due profili - come si deve in tema di trattamento di quiescenza, anche e soprattutto quando se ne postula l’inadeguatezza in relazione alla qualità e quantità del lavoro svolto - é da premettere che i medesimi implicano una visuale del rapporto fra diritto alla pensione e diritto al riscatto diversa da quella, dualistica, necessariamente presupposta dalle dedotte violazioni del principio di eguaglianza.

Si postula qui che al collegamento intercorrente fra i due diritti sia sottesa una profonda unità sostanziale, rinvenuta nell'interesse protetto del dipendente al trattamento di quiescenza (adeguato o sufficiente), interesse che si considera strumentato mediante un unico diritto, rispetto al cui esercizio la prefissione di un termine decadenziale costituirebbe un limite. E si fa questione della legittimità del limite in relazione alla garanzia costituzionale del diritto limitato.

Ma anche a voler seguire per un momento siffatta impostazione la questione così introdotta non appare comunque fondata.

Al riguardo é sufficiente richiamarsi alla giurisprudenza costante di questa Corte nel senso che l'esercizio di ogni diritto, anche quello costituzionalmente garantito, può essere dalla legge regolato e così sottoposto a limite, sempre che questo sia compatibile con la funzione del diritto di cui si tratta (cfr. fra le altre la sentenza n. 36 del 1958, nonché la sentenza n. 234 del 1974, questa in materia previdenziale) e non si traduca comunque nella esclusione dell'effettiva possibilità dell'esercizio in parola (cfr. fra le altre le sentenze n. 31 del 1977 e n. 56 del 1979). Ed é sufficiente notare che non ricorre la prima delle due ipotesi, ove si consideri la finalità del limite di cui si tratta quale é indicata dal giudice a quo (quella di accelerare le procedure di liquidazione della pensione), né ricorre la seconda ove si consideri la non breve durata del termine (scadente solo due anni prima della data di raggiungimento del limite di età previsto per la cessazione del servizio).

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondate le questioni di legittimità dell'art. 147, primo comma, del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, proposte, in riferimento agli artt. 3, comma primo, 36 e 38 Cost., dalla Corte dei Conti con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 luglio 1985.

Guglielmo ROEHRSSEN - Aldo CORASANITI

Depositata in cancelleria il 15 luglio 1985.